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L'AMORE AL TEMPO DI MULLER (E DI PAPA FRANCESCO): "LA FORZA DELLA GRAZIA" DI COSTANTINO! L'intervento del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sull'indissolubilità del matrimonio e dibattito sui divorziati risposati e i sacramenti - con note ,a c, di Federico La Sala
Ultimo aggiornamento: October 28 2013 11:52:51.
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Autore | Città | Giorno | Ora |
Federico La Sala | Milano | 26/10/2013 | 19.54 |
Titolo:Matrimonio: una riflessione da aprire, non da chiudere... |
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Matrimonio: una riflessione da aprire, non da chiudere (2)
di Christian Albini in “Sperare per tutti” (http://sperarepertutti.typepad.com) del 24 ottobre 2013 * 3. L'essenziale del matrimonio Parlare di matrimonio in termini eminentemente dottrinali o giuridici non ne coglie in pieno la verità. Quando leggo o ascolto certi discorsi che vengono da uomini di chiesa mi viene da scuotere la testa. Si coglie che ci sono aspetti fondamentali che sfuggono. Non ci si sposa né si rimane insieme a motivo di una dottrina o del diritto canonico. Se si perde di vista questo assunto, quelli che sono degli strumenti che dovrebbero essere di aiuto, diventano un fine, producendo una comprensione squilibrata del matrimonio. Sinceramente, devo dire di aver avuto questa impressione nella lettura dell'intervento dell'arcivescovo Müller su cui ho iniziato ieri a riflettere. Lo affermo con il rispetto per un eminente prelato e studioso che stimo, per come ha riaperto la questione spinosa della teologia della liberazione. Qui però siamo alle prese con qualcosa di vitale per me e per tante persone, qualcosa che ha un profondo significato di fede. E' la via su cui, con i miei errori e le mie fragilità, ho giocato la mia vita, è un aspetto sostanziale della mia sequela del Signore. E, se sono profondamente convinto che c'è qualcosa che non va nel modo in cui se ne parla, lo devo dire. Per quel poco che vale la mia povera voce, lo devo dire, cercando di portare buone ragioni nella misura in cui ne sono capace. Non è un fatto di polemica, ma di onestà come uomo, battezzato, sposo. Tutto l'intervento di Müller è imperniato sulla dottrina dell'indissolubilità del matrimonio, come se fosse il centro della fede cristiana su questo sacramento. Detto così, si riduce il matrimonio a un vincolo, a un comando amministrato dalla chiesa e dai suoi tribunali che ne possono eventualmente stabilire la nullità. E' come se il sacramento fosse qualcosa che si sovrappone all'umano e lo vincola. Una visione del genere è povera. Il sacramento, piuttosto, abita l'umano per portarlo a realizzarsi in pienezza. Il sacramento umanizza, alimenta la nostra umanità per giungere alla statura di Cristo. Però, senza mai togliere la nostra libertà che è anche libertà di rifiutare il dono e di peccare. L'umanità abitata dal sacramento del matrimonio è l'amore umano, né più né meno. Un amore che inizia con l'attrazione e il desiderio; diventa scoperta, conoscenza, condivisione e il desiderio assume un carattere di totalità. E' il desiderio di essere una sola carne, di un amore che non finisce. E' l'essere a immagine e somiglianza di Dio, inscritto dentro di noi. Genesi 3,24 non dice un comando di Dio, dice come noi siamo. L'indissolubilità non è un decreto arbitrario, è intrinseca all'amore. Indissolubile è l'amore di Dio per il suo popolo, di Cristo per la sua chiesa, del Padre per ciascuno di noi. Di qui il nostro poter amare: siamo capaci di amare perché Dio è amore. Questo credono, o quanto meno intuiscono, due sposi. Se manca, almeno in minima misura, questa consapevolezza, sono convinto anch'io che il matrimonio religioso sia nullo. Gli sposi hanno fiducia che il loro amarsi viene da Dio, che continua la storia iniziata con il battesimo (di cui si fa memoria), che ha come vertice e alimento l'eucaristia, segno dell'amore di Gesù che arriva fino alla croce. Sposarsi è avere fiducia che il proprio amore può durare tutta la vita, perché non siamo soli, Dio è presente nella storia d'amore umana, la benedice. Ecco l'indissolubilità: è una promessa del Signore in cui si pone fiducia, non una regola. La chiesa è la comunità che accompagna e sostiene questo amore, questa fede. Non può essere presente solo per esercitare un giudizio. 