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CONCISTORO, 2012: BENEDETTO XVI METTE IL SUO MARCHIO SUL PROSSIMO CONCLAVE, CON LA NOMINA DI 22 CARDINALI. Una nota di Stefanie Le Bars e una di Giacomo Galeazzi -,a c. di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: February 16 2012 21:21:15.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 08/1/2012 13.46
Titolo:IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA: GRATUITA' (CHARITAS). La lezione di Don Luisito Bia...
RIPRENDERE LA PAROLA. --- IN PRINCIPIO ERA LA GRATUITA’ ("CHARITAS").

La lezione di Don Luisito Bianchi: «Come posso restare coerente nell’annunciare la gratuità del Vangelo, se in cambio, proprio per la mia funzione di prete, ricevo del denaro?»



Don Luisito Bianchi, prete e scrittore operaio

di Roberto Carnero (Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2012)

Con la scomparsa di don Luisito Bianchi, avvenuta il 5 gennaio, abbiamo perso non solo uno scrittore, uno dei più originali degli ultimi decenni, ma anche il testimone scomodo di un radicalismo evangelico profetico e mai accomodante. Nella sua vita Luisito Bianchi ha fatto l’insegnante, il traduttore, l’operaio, il benzinaio, l’inserviente in ospedale. Nato a Vescovato, in provincia di Cremona, nel 1927, sacerdote cattolico dal 1950, il grande pubblico l’ha conosciuto a partire dal 2003, quando Sironi editore ripubblicò La messa dell’uomo disarmato, un ampio, suggestivo romanzo sulla Resistenza, uscito per la prima volta nel 1989 in un’edizione autoprodotta. Di quel periodo, l’autore non offriva soltanto una lettura storiografica. C’era una dimensione filosofica e religiosa (una religione civile, oltre che trascendente) che faceva della Resistenza una categoria quasi esistenziale.

Nel 2005 sempre Sironi manda in libreria una nuova edizione di un suo libro del 1972, dal titolo Come un atomo sulla bilancia, il racconto, alternato alla riflessione, dell’esperienza vissuta da don Luisito, a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, come prete operaio. In occasione dell’uscita di quel libro, lo incontrai presso l’abbazia trecentesca di Viboldone (una manciata di chilometri da Milano), dove da alcuni anni prestava la funzione di cappellano presso la comunità delle suore benedettine. Parlammo della sua vita, del suo amore per la scrittura, della sua idea di Chiesa. Parlava lentamente, a voce bassa, di tanto in tanto socchiudendo gli occhi. Ma le sue parole erano molto precise.

Don Luisito non risparmiava le critiche ai modi con cui l’istituzione ecclesiastica ha organizzato la propria vita. Tuttavia ci teneva a ribadire il suo amore per la Chiesa: «Amo questa Chiesa perché è lei che mi ha trasmesso Cristo. Ed è nella Chiesa che ho sentito parlare di un Dio che sceglie di perdere ogni potere, preferendo la povertà. Di fronte a certi atteggiamenti della Chiesa mi viene da chiedermi: è possibile che si cerchi il potere per affermare la parola di colui che ha rifiutato il potere?».

Uno dei concetti su cui insisteva maggiormente era quello della "gratuità". Nel 1968 si chiedeva: «Come posso restare coerente nell’annunciare la gratuità del Vangelo, se in cambio, proprio per la mia funzione di prete, ricevo del denaro?». È da questa riflessione che scaturì in lui la decisione di diventare operaio. Così entrò in fabbrica (alla Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria), per condividere tutto con i colleghi: salario, turni di lavoro, amicizie. Per tre anni registrale sue giornate in alcuni taccuini. Nel 2008 pubblica da Sironi I miei amici. Diari (1968- 1970), in cui rievoca quell’esperienza. Il suo ultimo libro, uscito due anni fa sempre presso Sironi, si intitola Le quattro stagioni di un vecchio lunario. Quasi un testamento spirituale, incentrato su una sorta di ritorno alle origini: una ricostruzione dell’infanzia e della giovinezza, alle radici della propria vocazione di uomo e di scrittore.

