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Ultimo aggiornamento: October 28 2012 17:57:48.
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Autore | Città | Giorno | Ora |
Federico La Sala | Milano | 12/5/2012 | 13.23 |
Titolo:SCOPRIAMO UN'ALTRA EUROPA! La nuova stagione dei diritti ... |
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La nuova stagione dei diritti
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 12.05.2012) Il fronte dei diritti si è appena rimesso in movimento. Obama ha affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali, e lo stesso ha fatto François Hollande inserendolo nel suo programma e mettendo all’ordine del giorno quello ancor più impegnativo del fine vita. Di questa rinnovata centralità dei diritti dobbiamo tenere conto anche in Italia. In che modo, però, e con quali contenuti? Qualche esempio. La recente sentenza della Corte di Cassazione sui matrimoni gay è un dono dell’Europa. Così come lo è l’avvio dell’estensione alla Chiesa dell’obbligo di pagare l’imposta sugli immobili. Così come può diventarlo l’utilizzazione degli articoli 10 e 11 del Trattato di Lisbona. Mi spiego. La Cassazione ha potuto legittimamente mettere in evidenza il venir meno della "rilevanza giuridica" della diversità di sesso nel matrimonio, e il conseguente diritto delle coppie dello stesso sesso ad una "vita familiare", proprio perché queste sono le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e soprattutto dell’innovativo articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sappiamo, poi, che la norma sul pagamento dell’Ici da parte della Chiesa è andata in porto solo perché erano ormai imminenti sanzioni da parte della Commissione europea. E la discussione sui rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, tornata con prepotenza in Italia anche per effetto degli ultimi risultati elettorali, trova nel Trattato chiarimenti importanti, a cominciare dal nuovo potere che almeno un milione di cittadini può esercitare chiedendo alla Commissione di intervenire in determinate materie. Lo ha appena fatto il Sindacato europeo dei servizi pubblici che si accinge a raccogliere le firme perché l’Unione europea metta a punto norme che riconoscano come diritto fondamentale quello di accesso all’acqua potabile. Scopriamo così un’altra Europa, assai diversa dalla prepotente Europa economica e dall’evanescente Europa politica. È quella dei diritti, troppo spesso negletta e ricacciata nell’ombra. Un’Europa fastidiosa per chi vuole ridurre tutto alla dimensione del mercato e che, invece, dovrebbe essere valorizzata in questo momento di rigurgiti antieuropeisti, mostrando ai cittadini come proprio sul terreno dei diritti l’Unione europea offra loro un "valore aggiunto", dunque un volto assai diverso da quello, sgradito, che la identifica con la continua imposizione di sacrifici. Questa è, o dovrebbe essere, una via obbligata. Dal 2010, infatti, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è quindi vincolante per gli Stati membri. Bisogna ricordare perché si volle questa Carta. Il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, lo disse chiaramente: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione». Sono parole impegnative. All’integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l’integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata pienamente realizzata, al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell’Unione europea si sarebbe accompagnato addirittura un deficit di legittimità. Si avvertiva così che la costruzione europea non avrebbe potuto trovare né nuovo slancio, né compimento, né avrebbe potuto far nascere un suo "popolo" fino a quando l’Europa dei diritti non avesse colmato i molti vuoti aperti da quella dei mercati. Negli ultimi tempi questo doppio deficit si è ulteriormente aggravato. L’approvazione del "fiscal compact", con la forte crescita dei poteri della Commissione europea e della Corte di Giustizia, rende ancor più evidente il ruolo marginale dell’unica istituzione europea democraticamente legittimata - il Parlamento. Oggi si levano molte voci per trasformare la crisi in opportunità, riprendendo il tema della costruzione europea attraverso una revisione del Trattato di Lisbona. In questa nuova agenda costituzionale europea dovrebbe avere il primo posto proprio il rafforzamento del Parlamento, proiettato così in una dimensione dove potrebbe finalmente esercitare una funzione di controllo degli altri poteri e un ruolo significativo anche per il riconoscimento e la garanzia dei diritti. Non è vero, infatti, che l’orizzonte europeo sia solo quello del mercato e della concorrenza. Lo dimostra proprio la struttura della Carta