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AL VICARIO DEL SIGNORE, IL PADRONE GESU' ("DOMINUS IESUS"), UN GIURAMENTO DI OBBEDIENZA CIECA E ASSOLUTA. UNICA RILEVANTE ECCEZIONE: CARLO MARIA MARTINI. A partire dal funerale, cominciata l'operazione "anestesia". Una nota di Vito Mancuso - con appunti,a c. di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: September 11 2012 20:08:44.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 09/9/2012 21.11
Titolo:«Voleva che l’ultima intervista fosse inserita nel testamento»
L’ultima intervista: «Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»

intervista a Carlo Maria Martini

a cura di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri (Corriere della Sera, 1 settembre 2012)

Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l’8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

Come vede lei la situazione della Chiesa?

«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione».

Chi può aiutare la Chiesa oggi?

«Padre Karl Rahner usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?

«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?

Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti.

Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...).

L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L’amore è grazia. L’amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»

Lei cosa fa personalmente?

«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

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- «Voleva che l’ultima intervista fosse inserita nel testamento»
- intervista a Federica Radice

a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 4 settembre 2012)

«Quando ho incontrato per l’ultima volta il cardinale era il 23 agosto. Avevamo fatto avere a don Damiano Modena il testo della conversazione che il cardinale Martini aveva avuto con padre Georg Sporschill e me due settimane prima, l’8. Padre Sporschill aveva limato il testo in tedesco, io l’avevo ritradotto in italiano per poi mandare a Gallarate le due versioni, il cardinale aveva letto e approvato.

Quel giorno don Damiano mi disse: il testo è stupendo ma è molto forte, aspettiamo a renderlo pubblico dopo la morte. Tutti avevamo la consapevolezza che fosse una sorta di testamento. E ormai sapevamo che era una questione di giorni. L’idea era che quel testo facesse parte anche del suo lascito testamentario, don Damiano lo aveva già consegnato all’esecutore». Federica Radice Fossati Confalonieri non fa la giornalista, vive a Vienna e ha impegni più urgenti, «mi occupo dei miei tre bambini», è una delle persone che in questi anni è stata più vicina al cardinale, «un amico, un padre spirituale, un confessore: fu padre Georg a presentarmelo, nella Pasqua del 2008 a Gerusalemme».

La eco mondiale della «conversazione» con Martini pubblicata dal Corriere l’ha colta di sorpresa, ma fino a un certo punto. Il lamento per una Chiesa «stanca» e «rimasta indietro di 200 anni», l’invito a «liberare la brace dalla cenere», il bisogno di «uomini che ardono in modo che lo Spirito possa diffondersi ovunque», le domande: «Come mai non si scuote? Abbiamo paura?», l’esortazione: «Fede, fiducia, coraggio».

E gli occhi di Martini che sembravano ardere a loro volta, racconta Federica Radice Fossati Confalonieri, quando chiese secco a padre Georg: «E tu, che cosa puoi fare tu per la Chiesa?». La signora sorride: «L’ho visto vacillare, e far vacillare un uomo come Sporschill non è facile: uno che cercava i bambini nelle fogne in Romania, che ne ha salvati più di mille, un santo vivente. Lo dico per spiegare a chi il cardinale ha aperto l’ultima volta il suo cuore».

Non «un’intervista» dice, «piuttosto l’ultima conversazione, l’epilogo delle Conversazioni notturne a Gerusalemme che è diventato il libro più letto di Martini». Una conversazione che ha stupito loro per primi: «Pensavamo di parlare dieci minuti e siamo andati avanti due ore, padre Sporschill in tedesco, il cardinale in italiano e io, una donna laica, che traducevo e mi trovavo ad essere testimone di quel dialogo tra due grandi gesuiti».

Avevano deciso di andare a trovarlo quando don Damiano Modena era andato a Vienna in giugno. «Per Martini era un figlio spirituale, gli aveva detto: dopo la mia morte andrai da padre Georg». Decisero di rivedersi all’Aloisianum di Gallarate, la casa dei gesuiti dove Martini ha passato gli ultimi anni. Rimasero tutto il giorno, quell’otto agosto: la messa al mattino, dopo il pranzo e il riposo quella conversazione serrata di due ore nel pomeriggio. E Martini che, nonostante la fatica, sembrava sentisse l’urgenza di proseguire: «Continuava a parlare, andava avanti, io ero sbigottita. Poi, quando abbiamo finito, ha detto sollevato: adesso prendiamo il tè».