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Don Luisito, che lavorava per gli ultimi

di Remo Bassini (il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2012)

Quando Gesù si è fatto uccidere in croce non l’ha fatto in cambio di uno stipendio” diceva spesso, con voce flebile ma ferma, don Luisito Bianchi , cappellano di Viboldone, prete scomodo, scrittore, morto giovedì scorso a Melegnano (Milano). Aveva 84 anni. Era un prete che predicava bene - la gratuità come essenza del vivere cristiano - e razzolava bene, tant’è che ha sempre rifiutato lo stipendio “da prete”. La Chiesa istituzione lo ha sopportato: con una smorfia di disprezzo, ignorandolo.

Non c’erano mai preti, o se c’erano, erano preti isolati come lui, quando presentava i suoi libri. Quando diceva “se fossi Papa brucerei il Vaticano , affinché rifulga la luce di Cristo. E donerei ai poveri, a chi soffre, agli zingari, ai perseguitati”, la Chiesa istituzione faceva finta di niente. Anche perché, si sapeva, don Luisito, mite e timido, rifuggiva telecamere e notorietà. La sua vita da prete l’ha vissuta ascoltando gli insegnamenti del Vangelo. Dietro le quinte, insomma, tra gli ultimi.

ORDINATO sacerdote nel 1950, negli anni Sessanta, dopo un’esperienza romana alla Pastorale del lavoro, si domanda: “Cosa ho imparato? Io, veramente, che so del lavoro?”. A trent’anni decide così di andare a lavorare in fabbrica, alla Montecatini di Spinetta Marengo (Alessandria), esperienza che racconterà in alcuni suoi libri e che lo segnerà per sempre: rifiuterà infatti l’etichetta di prete operaio. In fabbrica, spiegherà don Luisito, un prete non serve, perché le virtù teologali, Fede, Speranza e Carità, sono già parte del lavoro duro, da operaio. Se un intellettuale si sente a corto di argomenti, dirà anche, vada in fabbrica: lì, il terreno è fertile.

NEL 2003, don Luisito diventa noto nell’ambiente editoriale. La piccola casa editrice Sironi pubblica La messa dell’uomo disarmato ed è subito un successo: di vendite e critiche. Tanti gridano al capolavoro. Un libro sulla resistenza, ma anche sulla gratuità: dei partigiani che morirono per un’idea, per la libertà, solo per quella.

I proventi del libro, comunque, don Luisito li dona ai missionari: a lui, che vive tra Vescovato, suo paese natale, e Viboldone, dove è cappellano, bastano 600 euro di pensione, frutto dei contributi versati come operaio, inserviente, benzinaio, insegnante. Era un mite, ma insieme all’amore per il prossimo insegnava la ribellione.

“Uno schiavo ai tempi di Gesù - ha scritto don Luisito - veniva colpito al volto dal suo padrone con il dorso della mano, perché quest’ultimo non avesse a sporcarsi le mani. La guancia colpita era dunque la guancia destra. Porgere l’altra guancia, cioè la sinistra, a quel tempo significava costringere il padrone a colpire col palmo della mano e, quindi, a sporcarsi le mani, cosa che un padrone non avrebbe mai fatto. Quindi il voltare il viso dall’altra parte per porgere la guancia opposta era un modo per impedire al padrone di colpire ancora, era un modo per interrompere il sistema, per costringere il potente a fermarsi”. Sussurrava, ma aveva una grande voce, don Luisito Bianchi...
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/1/2012 10.21
Titolo:Il potere di Bertone e la fronda dei vescovi
Il potere di Bertone e la fronda dei vescovi

La crescita numerica dei cardinali italiani decisa all’ultimo Concistoro non è destinata a pesare più di tanto sul prossimo Conclave. E la vittoria del segretario di Stato Tarcisio Bertone insieme con la Curia sta provocando una scia di polemiche velenose. Il cardinale è accusato di avere monopolizzato il potere finanziario del Vaticano.
Sullo sfondo, l’uscita di scena della cordata bertoniana dal San Raffaele e i contrasti con la Conferenza episcopale italiana.