4. Peccato e misericordia C'è però il dramma della libertà che può prendere la via del peccato: nell'amare possiamo fallire, essere infedeli, indurire il nostro cuore. In molti modi, non solo sessualmente. Questo può avvenireanche a persone che si sono sposate con fede. Nessuno è esente a priori. Quando avviene, è un fatto grave e c'è una componente di peccato, d'infedeltà, se il matrimonio era reale e non solo facciata. E' un peccato che la chiesa può perdonare? La missione affidata da Gesù agli apostoli non è proprio il perdono dei peccati? Qui bisognerebbe distinguere da una rottura del matrimonio che nasce là dove uno degli sposi, con leggerezza, "passa ad altro" seguendo una pulsione egoistica e disinteressandosi del coniuge (ma, allora, mancava già in partenza la consapevolezza che rende valido il matrimonio) da un deterioramento dei rapporti che nasce da limiti e fragilità delle persone implicate, con un carico di fatica e sofferenza per entrambi. In quest'ultima situazione, il non accesso all'eucaristia dipende dallo stringere una nuova unione affettiva là dove c'è un'intimità sessuale e non continenza. Questo costituirebbe un peccato imperdonabile? Ma come: la chiesa può perdonare un'omicida, può perdonare un pedofilo, può perdonare un prete che rinuncia al ministero, ma non può perdonare un divorziato che vive un'altra storia perché ha dei rapporti sessuali? La misericordia lì non arriva? Si dice: ah, ma ci vuole il pentimento. Se no, è falsa misericordia, senza giustizia, che incoraggia il peccato, perché non lo tratta seriamente e lo svuota della sua gravità. Prima osservazione: Dio nella Bibbia non agisce così. Il suo perdono precede la conversione e la suscita, non è una conseguenza della conversione. Lo vediamo in Osea. Lo vediamo in Gesù, con l'adultera, per esempio (Gv 8,1-11). E' vero che le dice di non peccare più, ma intanto la perdona. Non aspetta di verificare che si sia convertita, la perdona prima, in anticipo! Gesù non vuole l'adulterio, lo condanna, ma con il peccatore esercita grande misericordia ed è così che si pongono le premesse della conversione. Si dice: sì, ma la chiesa accoglie i divorziati risposati. L'esclusione dall'eucaristia non è una punizione. E' che non si può, è per far capire che sono in una situazione di peccato; se non vivono in continenza, vuol dire che non c'è pentimento, e la chiesa per essere nella verità non può ammetterli all'eucarestia. E' falso! Chi conosce persone divorziate che hanno fatto un cammino interiore serio, sa che il pentimento c'è, che la consapevolezza c'è. E con sofferenza, non con noncuranza. Ma pentirsi non può voler dire far rinascere artificialmente una convivenza che non c'è più e distruggere di colpo un rapporto che si è creato, quando è profondo e consolidato. Il punto è che qui c'è un'enfatizzazione del peccato sessuale che è una brutta eredità che il cattolicesimo si porta ancora dietro. Davvero, l'omicidio può essere perdonato, ma se c'è una nuova unione di cui fa parte l'esercizio dell'affettività sessuale (non una sessualità disordinata ed egoistica) non si può dare il perdono? Eppure, ovunque si sposano in chiesa persone che prima sono state conviventi e hanno avuto rapporti sessuali e non sono affatto pentite di questo. E succede ovunque. Però, siccome si sposano, si "regolarizzano". Ecco il problema: alla radice del divieto dell'eucaristia non c'è l'ordine sacramentale, l'intima essenza dei sacramenti. I sacramenti non sono riservati ai puri e ai perfetti: accompagnano il nostro cammino di conversione, ci sostengono. La questione vera non è di