Non un attacco alla Chiesa, piuttosto un atto d’amore: «Non ha parlato di persone. L’attacco, semmai, è alla struttura rigida che vincola la Chiesa, i "vincoli dell’istituzione". La necessità di fare breccia, di aprirsi. Quando parlava dell’apparato burocratico ci ha detto: "Il nostro patrimonio culturale che dobbiamo conservare è ancora in grado di servire l’evangelizzazione e gli uomini? Oppure intrappolano le nostre forze in modo da paralizzarci quando un bisogno ci schiaccia?"».

Federica Radice Fossati Confalonieri si concede una breve risata: «Diceva che c’era bisogno di cardinali un po’ matti, di gente fuori dalle righe, persone che rompessero le barriere e sapessero portare novità. Come Madre Teresa». Poi ricorda quel 23 agosto: «Mi ha chiesto della mia famiglia, dei figli. Io gli ho domandato la sua benedizione. Sono uscita in lacrime. È difficile salutarsi quando sai che, su questa terra, non ti rivedrai più».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 09/9/2012 22.17
Titolo:GAUDIUM ET SPES: 16. Dignitaà della coscienza morale, 17. Grandezza della liber...
L’insegnamento del Vaticano II. "Gaudium et spes":


"16. Dignità della coscienza morale.

Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro.

L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (17). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità (18).

Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo (19). Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità.

Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato.

17. Grandezza della libertà.

Ma l'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà.

I nostri contemporanei stimano grandemente e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione. Spesso però la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male.

La vera libertà, invece, è nell'uomo un segno privilegiato dell'immagine divina.

Dio volle, infatti, lasciare l'uomo « in mano al suo consiglio » (20) che cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione.

Perciò la dignità dell'uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna. L'uomo perviene a tale dignità quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine mediante la scelta libera del bene e se ne procura con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti. Questa ordinazione verso Dio, la libertà dell'uomo, realmente ferita dal peccato, non può renderla effettiva in pieno se non mediante l'aiuto della grazia divina.

Ogni singolo uomo, poi, dovrà rendere conto della propria vita davanti al tribunale di Dio, per tutto quel che avrà fatto di bene e di male (21)".
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 10/9/2012 09.18
Titolo:Il Vaticano II, L'Assemblea del 15 settembre, e le due logiche che si fronteggia...
Il Concilio Vaticano II mezzo secolo dopo

di Nino Lisi (il manifesto, 8 settembre 2012)

L’11 ottobre si compiranno cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II e se ne annunciano le prime commemorazioni. Una si terrà a Roma il 15 settembre nell’auditorium dell’istituto Massimo, all’Eur. La promuovono una novantina di soggetti tra riviste, associazioni e comunità, con l’intento di guardare al Concilio con gli occhi d’oggi. Approccio quanto mai opportuno, perché da anni è in atto un dibattito su un dilemma interpretativo: il Concilio segnò o no una discontinuità con il passato?

La risposta è importante, perché da essa dipenderà se la carica innovativa del Concilio sarà definitivamente soffocata o no; questione che non riguarda solo i «credenti». In realtà, per alcuni temi il Concilio fu davvero dirompente; per altri segnò una conferma. Perché allora il dibattito? Perché dietro di esso si nasconde una dialettica che, non raramente, diviene scontro tra due logiche che si fronteggiano nella chiesa quasi dai suoi albori.

Una, «istituzionale», è protesa a custodire una verità ritenuta compiutamente rivelata e a tutelarne l’integrità. Per farlo si è istituita l’area inaccessibile del sacro, cui solo pochi (la gerarchia) vengono ammessi per cooptazione, e vi si è rinchiuso il «patrimonio della fede». Si è così rinnovato quel potere del tempio che Gesù combatté e dal quale fu messo a morte; potere che, oltre a sospingere uomini e donne a rendere a Dio gloria nei cieli, non può fare ameno di preoccuparsi del proprio rafforzamento.