di Massimo Franco (Corriere della Sera, 12 gennaio 2012)

L’idea di un «partito italiano» destinato a contare di più nel prossimo Conclave è suggestiva ma forse un po’ azzardata. L’aumento numerico dei cardinali tricolori (30 su 120) prodotto dal Concistoro dell’Epifania ha lasciato dietro di sé una scia di frustrazioni e di veleni che contraddicono l’impressione iniziale. Fra Vaticano e Cei, uno dei pochi giudizi unanimi riguarda la realtà di un episcopato dell’Italia diviso, senza un leader; e incapace di imporre un proprio candidato se il problema della successione a Benedetto XVI dovesse aprirsi in tempi brevi. Dopo i sette «cappelli» cardinalizi su diciotto distribuiti ad italiani il 6 gennaio, l’unica novità vistosa è l’ennesima vittoria della Curia romana.

Soprattutto, si indovina la rivincita del segretario di Stato, Tarcisio Bertone, sul vertice dei vescovi e sui propri avversari. Intanto, la troika che controlla l’economia e le finanze vaticane è sua. Domenico Calcagno, presidente dell’Apsa, amministra il patrimonio della Santa Sede; Giuseppe Versaldi è presidente della Prefettura degli affari economici; e Giuseppe Bertello presiede il Governatorato: tre neo-cardinali suoi fedelissimi. Ma proprio da qui, le valutazioni comuni diventano analisi in qualche caso demolitorie di quanto è successo. È come se esistessero due poteri, in urto e quasi impermeabili l’uno all’altro: quello del Segretario di stato e quello di chi lo detesta. Con Benedetto XVI in alto, molto in alto rispetto a queste beghe.

Eppure, il risultato del conflitto ormai pluriennale nelle gerarchie cattoliche italiane è una difficoltà che si scarica sul governo della Chiesa; e che nemmeno il pontefice è riuscito a placare del tutto, nonostante i richiami e gli ammonimenti, pubblici e privati. L’ultimo Concistoro è diventato una sorta di controprova dell’impossibilità di una tregua duratura. Gli avversari di Bertone dicono che i nomi dei nuovi cardinali italiani sono frutto di una forzatura: un gesto di potere per monopolizzare una roccaforte strategica della Curia come i «ministeri economici», eliminando qualunque contrappeso; un passo indietro rispetto alla globalizzazione dell’episcopato; e un’arbitraria promozione dei «suoi».

Si parla di cardinali «imbufaliti» per l’operazione bertoniana. È circolata perfino la voce secondo la quale alcune eminenze di peso vorrebbero mandare una mozione riservata al papa per chiedere che Bertone sia sostituito. L’intenzione sarebbe quella di proteggere Benedetto XVI dalla «prepotenza» del suo collaboratore. In realtà, un tentativo del genere fu già fatto in passato, inutilmente. Il rapporto fra il pontefice e il «primo ministro» vaticano è consolidato e indiscusso. E gli uomini più vicini al segretario di Stato presentano il Concistoro come una sorta di atto conclusivo del rinnovamento della Curia: «In piena sintonia con Benedetto XVI», precisano. Sostengono che il prossimo Conclave è un convitato di pietra usato strumentalmente. E confutano la tesi di un Bertone che promuove chi può assecondare le sue ambizioni future.

