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Ultimo aggiornamento: May 05 2010 10:10:24.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 03/5/2010 16.18
Titolo:La Sindone secondo Ratzinger.
“Sindone, simbolo degli orrori del XX secolo”

di Giacomo Galeazzi

in “La Stampa” del 3 maggio 2010

La Sindone secondo Ratzinger. In un silenzio irreale il Papa teologo e pastore alza gli occhi verso
«il mistero che spinge a cercare il volto di Dio» e sussurra a fior di labbra: «Pater noster». Karol
Wojtyla la considerava una reliquia, Benedetto XVI un’icona ma ieri per cinque interminabili,
commoventi minuti si è inginocchiato a pregare davanti al «simbolo dell’umanità oscurata del XX
secolo». Di fronte al Sacro Lino, nell’oscurità del duomo di Torino, Benedetto XVI ha confessato di
essere diventato, con il passare degli anni, ancor più sensibile al «messaggio di questa straordinaria
icona», simbolo del Sabato santo, del «nascondimento di Dio», ma anche prefigurazione della sua
resurrezione.

Il Pontefice evidenzia come tutti abbiano sentito la sensazione «spaventosa di
abbandono» della morte, però «Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine umana per guidarci
con Lui».

In un’altra occasione il Papa si è «trovato davanti alla Sacra Sindone», ma stavolta «vivo
questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità». La Sindone, segno del
«nascondimento di Dio», di una «terra di nessuno», è un’icona che interpella, in tutta la sua
attualità, l’umanità oscurata dalle guerre, dalle violenze, e in particolare dagli orrori del secolo
scorso. Un simbolo che si rivolge al cuore lasciando luce per credere e tenebra per dubitare.

Il Papa
cita la famosa frase di Nietzsche: «Dio è morto. E noi lo abbiamo ucciso».
L’espressione deriva quasi alla lettera dalla tradizione cristiana. «Dopo le due guerre mondiali, i
lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un
sabato santo - osserva -. L’oscurità interpella quanti si interrogano sulla vita. Anche noi credenti
abbiamo a che fare con l’oscurità».

Nei malati del Cottolengo, sulle cui carrozzelle e lettighe il Papa
si è chinato per abbracciarli, come nella Sindone, davanti alla quale si è inginocchiato come un
umile pellegrino «possiamo leggere tutto il dramma della sofferenza, ma anche, alla luce della
Risurrezione di Cristo, il pieno significato che essa assume per la redenzione del mondo». «Tutti i
poveri sono i nostri padroni, ma questi che all’occhio materiale sono così ributtanti sono i nostri
padronissimi, sono le nostre vere gemme», ha chiarito con le parole di San Giuseppe Benedetto
Cottolengo quasi rispondendo allo scrittore Giorgio Bocca che l’anno scorso aveva suscitato sdegno
nel mondo cattolico per aver criticato il «culto della vita a ogni costo che lascia perplessi i visitatori
della Piccola casa della divina Provvidenza, la pia istituzione del Cottolengo, dove tengono in vita
esseri mostruosi e deformi».

Per Benedetto XVI, invece, l’Istituto torinese incarna il motto
dell’apostolo Paolo («La carità di Cristo ci spinge») che il Cottolengo «volle tradurre in totale
dedizione al servizio dei più piccoli e dimenticati». E voi malati, ha aggiunto, «svolgete un’opera
importante: vivendo le vostre sofferenze in unione con Cristo crocifisso e risorto, partecipate al
mistero della sua sofferenza per la salvezza del mondo».


In Duomo, senza entrare nella disputa sulla datazione del lenzuolo donato dai Savoia, Benedetto
XVI ha definito la Sindone «un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in
tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno,
spirò verso le tre del pomeriggio». Però, se «l’immagine impressa è quella di un morto, il sangue
parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia
abbondante vicina al costato, versata dalla ferita procurata da un colpo di lancia», ha puntualizzato
soffermandosi sul tema della visita a Torino e dell’ostensione: «Passio Christi, passio hominis».


Prima di salire sull’aereo papale per tornare a Roma, commenta Giovanni Maria Vian, direttore
dell’Osservatore Romano: «Il Papa ha toccato le corde più profonde dell’anima di ciascuno
paragonando la paura del bambino alla discesa agli inferi e inserendo la Sindone nella teologia
orientale dell’immagine. Un messaggio universale, condiviso da milioni di persone».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 05/5/2010 10.10
Titolo:LA PAROLA E LA SINDONE
La Parola e la Sindone

di Piero Stefani (Koinonia-forum, n. 203 del 4 maggio 2010)

Fa parte del nostro destino di eredi della moderna cultura occidentale aver introiettato un approccio storico ai testi antichi (siano o non siano sacri). Nella post-modernità si è colto il limite di questa impostazione critica senza tuttavia ritrovare l’innocenza di un commento capace di leggere le parole arcaiche a prescindere dalle circostanze in cui furono dette o scritte. Non per nulla, il nostro tempo culturale è indicato con un venir dopo («post») che dichiara la propria implicita incapacità di ignorare quanto lo precede.