L’altra logica, «dell’annuncio», è protesa a diffondere il detto evangelico secondo cui perseguire la verità e la sua giustizia rende liberi, e la notizia della fraternità e sorellanza che legano insieme tutti gli esseri umani. Induce a praticare la «libertà dei figli di Dio» e ad occuparsi che in terra si renda giustizia in particolare ai più deboli, essendo questo l’unico sacrificio gradito a Dio.

In questa ottica le conseguenze della buona novella vanno scoperte, capite e realizzate nella storia. La logica dell’annuncio porta poi a diffidare di ogni potere e sovente ad opporvisi, mentre il potere del tempio è inevitabilmente contiguo agli altri poteri, perché il potere ha tante facce ma in sostanza è uno ed i suoi diversi aspetti si intrecciano, si contaminano e si spalleggiano reciprocamente.

Quando scoppiano conflitti intestini la logica istituzionale porta a schierarsi con chi difende lo status quo, per l’ovvio motivo che il mantenimento dell’ordine costituito garantisce alla istituzione ecclesiastica la conservazione del suo potere, mentre un sovvertimento potrebbe metterlo in discussione. Due logiche distinte e per molti versi contrapposte generano dunque contraddizioni, tensioni e conflitti nella chiesa come nella vita e nella coscienza di tanti e tante uomini e donne di chiesa.

E’ da augurarsi che l’assemblea del 15 settembre riesca a discutere apertamente delle due logiche in conflitto, essendo ciò il presupposto necessario per elaborare proficuamente la memoria del Concilio e farne scaturire impegni per il futuro, come i promotori si ripromettono.

L’andamento del conflitto e l’esito dell’assemblea dell’Eur sono importanti per tutti, non solo per i credenti. In primo luogo perché l’istituzione ecclesiastica, anche in virtù delle oltre cento nunziature e della rete di enti sparsi sul pianeta, è parte integrante del sistema di governo di «questo mondo»; e poi perché, connesse alla dialettica di cui si è detto, ci sono non solo differenti idee di chiesa ma anche visioni diverse del divino e le idee sul divino che circolano in una società hanno grande influenza sul modo in cui essa si plasma. «Si immagini - come suggerisce la teologa femminista Mary Hunt - un mondo in cui il divino venga compreso come Amico invece che come Padre, come Fonte invece che come Signore, come Pacificatore invece che come Sovrano, come cittadino invece che come Re». Si intravedrà qualcosa di quel mondo migliore cui tanti aspirano.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/9/2012 18.55
Titolo:Non banalizzate il cardinale Martini ...
Non banalizzate il cardinale

di Aldo Maria Valli (Europa, 11 settembre 2012)

Il cardinale Martini è morto a poche settimane dal cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio (11 ottobre 1962). Furono per lui, disse una volta, i più bei anni della sua vita, perché aria fresca entrava in una Chiesa che sapeva troppo si sacrestia e di muffa, e perché lo studio delle sacre scritture su base storica ne usciva legittimato, permettendo così anche ai cattolici di abbandonare il semplice devozionismo per entrare in un rapporto più maturo e adulto con la Bibbia.

Con il testamento spirituale consegnato al confratello padre Georg Sporschill, Martini ha indicato la strada per la Chiesa del terzo millennio: povertà e non sfarzo, collegialità e non centralismo, profezia e non burocrazia, testimonianza e non legalismo. Ha però ragione Vito Mancuso a dire (sulla Repubblica) che nei confronti del potente messaggio di Martini è subito partita un’operazione di ridimensionamento, una di quelle in cui la Chiesa gerarchica è sempre stata molto abile. Si sta mettendo il silenziatore alle denunce di Martini e si cerca di ridurre il suo messaggio a quello di un servitore della Chiesa generoso ma probabilmente un po’ troppo vivace. Servitore certamente lo è stato, fino all’ultimo, ma indignato! E triste davanti a una Chiesa cieca e sorda di fronte ai veri drammi degli uomini e delle donne di oggi.