L’idea che i cardinali ubbidiscano a chi li ha aiutati è effettivamente tutta da dimostrare. E finora, fra i «papabili» Bertone non appare mai. Una delle critiche più frequenti che gli vengono rivolte, tuttavia, è di avere provocato una mutazione del ruolo di segretario di Stato, facendolo diventare una sorta di «vice-papa». Il fenomeno si era già notato col predecessore, Angelo Sodano, negli anni della malattia di Giovanni Paolo II. Si ripete ora, al settimo anno di pontificato dell’ottantaquattrenne Joseph Ratzinger. Ma, per quanto contestata, è un’evoluzione o involuzione del ruolo considerata quasi inevitabile. Fotografa rapporti di forza che nessuno è riuscito a scalfire.E i «bertoniani» non escludono a priori che il segretario di Stato possa succedere a Benedetto XVI: sebbene lo giudichino improbabile.

In quanto Camerlengo, ricordano, amministrerebbe la sede vacante in caso di morte del papa. Aggiungono che è ben visto in Spagna e Sud America ed ha un curriculum sia curiale che «pastorale», come ex arcivescovo di Genova. Ma la sola ipotesi fa inorridire gli avversari. Per il modo in cui si muove, Bertone non riscuote grandi applausi. I sostenitori attribuiscono l’ostilità che si tira addosso al fatto che sarebbe il parafulmine degli attacchi al papa; che non ha «immagine»; e che sta riformando in profondità la Curia. Gli avversari più severi lo bollano invece come uno dei peggiori segretari di Stato che il Vaticano abbia avuto. Lo accusano di provincialismo, e di avere abbassato il profilo e l’agenda internazionale della Chiesa cattolica.

Il fatto che all’ultimo concistoro non sia emerso nessun cardinale africano o sudamericano (tranne il brasiliano di Curia, Joio Braz de Aviz), è portato a conferma di questa analisi. La stessa Oceania, forse, si aspettava un riconoscimento, dopo il successo della Giornata mondiale della gioventù nel 2008 a Sidney, in Australia. E la mancata promozione dell’arcivescovo di Bruxelles, André-Joseph Leonard, è vista dai critici come un errore di sottovalutazione della capitale belga: sia perché ospita la Commissione Ue, sia per gli scandali sulla pedofilia che hanno colpito quell’episcopato. È difficile dire quanto pesino su giudizi così duri la delusione degli esclusi, o i contrasti per il primato in Italia fra Cei e Bertone.

È stato notato maliziosamente che Versaldi era il candidato del segretario di Stato per la sede di Torino. La Cei gli ha preferito un altro. Ma Bertone lo ha portato in Curia e l’ha fatto diventare cardinale: prima dell’attuale arcivescovo di Torino. Non solo. A prima vista, l’esito del Concistoro bilancia la sconfitta del segretario di Stato per la nomina di Angelo Scola a Milano: l’ex Patriarca di Venezia era infatti osteggiato da Bertone. Ma il versante più scivoloso, per lui, rischia di diventare quello del potere economico all’interno della Chiesa: da tempo un motivo di sarcasmi e di poco pie stilettate. L’ultimo episodio è stato la scelta di affidare allo Ior, la banca vaticana, il salvataggio dell’ospedale San Raffaele di don Luigi Verzé: una vicenda vissuta fin dall’inizio con perplessità.

Quando nei giorni scorsi la cordata vaticana si è sfilata da un intrico costosissimo e dai contorni inquietanti, a molti è parso di essere riemersi da un potenziale incubo; e allo stesso Bertone, sebbene avesse appoggiato l’operazione. L’opzione di abbandonare l’impresa è stata suggerita al papa dal cardinale Attilio Nicora, che da alcuni mesi presiede l’authority sull’attività finanziaria degli enti del Vaticano. Ma promette di avere una coda di polemiche, con il segretario di Stato nell’occhio del ciclone. «Meno male che ne siamo usciti», avrebbe detto qualche giorno fa un cardinale tedesco. «Altrimenti, se mi avessero chiesto soldi per l’obolo di San Pietro, avrei risposto: "Perché non vendete il San Raffaele?"...»
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 16/2/2012 21.21
Titolo:La Chiesa è multiculturale?
La Chiesa è multiculturale? Un punto di vista indiano

di Michael Amaladoss SJ

in “popoli” del 14 febbraio 2012


Tra i 22 nuovi cardinali che riceveranno da Benedetto XVI la berretta il 18 febbraio, dieci hanno incarichi nella Curia romana. Il gruppo più numeroso sono gli italiani (7). Solo tre non sono europei o nordamericani. Il prossimo concistoro, perciò, non pare riflettere il peso demografico sempre più importante che ha il Sud del mondo nella Chiesa cattolica. La recente riflessione del gesuita Michael Amaladoss, noto teologo indiano, apparsa sulla rivista dei gesuiti Jivan, è dedicata al rapporto tra Chiesa e multiculturalismo.