teologia dei sacramenti, secondo me, è di teologia morale e prima ancora di antropologia: la sessualità. Sulla sessualità pesa ancora un'impostazione giuridica che deriva da una visione peccaminosa: se è dentro il matrimonio ed è aperta alla procreazione è lecita, se no c'è peccato. Semplifico, ma stringendo la sostanza è questa. La sessualità è un cammino, per gli sposati come per i celibi, un esercitarsi nell'umanità e nell'amore in cui è sempre presente la zizzania della nostra insufficienza. Farla rientrare in un dualismo lecito/non lecito è falsarla, è parlare di qualcosa che non è realmente la sessualità. E far dipendere da questo l'accesso all'eucaristia, secondo me, deriva da questa concezione inesatta.Dire questo non è non credere all'indissolubilità del matrimonio. Neppure è negare il peccato e giustificare ogni comportamento. Penso sempre a persone che fanno un cammino serio di penitenza, di fede, di preghiera. Quello che intendo è dare la possibilità di continuare un cammino di vita cristiana di cui l'eucaristia è parte essenziale, pur con la ferita del matrimonio che si è celebrato. Le ferite non si possono cancellare, ma possono curare e guarire. Ci può essere vita anche dopo la ferita. Non è questa la via mostrataci da Gesù, la via su cui seguirlo come chiesa? Ecco perché vorrei si prendesse in considerazione questa prospettiva nel guardare a una realtà del genere. E' la prospettiva che ci fa vedere come praticabile una via, piuttosto che un'altra, e io ho voluto suggerire una prospettiva che so non essere soltanto mia. * PER LA PRIMA PARTE, SI CFR.: “Sperare per tutti” (http://sperarepertutti.typepad.com) del 23 ottobre 2013 |
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Autore | Città | Giorno | Ora |
Federico La Sala | Milano | 28/10/2013 | 11.52 |
Titolo:Ripensare il relativismo (di Christian Albini) |
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Ripensare il relativismo
di Christian Albini in “Viandanti” (www.viandanti.org) del 27 ottobre 2013 Credenti e no sono necessariamente avversari? Da sempre sostengo che non sia vero. Premetto che queste sono etichette fuorvianti, come ormai sostengono molti. Il «credente» è abitato dal dubbio e anche il «non-credente» conosce una sua fede e la ricerca. Tuttavia, sono categorie comode per semplificare i nostri discorsi, a patto di disinnescare alcuni luoghi comuni fuorvianti e dannosi. Uno dei più importanti riguarda il significato del linguaggio del relativismo, che ha segnato il pontificato di Benedetto XVI, e l’uso che se ne fa. A lungo, il dissenso rispetto alle posizioni prevalenti tra i vertici della gerarchia cattolica, soprattutto in campo etico-legislativo, è stato respinto ricorrendo a quest’accusa. Il relativismo fa parte di quei concetti il cui significato è stato irrigidito e che vanno ri-compresi e ri-letti. C’è bisogno di una nuova comprensione di parole che sono state sequestrate dai settori più chiusi del cattolicesimo. La laicità non è relativista Gustavo Zagrebelsky, intervenendo nel dialogo aperto da papa Francesco con Eugenio Scalfari, scrive: «In ogni spirito che s’ispira alla laicità e crede alla necessità che forze morali possono unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a “reimpostare in profondità la questione” suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene e il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà» (la Repubblica, 23 settembre 2013). In anni recenti, vale la pena ricordarlo, Zagrebelsky ha portato avanti una critica serrata all’etica dei principi non negoziabili e della legge naturale, così com’era impostata anche da voci autorevoli del magistero. Questa sua posizione, come si evince dalle parole che ho riportato, non significa la negazione della verità, del bene e della giustizia. Il suo è il rifiuto di una certa impostazione etica e degli argomenti di cui si avvale, più che di ogni etica. E nemmeno è il sostenere una posizione radicalmente individualista e perciò