dei diritti. Nel Preambolo si afferma che l’Unione "pone la persona al centro della sua azione". La Carta si apre affermando che "la dignità umana è inviolabile". I principi fondativi, che danno il titolo ai suoi capitoli, sono quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, considerati come "valori indivisibili". Lo sviluppo, al quale la Carta si riferisce, è solo quello "sostenibile", sì che da questo principio scaturisce un limite all’esercizio dello stesso diritto di proprietà. In particolare, la Carta, considerando "indivisibili" i diritti, rende illegittima ogni operazione riduttiva dei diritti sociali, che li subordini ad un esclusivo interesse superiore dell’economia. E oggi vale la pena di ricordare le norme dove si afferma che il lavoratore ha il diritto "alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato", "a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose", alla protezione "in caso di perdita del posto di lavoro". Più in generale, e con parole assai significative, si sottolinea la necessità di "garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti". Un riferimento, questo, che apre la via all’istituzione di un reddito di cittadinanza, e ribadisce il legame stretto tra le diverse politiche e il pieno rispetto della dignità delle persone. Tutte queste indicazioni sono "giuridicamente vincolanti", ma sembrano scomparse dalla discussione pubblica. Si apre così una questione che non è tanto giuridica, quanto politica al più alto grado. Il riduzionismo economico non sta solo mettendo l’Unione europea contro diritti fondamentali delle persone, ma contro se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro democratico, legittimato dall’adesione dei cittadini. Da qui dovrebbe muovere un nuovo cammino costituzionale. Se l’Europa deve essere "ridemocratizzata", come sostiene Jurgen Habermas, non basta un ulteriore trasferimento di sovranità finalizzato alla realizzazione di un governo economico comune, perché un’Unione europea dimezzata, svuotata di diritti, inevitabilmente assumerebbe la forma di una "democrazia senza popolo". Da qui dovrebbero ripartire la discussione pubblica, e una diversa elaborazione delle politiche europee. Conosciamo le difficoltà. L’emergenza economica vuole chiudere ogni varco. Dalla Corte di Giustizia non sempre vengono segnali rassicuranti. Lo stesso Parlamento europeo ha mostrato inadeguatezze sul terreno dei diritti, come dimostrano le tardive e modeste reazioni alla deriva autoritaria dell’Ungheria. Ma l’esito delle elezioni francesi, e non solo, ci dice che un’altra stagione politica può aprirsi, nella quale proprio la lotta per i diritti torna ad essere fondamentale. Di essa oggi abbiamo massimamente bisogno, perché da qui passa l’azione dei cittadini, protagonisti indispensabili di un possibile tempo nuovo. |
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Autore | Città | Giorno | Ora |
Federico La Sala | Milano | 15/5/2012 | 13.12 |
Titolo:Un contadino all’Onu in difesa delle tribù |
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Un contadino all’Onu in difesa delle tribù
di Carlo Petrini (la Repubblica, 14.05.2012) Sono nato in una terra di contadini. Ed è anche per questo che è un onore, per me che da sempre difendo la biodiversità, prendere la parola oggi al Forum dell’Onu sulle questioni indigene. Credo infatti che fra chi ama la Terra e le popolazioni indigene si debba stringere un’alleanza. Sono convinto che questi popoli sono stati, sono e soprattutto saranno da stimolo per costruire un futuro migliore che non può che partire dalla terra, dal suo rispetto, e dalla salvaguardia della biodiversità. Perché per troppi anni abbiamo calpestato il diritto al cibo e alla sussistenza di molte comunità indigene e di allevatori rincorrendo un progresso miope. L’analisi della realtà ci dice che molte buone pratiche e il sapere empirico tradizionale dei popoli indigeni meritano di essere studiati con attenzione per il bene della nostra Madre Terra. Per questo voglio anticipare ai lettori di Repubblica le parole che leggerò. Eccole. Lavorare per la salvaguardia della biodiversità in campo agricolo e alimentare come strumento per garantire un futuro al nostro pianeta e all’umanità intera è importante. La perdita progressiva della diversità di specie vegetali e razze animali può rappresentare, insieme al cambiamento climatico, il più grave flagello per gli anni a venire. Occorre tuttavia precisare che difendere la biodiversità senza tutelare la diversità delle culture dei popoli e il loro diritto di governare sui propri territori è un’impresa insensata. Tale diversità è la più grande forza creatrice della Terra, è l’unica condizione per