Ma un’analoga operazione di ridimensionamento sta avvenendo anche nei confronti dello stesso Concilio Vaticano II. Il papa, in occasione dell’anniversario, ha proclamato un anno della fede. Il che provoca qualche perplessità perché sarebbe come, per un marito, proclamare l’anno dell’amore verso la moglie, o per uno studente l’anno dello studio. Ma, a parte questo, il problema è che, nei commenti e nelle iniziative che arrivano dalla Chiesa gerarchica, l’anno della fede, di cui si occupa il misterioso Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (nome burocraticissimo), ha completamente soppiantato l’anniversario del Concilio.

Come non bastasse, l’accento viene posto volentieri sul fatto che in questo 2012 ricorre anche il ventesimo anniversario del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica (1992), e così il gioco è fatto: anziché parlare del Concilio, della sua attualità e del bisogno, eventualmente, di farne un altro, ecco che tutto viene ridotto di nuovo a devozionismo e legalismo. Così lo spirito profetico viene accantonato, ridotto a folclore, e si torna a mettere in primo piano le norme, proprio come denunciato dal cardinale Martini.

L’operazione, ripetiamo, non è certamente nuova, ma rappresenta una costante da parte dei curiali e della Chiesa gerarchica, sempre pronta a catturare le novità per ingabbiarle, ridimensionarle, assorbirle in sé e sostanzialmente annullarle. Davanti allo stesso annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII (accolto dai cardinali con un «impressionante, devoto silenzio», come annotò il papa non senza ironia) la curia reagì cercando di riportare il tutto, per quanto possibile, nell’ambito del centralismo, depotenziando immediatamente l’iniziativa papale.

Non dimentichiamo, per esempio, che Giovanni XXIII dovette imporsi per far inviare ai vescovi di tutto il mondo una lettera con la quale chiedeva quali dovessero essere a loro parere i temi da mettere al centro del Concilio. Il cardinale Felici, infatti, voleva che fosse la curia a occuparsi della questione e che ai vescovi fosse inviato un semplice prestampato con l’invito ad esprimere opinioni su quanto elaborato da Roma.

Nei quattro anni di preparazione del Concilio l’impegno di Giovanni XXIII fu di mettere d’accordo la carica profetica dell’iniziativa con le esigenze organizzative senza penalizzare la prima ai danni delle seconde, e su questo terreno dovette combattere una battaglia continua con il partito della curia. La stessa parola messa dal papa al centro della riflessione, “aggiornamento”, venne guardata con sospetto e si cercò di depotenziarla, esattamente come si sta facendo oggi con l’eredità di Martini.

Aggiornamento, per il papa, non doveva essere soltanto una revisione del linguaggio. Doveva essere una nuova creatività, la rinnovata disponibilità a confrontare il Vangelo con le culture e a farne scaturire una vita dalla parte della giustizia e dei più poveri, senza alcuna forma di autocompiacimento per le proprie sicurezze e nessun compromesso con il potere in tutti i suoi aspetti.

Ecco perché papa Roncalli volle un Concilio pastorale, non dogmatico. Come disse il teologo domenicano Marie-Dominique Chenu «tutto questo Concilio è pastorale come presa di coscienza, da parte della Chiesa, della sua missione». Un Concilio, quindi, denotato da una «originalità sensazionale», perché, «senza ignorare gli errori, le malvagità, le oscurità di questo tempo, non si pone in atteggiamento di tensione o di chiusura verso di esso, ma discerne soprattutto nelle sue speranze e nei suoi valori i richiami impliciti del Vangelo e vi trova la materia e la legge di un dialogo».