Una delle questioni poste dalla globalizzazione è il rischio della proiezione e imposizione a tutti, attraverso i media e il mercato, di un’unica cultura consumistica, quella nordamericana. Essa coinvolge i media, la tecnologia, le comunicazioni, il modo di vestire e nutrirsi. Influisce meno su elementi culturali più profondi come la lingua, gli atteggiamenti, la letteratura e il modo di vivere, pensare e relazionarsi. A questi livelli le culture tendono a difendersi, a volte anche con violenza. Tuttavia, se la Mecca della globalizzazione, gli Usa, non sono diventati monoculturali, è difficile che possano riuscire a imporsi del tutto sulle culture di altri Paesi.

Il nostro è ancora un mondo multiculturale. Mi ha sorpreso sentire affermare questo, di recente, dalla Conferenza episcopale francese. I francesi sono normalmente considerati nazionalisti riguardo alla propria cultura. Tuttavia, in una dichiarazione dei vescovi dello scorso 3 ottobre, si parla di «fine di una certa omogeneità culturale delle società [occidentali]», dovuta alle ondate migratorie.

L’omogeneizzazione culturale resta una tentazione, non solo a livello globale, ma anche locale. In India esiste una cultura dominante che cerca di rendere subalterne tutte le altre, dai dalit ai popoli indigeni, ma anche altrove alcuni cercano di affermare che l’unità di una nazione dipende dall’unità della sua cultura o addirittura vorrebbero l’omogeneità religiosa.

Quindi, difendere il multiculturalismo e il pluralismo religioso è un dovere costante e necessario e siamo lieti che la Costituzione indiana difenda entrambi, anche con misure speciali per la tutela delle minoranze.

Ma c’è un ambito di questa omogeneizzazione globale che solitamente ignoriamo: la Chiesa, un’istituzione che spesso nella storia ha sostenuto di imporre la propria cultura nel nome di Dio. Secondo teologi come Karl Rahner, il Concilio Vaticano II ha reso la Chiesa consapevole di essere una Chiesa globale. Ha promosso l’inculturazione in vari ambiti. In quello della liturgia, ad esempio, l’unico criterio proposto è stato quello della «piena, consapevole e attiva partecipazione» dei fedeli. Si è affermato che si può cambiare tutto tranne ciò che è stato istituito divinamente ed è stato promosso l’emergere di nuovi riti.

Ciò nonostante, e nonostante l’esistenza di tante piccole Chiese orientali, la Chiesa latina ha dominato nella storia recente e anche recentemente la Chiesa ha difeso con forza l’unità del rito latino. La controversia sul Messale in inglese ne è un esempio: è stata imposta una traduzione del testo latino più letterale della versione precedente, nonostante le obiezioni di vescovi ed esperti. Le persone non possono pregare creativamente nella propria lingua, se non in privato. Ciò accade per tutte le lingue del mondo, che devono tradurre il testo latino in modo letterale e ottenere l’approvazione del Vaticano. Il multiculturalismo, raccomandato per il mondo, non sembra essere rispettato nella Chiesa.