relativista. Ultimamente, alcuni fatti tragici hanno dimostrato come sia possibile trovare una sintonia tra portatori di visioni del mondo diverse in nome del bene della persona. È accaduto in occasione della giornata di preghiera e digiuno per la pace e in seguito alle tragiche morti di Lampedusa. Qui è in causa la persona con il suo volto, la sua carne, il suo sangue: un bene univoco, evidente, da difendere nei confronti di un male indubitabile. Alle radici delle divergenze Ci sono altre situazioni – soprattutto quelle riguardanti l’etica d’inizio e fine vita e la famiglia – in cui questa sintonia non si riscontra. Perché? Bisogna avere l’accortezza di chiedersi se questa è una divergenza che nasce da una negazione della vita e della famiglia, o piuttosto da una differente concezione del bene. Il nichilismo certamente esiste, ma sarebbe irrealistico considerarlo un fronte ben identificabile e schierato in armi contro i cattolici che lo fronteggiano. Solo un’esigua minoranza, tra gli atei e i non cattolici, può essere considerata effettivamente nichilista. Nietzsche e Heidegger hanno ben spiegato come il nichilismo sia piuttosto un clima di pensiero, un’atmosfera che tutti respiriamo, cattolici compresi. Si può essere perfettamente ortodossi sul piano dottrinale, eppure assumere un atteggiamento nichilista: è il caso del fondamentalismo, che divide il mondo in due e demonizza l’alterità negandone il bene. Il punto è: chi sostiene su questioni di vita e famiglia una posizione “altra” rispetto a quella prevalente nella Chiesa – scrivo prevalente, perché in ambito teologico-morale interrogativi e dibattiti hanno uno spazio molto più ampio di quanto generalmente non si pensi, al punto che nella storia si rilevano cambiamenti anche notevoli nel magistero – è sostenitore di un male? E se, invece, sostenesse un bene differente, oppure una differente attuazione del medesimo bene che la Chiesa sostiene? La prospettiva dell’incontro Se in una relazione omosessuale caratterizzata da fedeltà e dedizione c’è un bene, riconoscerlo non significa negare il matrimonio. Chi sostiene, a certe condizioni e in certe situazioni, l’interruzione della ventilazione o della nutrizione artificiale è per la morte, o invece discerne una sproporzione tra i costi soggettivi, in termini di disagio psicologico, di queste pratiche e il fine che perseguono? Si tratterebbe allora di un giudizio morale su come coniugare la cura della vita con la libertà e la dignità della persona umana. Non è affatto l’avvallo dell’eutanasia e di una cultura dello scarto, ma accettare che oltre un certo limite può diventare disumanizzante persistere nell’impedire la morte. Affrontare queste e altre questioni non significa entrare in una prospettiva di permissivismo senza freni, in cui tutto va bene. Sarebbe caricaturale porre le cose in questi termini. È più corretto dire che è una prospettiva d’incontro, la quale nasce dalla disponibilità a riconoscere il bene di cui l’altro è portatore dentro a una relazione. Senza che questo significhi necessariamente trovare un accordo facile e totale. Allo stesso modo, non è attraverso la vittoria in una disputa, bensì nella relazione che l’altro arriva a ritenere credibile me e il bene di cui sono portatore. Scrive Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21). Il relativismo, allora, non è dato da posizioni non pienamente coincidenti con le mie, ma dall’indifferenza per la persona e il suo bene, che inizia dal non riconoscerlo come soggetto portatore di un’autenticità etica che si manifesta nella sua coscienza. È in questi termini che si può leggere l’esortazione di papa Francesco a seguire il bene percepito dalla propria coscienza, che non è avvallo di tutto. Nel mercante di clandestini o nell’aguzzino nazista non c’è autenticità etica, perché c’è indifferenza verso l’altro. Ben diverso è il caso di chi entra nei dibattiti su vita e famiglia. Christian Albini Socio fondatore e membro del Consiglio direttivo di Viandanti |