Giovanni XXII volle che il Concilio fosse libero, dialogo a tutto campo, e anche su questo dovette subire l’opposizione dei curiali e dei tradizionalisti. Criticava apertamente quei padri conciliari che, per il fatto di essere teologi, pensavano di dover produrre lezioni di teologia per dirimere questioni dottrinali e non riuscivano a concepire l’idea di mettersi in ascolto del mondo e delle Chiese dei diversi continenti. Dovette faticare per lasciare libertà ai vescovi e invitarli al confronto, senza paura. Lasciandosi trasportare dallo Spirito, papa Roncalli riuscì a condurre la barca del Concilio in mare aperto, là dove gli fu possibile dispiegare le vele con quelle parole iniziali della sua prima allocuzione: Gaudet Mater Ecclesia, la madre Chiesa si rallegra! I curiali e i tradizionalisti (i “profeti di sventura”), sempre pronti a innestare la marcia indietro, furono sconfitti.

Ma eccoli risorgere ad ogni svolta. E ora ci riprovano. Con l’anniversario del Concilio e con il testamento di Martini. Prontamente soppiantati da un istituzionale anno della fede gestito dal centro, all’insegna di celebrazioni e convegni con i soliti noti, e da una lettura riduzionistica tesa a privilegiare il Martini testimone della fede e, al più, uomo del dialogo, ma ignorando la sua denuncia di una Chiesa che non si scuote, conserva più cenere che brace ed è dominata dalla paura e dall’autoconservazione.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/9/2012 20.08
Titolo:RIFONDARE, NON RIFORMARE ....
Rifondare, non riformare

di Ortensio da Spinetoli *


Il termine profezia è sinonimo di tensione, propensione, apertura verso il futuro: attesa, cambiamento, novità, avventura; è utopia, sogno. Tecnicamente però è capacità di ascolto delle voci segrete che salgono dal proprio intimo, la coscienza, che è il luogo nascosto in cui lo spirito dell’essere umano si incontra con quello di Dio, riceve le sue proposte e se ne fa portavoce presso i suoi simili. Senza i profeti la storia non si arresta, ma manca dei suoi timonieri.

L’istituzione, come dice già il verbo da cui il termine deriva, fa appello al passato, a ciò che è accaduto e che si vuole continuare a tenere in vita, opponendosi ai cambiamenti richiesti dalle mutate situazioni culturali e spirituali. Due fasi, la staticità e il movimento, che si alternano da sempre nella storia, con la netta prevalenza della conservazione sul rinnovamento.

Nella Chiesa, il Concilio si è provato a interrompere siffatto predominio, riandando non alla comunità delle origini, già istituzionalizzata, ma al suo “fondatore”, che non sembra aver pensato a questo o quel “successore” ma ha affidato la sua eredità all’insieme dei suoi ascoltatori.

Il nuovo profetismo

Gesù è uno dei “grandi profeti” (Lc7,16) della storia, non il primo né l’ultimo. La sua singolarità è di non essersi preoccupato dell’onore (culto) da rendere alla divinità bensì dell’attenzione, del rispetto, dell’amore da portare alle persone. Si può dire anche di lui quanto il priore di Barbiana affermava di se stesso sul letto di morte: che aveva amato più i suoi alunni che Dio.

Gesù ha fatto anche una innovativa scelta religiosa, contraria ai moduli correnti, ma ancor più originale è stata quella socio-umanitaria, optando per una convivenza di eguali, amici e fratelli, che non conoscesse superiorità e sopraffazioni e in cui fossero bandite fame, povertà, malattie, divisioni, discriminazioni e ingiustizie. Un paradiso ante litteram!

Da subito si sente inviato a portare ai “poveri” il lieto annunzio della fine immediata (“oggi”) del loro stato di indigenza, ai “prigionieri” la libertà e a tutti l’apertura di un “anno santo”, cioè la cancellazione dei soprusi accumulatisi nel tempo (Lc 4,18).

È ciò che non cesserà di ripetere, sul Monte di Cafarnao (Mt 5,3), ai messi di Giovanni (Mt 11,2), nella parabola del ricco epulone (Lc 16,19) e soprattutto nel discorso di chiusura della sua missione profetica (Mt 25,31-42). In Gesù si ritrovano quanti prima e dopo di lui, dentro e fuori Israele, hanno lottato non per sostenere troni e altari, ma per far valere i diritti degli ultimi cioè per eliminare concretamente le aporie presenti in mezzo ai suoi simili, provocando così la reazione di quanti, sentendo minacciato il proprio potere, si prendono subito cura di mettere a tacere i fastidiosi importuni.