Non mi ha quindi sorpreso leggere un recente articolo di Sandro Magister sul sito dell’Espresso. Alla domanda se con Benedetto XVI la curia romana non stia diventando «troppo» italiana, risponde: «Lo storico della Chiesa Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, anch’essa con fama progressista, ha difeso una simile evoluzione. Ha più volte spiegato che la Santa Sede non può uniformarsi a una qualsiasi grande organizzazione internazionale [...], non può divenire una specie di Onu, perché fa parte della Chiesa romana e deve intrattenere con quest’ultima un legame ecclesiale, umano e culturale particolare». Non è certo un problema, naturalmente, che la Chiesa romana voglia restare romana. Ma allora non dovrebbe cercare di imporre la sua identità sulla Chiesa universale e multiculturale. Quanti dei documenti della Chiesa mostrano più preoccupazione per i problemi culturali di Europa e America che del resto del mondo?

È ormai evidente che da un punto di vista demografico il centro di gravità della Chiesa si sta spostando verso Sud, ma non è così a livello culturale. Lo notiamo anche nelle congregazioni religiose «internazionali», in cui cresce di molto la componente indiana. Un indiano può anche essere eletto Superiore generale della propria congregazione, ma nei capitoli generali i pochi europei e americani rimasti svolgono un ruolo preponderante, forse anche perché facilitati dall’uso della lingua, solitamente inglese, francese o italiano. I documenti che producono sono incentrati su questioni europee e americane.

E i gesuiti? Da diversi anni ci si chiede: che cosa accadrà ai gesuiti con l’ingresso di sempre più persone provenienti dal Sud del mondo? Non saprei dire se questa domanda contenga un elemento di paura. Le nostre Congregazioni generali sono state ampiamente multiculturali, ma alcuni sviluppi e atteggiamenti destano qualche preoccupazione. A Roma abbiamo alcune istituzioni internazionali. Ma sono davvero multiculturali?

Alcuni anni fa, quando si cercavano nuove persone da dedicare a questi istituti, non si scelse fra i teologi che avevano esperienze di insegnamento e riflessione teologica in India, e che potessero quindi portare il contributo indiano in un’istituzione con sede a Roma. Si scelsero invece giovani scolastici che furono portati a Roma per essere formati nella teologia romana, preferibilmente in italiano, per poi continuare a insegnare lì. Questo è multiculturalismo o globalizzazione omogeneizzante?

Ancora: ai nostri teologi, che magari già conoscono due lingue dell’India oltre all’inglese, si chiede che imparino altre due o tre lingue europee. Ma ai teologi occidentali che insegnano in un’istituzione multiculturale si richiede di imparare lingue asiatiche o africane? E se anche non conoscono queste lingue, possiamo almeno aspettarci che abbiano familiarità con le teologie e le culture del Sud del mondo, considerato anche l’alto numero di studenti che provengono da quei continenti?

Nel 2010 in Messico, il Padre generale dei gesuiti, Adolfo Nicolás, ha fatto un’osservazione stimolante durante un incontro internazionale sull’istruzione superiore: «Mi colpisce il fatto che nella Compagnia abbiamo problemi con la formazione. Da circa vent’anni registriamo vocazioni da nuovi gruppi: aborigeni, dalit in India e altre comunità marginali. Le abbiamo accolte con gioia perché ci siamo mossi verso i poveri e i poveri si sono uniti a noi. Questa è una meravigliosa forma di dialogo. Ma ci siamo anche sentiti un po’ incapaci: come formiamo queste persone? Pensiamo che non abbiano sufficiente istruzione alle spalle e quindi offriamo loro uno o due anni di studi in più. Non credo che sia la risposta giusta. Credo che la risposta giusta sia quella di chiederci: da dove vengono? Qual è la loro formazione culturale? Quale visione della realtà ci portano? Noi dobbiamo accompagnarli in un modo diverso. Ma per farlo ci serve un enorme sforzo di immaginazione e creatività, un’apertura verso altri modi di essere, sentire, relazionarci».

In altre parole, quando diventeremo davvero multiculturali nel mondo, nella Chiesa e nella Compagnia di Gesù?

Michael Amaladoss SJ
Gesuita, tra i più noti teologi indiani,
è direttore dell’Institute for Dialogue with
Cultures and Religions a Chennai.

© FCSF - Popoli