Ciò vale anche quando ci si trova di fronte alla pagina biblica. Per il credente, e solo per lui, si apre una specie di alternativa in virtù della quale ci si chiede se sia la «parola eterna» a risuonare come storica o se sia quest’ultima a trasmettere risonanze dell’Eterno. Se prevale la seconda ipotesi il senso della presenza di Dio si scopre unicamente attraverso l’atto dell’interpretazione.

La rivelazione sta non nella Scrittura presa in se stessa ma nel modo di porsi di fronte a essa accogliendola come parola che ci interpella pur provenendo da un tempo che non è più il nostro. In questo caso la dimensione del circolo ermeneutico può dirsi nei seguenti termini: ci si inchina davanti a un testo perché è sacro, mentre esso diviene tale anche in virtù del fatto che ci si inchina di fronte a lui.

Nell’interpretazione la pagina eccede la temporalità che l’ha originata non a motivo della sua astoricità, bensì a causa di una paragonabilità di circostanze in cui la distanza storica è mantenuta e negata a un tempo. La situazione di partenza è «loro» e non «nostra»; soltanto il modo di intendere la Parola, venerandola, la rende anche e soprattutto nostra.

È proprio di una fede adulta essere interpellati da una Parola che si sa storicamente distante. Se il punto di partenza fosse costituito da avvenimenti, la lontananza sarebbe incolmabile. In realtà, noi lettori siamo messi di fronte non a dei fatti ma ai modi in cui essi vennero vissuti e interpretati ed è stato proprio lo sforzo volto a dare a essi un determinato senso che rende la Parola attestazione di un significato eccedente offerto al suo attuale lettore. Se la Bibbia fosse cronaca, descrizione letterale e fedelissima di quanto è avvenuto non sarebbe parola di Dio.

Se è questo il modo autentico di leggere nella fede la Parola è facile comprendere perché chi accetta su di sé il primato della Bibbia sia per lo più distante dalla maniera corrente di intendere i miracoli e la venerazione delle reliquie. Né è occasionale notare l’incompatibilità, su questo terreno, tra la tradizione cattolica e il mondo della Riforma. Le norme di canonizzazione che (salvo nel caso dei martiri) richiedono di provare che siano effettivamente avvenuti dei miracoli sono penose. Esse infatti fanno dipendere l’accertamento di questi eventi dalla mancanza di spiegazioni di ordine scientifico. Spesso si cade perciò nell’assurdo che, almeno in una certa misura, a determinare la canonizzazione sia l’incapacità dei medici di trovare una qualche spiegazione a un fenomeno. Se Dio entrasse in quest’ambito sarebbe, per definizione, consegnato alla funzione di tappabuchi.

Si possono venerare le reliquie? Forse sì, a motivo della simbologia, a volte molto alta, che trasmettono. Tuttavia questa possibilità è data in modo autentico soltanto quando si riesce a prescindere dal problema della loro autenticità. Se invece esso irrompe in modo prepotente il discorso si avvita su se stesso: negatori e sostenitori si trovano schierati su sponde opposte solo perché collocati sullo stesso terreno. Entrambi, per stabilire il vero e il falso, dipendono, volenti o nolenti, dalle scienze storiche o da quelle della natura. Essi perciò, per sostenere la loro tesi, tendono ad assolutizzare quanto è relativo e questa operazione si riflette, per forza di cose, nella sopravvalutazione dell’oggetto a cui si riferisce la loro venerazione o la loro confutazione. Solo se fosse possibile prescindere da ogni discorso circa la sua autenticità o la sua falsità avrebbe senso andare a Torino per vedere la Sindone. C’è da dubitare che ci si trovi in queste condizioni.

Resta in ogni caso certezza di fede che leggere e meditare la narrazione della morte di Gesù secondo i quattro evangeli costituisca l’accesso più autentico per cogliere il senso della morte di Gesù. Nel credere, l’ascoltare prevale sempre sul vedere. Scrisse Kafka: «Chi crede non vedrà mai un miracolo. Di giorno non si vedono le stelle».