La nuova comunità: «Né padri né maestri» (Mt 23,8-10)

L’altro annuncio che Gesù fa agli esseri umani è l’invito a liberarsi dal giogo di quanti vogliono farsi passare per “benefattori” (Lc 22,25) mentre di fatto sono degli sfruttatori dei propri simili. E non chiede ai membri della sua comunità di tenersi uniti per via di «giunture e articolazioni» (Ef 4,16) o di «funzioni di governo» (1Cor 12,28-30; Rom 12,6-8) bensì richiamandosi alla loro «buona volontà», cioè al grado di carità che lega gli uni verso gli altri e tutti insieme con lui e con il padre.

La comunità che Gesù sogna è sui generis; collegamenti e comunicazioni tra i suoi componenti sono reali ma invisibili, nascono dal soffio dello Spirito (Gv 3,6-8; 4,21-24) che è lo stesso in tutti. Gesù vi si è affidato (Mt 3,16; Lc 4,18) accogliendo proposte inaudite come l’amore fino al perdono anche per il nemico. Lo stesso ha ritenuto di poter chiedere anche ai suoi discepoli.

Tra di loro alcuni avrebbero voluto sapere chi, nel futuro regno, sarebbe stato il primo e chi il secondo, ma Gesù li libera immediatamente da siffatte preoccupazioni. Tra le nazioni «quelli che sono ritenuti capi le tiranneggiano e i loro grandi hanno potere su di esse» (Mc 10,40), comportamenti che nella sua comunità sono categoricamente vietati: «Tra voi non sia così». Per loro c’è una sola possibilità, essere uno più pronto dell’altro a mettersi a disposizione del fratello, a “servirlo”, fino a «farsi schiavo di tutti».

In questa comunità singolare senza capi tutti i componenti sono tenuti a sentirsi responsabili delle soluzioni e decisioni da prendere per realizzare in opere e parole l’evangelizzazione, l’unica attività che spetta ai discepoli di Cristo per la quale non contano vesti, divise, imposizioni di mani, tutti simboli che non creano dignità o competenze reali.

E se la stessa comunità si risolve a designare persone (di servizio) che le ricordi gli impegni presi, queste non devono presumere di rappresentare Dio, che non è mai assente. Nella casa i servi non danno ordini, ma li ricevono e li eseguono.

Il rientro delle istituzioni (giudaiche)

Gesù si era liberato dalle strutture religiose del suo Paese ma certi suoi discepoli (Paolo, Giovanni, l’autore della Lettera agli ebrei), si sono premurati di ricollocarvelo. Ben presto infatti “tra i suoi” si ritrovano “capi” o “grandi” (Mt 10,1; 16,18; 18,18; Lc 22,32; Gv 21) che lui aveva chiaramente escluso. Figure che col tempo diventeranno sempre più emergenti, eminenti, eccellenti; anch’essi si dicono “servi”, ma fanno i “signori”.

Gesù non aveva scritto o fatto scrivere nulla, si era rivolto a folle anonime e illetterate con un linguaggio immaginoso e popolare; ma ben presto vede riproposte le sue considerazioni in formule astruse che nascondono la semplicità e l’immediatezza della sua persona.

Incomprensibili sono gli stravolgimenti della sua identità: la missione profetica diventa ministero sacerdotale, addirittura fino al rango di sommo sacerdote – colui che in vita fu il suo più acerrimo nemico; il suo impegno in favore di esclusi e oppressi diventa un atto di offerta sacrificale di se stesso a Dio per risarcirlo per le offese ricevute dagli esseri umani.

La nuova immagine della divinità proposta da Gesù è rovesciata: non più il Padre totalmente misericordioso, ma un vero Moloch mai sazio di vedere bruciare vittime anche innocenti sulle sue braccia.

È quanto la liturgia ancora ripete: «Gesù è stato crocifisso per noi uomini», «si è sacrificato per i nostri peccati», è «il nostro redentore», «il salvatore». Crocifisso sì, ma a causa della sua opposizione con fatti e parole (At 1,1) ai potenti che tenevano schiave moltitudini umane. Martire di carità, quindi, non vittima di espiazione verso l’Altissimo, mai adirato con nessuno, tanto meno con gli esseri umani, i suoi figli prediletti (1Gv 3,1).

Gesù, che aveva annunziato la distruzione del tempio, quindi la fine del sacerdozio e del culto, vede proliferare luoghi e funzionari sacri. Il vasto assetto culturale e cultuale che si instaura sotto il nome di “cristianesimo” è ben altra cosa che la continuazione della sua testimonianza. Sembra più un ibrido di giudaismo e paganesimo e dimostra, per lo meno fino ad oggi, l’irrealizzazione della sua utopia profetica.

Quasi inspiegabile poi è che le segnalazioni rituali che egli aveva voluto (Lc 22,15) proporre ai suoi dopo la “cena d’addio”, perché tenessero a mente il senso della sua morte in croce, abbiano acquistato esse stesse il valore che dovevano solo simboleggiare, cosicché più che mettere in gioco la propria vita per il bene del prossimo, i suoi seguaci possono accontentarsi di stare a “ripresentare” al Padre l’“offerta” del “figlio”.

Ma i segni non sono fatti, non cambiano la storia, indicano solo cosa è da fare per cambiarla, e se non si agisce concretamente non accade nulla, tutto rimane com’è, come appunto avviene dopo le innumerevoli celebrazioni che si ripetono ininterrottamente nel mondo in nome di Gesù Cristo.

Lentamente il culto eucaristico (messe, visite al sacramento, ore di adorazione, ecc.), mettendo in scena tutta una serie di rappresentazioni pubbliche che richiamano – ma non realizzano – l’esperienza di Gesù Cristo, ha finito per far coincidere l’impegno cristiano con delle innocue celebrazioni.

Conclusione

È sorprendente che la comunità cristiana, che pure ha conosciuto accesi dibattiti dottrinali cristologici e trinitari, non si sia resa conto, salvo le rimostranze dei riformatori del secolo XVI, di tali colossali distorsioni e non si sia mai provata a correggerle, soprattutto dopo che la ricerca biblica ha offerto una migliore conoscenza delle fonti cristiane.

La storia avrebbe certamente avuto un altro corso se la morte di Gesù in croce e la sua commemorazione rituale avessero conservato la loro portata originaria: il prezzo della sua resistenza ai tiranni per l’amore ai diseredati della famiglia umana.

Il ritorno al Gesù della storia non comporta la chiusura delle chiese o l’abbattimento degli altari, solo l’eliminazione di un culto magico e superstizioso instaurato in suo nome che attribuisce valore salvifico a delle semplici recitazioni a soggetto sacro, o, per dirla con Amos, delle celebrazioni «festive», dei «frastuoni di canzoni» (7,21-24).

La “giusta chiave” del Concilio è quella di chi lo ha voluto e indetto, un «aggiornamento e rinnovamento della Chiesa»: obiettivo che oggi sembra richiedere, più che una qualche riforma, una vera rifondazione.

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Ortensio da Spinetoli, 1925, ordinato sacerdote cappuccino nel 1949. Biblista formato negli atenei di Friburgo, Innsbruck, Roma (Pontificio Istituto Biblico) e Gerusalemme (Studio Biblico Francescano), ha insegnato nello Studentato Teologico di Loreto, al Seminario vescovile di Macerata e a Roma (Antonianum, Facoltà teologica valdese, Pime). Vissuto in un periodo di transizione, si è impegnato per il rinnovamento esegetico, sia nella scuola che nella Chiesa. Ma, diradatasi presto l’aria nuova del Concilio, ha avuto poi inizio un periodo difficile per i ricercatori. Anche Ortensio ha subìto «un regolare processo» dalla Congregazione della Dottrina della Fede (1974), che ha portato alla sua rimozione dall’insegnamento e alla restrizione dei suoi interventi pubblici. è iniziato così un trentennio di silenziosa emarginazione, ma Ortensio ha sempre proseguito nel suo impegno di studio e divulgazione dei risultati della ricerca biblica.


Adista Notizie n. 32 del 15/09/2012