mantenere e trasmettere un patrimonio straordinario di conoscenze alle generazioni future. Su questi principi Slow Food ha basato la propria esistenza e per mantenere questi principi ha realizzato nel 2004 Terra Madre, una rete di comunità del cibo che si è propagata in oltre 170 Paesi. Terra Madre non è un partito e nemmeno un sindacato, è semplicemente una rete, un movimento di persone che, nel rispetto delle proprie diversità, cercano il dialogo, lo scambio culturale, la solidarietà. Il diritto al cibo sta al centro di tutto. Il cibo, per essere condiviso, deve essere buono per il piacere di tutti; pulito perché non distrugge l’ambiente e le risorse della Terra; giusto perché rispetta i lavoratori, procurando il nostro sostentamento, garantiscono la vita della comunità terrestre. Tutti i popoli devono avere accesso al cibo buono, pulito e giusto. Tutti i popoli devono avere cibo adeguato che provenga dalle proprie risorse naturali o dai mercati da loro scelti. Tutti i popoli, nel produrre il proprio cibo, hanno il diritto di mantenere le loro pratiche tradizionali e la propria cultura. Su questi principi e su queste basi molte comunità indigene di tutti i continenti hanno animato la rete di Terra Madre e hanno partecipato attivamente alle conferenze globali che dal 2004 si svolgono ogni due anni a Torino. Nell’ultima la cerimonia di apertura fu consacrata alle riflessioni delle comunità indigene espresse nelle loro lingue ancestrali. Da allora molte iniziative si sono attivate. Nel 2011 si è tenuta "Terra Madre Indigenous People" a Jokmokk, nel nord della Svezia, terra delle popolazioni Sami. Il congresso ha visto la partecipazione di indigeni provenienti da 61 Nazioni. Questi incontri generano autostima tra i partecipanti. Si avverte forte il senso di appartenere a una grande comunità di destino, di non essere soli nei propri territori, di avere un ruolo importante e costruttivo. Questa consapevolezza è stata rafforzata ed esaltata nel 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, con la Dichiarazione dei Diritti delle Popolazioni Indigene, ha affermato con chiarezza il contributo straordinario alla diversità e alla ricchezza della civiltà. Slow Food non solo condivide questi principi ma ritiene che, in questo particolare momento storico caratterizzato da una crisi economica, ecologica e finanziaria, mettere a valore la diversità culturale del pianeta possa contribuire a innescare pratiche virtuose e sostenibili. Il benessere umano passa attraverso il diritto universale a un cibo di qualità per tutti. Obesità e fame, che dilagano nel mondo, sono i due volti di una stessa medaglia, sono il simbolo del fallimento di un sistema alimentare globale basato principalmente su una produzione industriale che dipende in massima parte dalle risorse energetiche fossili. Mai come in questo momento si avverte l’esigenza di cambiare alla radice questo sistema. Saper guardare indietro alle nostre tradizioni e a sistemi alimentari più sostenibili non è stupida nostalgia. La reintroduzione di produzioni alimentari locali è la risposta per nutrire il pianeta, è l’attivazione della vera democrazia, la partecipazione di tutti per il bene comune. Per troppo tempo la produzione del cibo ha voluto estromettere o limitare i saperi delle donne, degli anziani e degli indigeni, relegandoli al fondo della scala sociale. L’umanità ha coltivato un’idea di sviluppo e di progresso basata sulla convinzione che le risorse del pianeta fossero infinite. Oggi la "gloriosa marcia" del progresso è arrivata sull’orlo del baratro e la crisi è figlia dell’avidità e dell’ignoranza. Ma il monito della Natura è ben più grave della crisi finanziaria, esso ci chiama a riflettere su un destino tragico per l’esistenza stessa dell’umanità, se non si cambiano marcia e percorso. Sarà giocoforza ritornare sui nostri passi, ecco allora che gli "ultimi" saranno quelli che indicheranno la strada giusta. Avremo bisogno della sensibilità delle donne e del loro pragmatismo, della saggezza degli anziani e della loro memoria, ci accorgeremo che i popoli indigeni hanno la chiave per un approccio più sostenibile al Diritto al cibo, perché da sempre praticano l’economia della natura. Ma attenzione: dovrà essere evidente a tutti quanto male è stato procurato a questi soggetti nel nome del progresso e della supremazia del mercato. Quanti saperi, conoscenze e prodotti della Terra sono stati piratescamente derubati alle comunità indigene da multinazionali farmaceutiche e alimentari. Prima di rimetterci in marcia occorre restituire il maltolto, occorre impedire qualsiasi logica di agricoltura industriale insostenibile nelle aree indigene. Tutti abbiamo bisogno di rispettare e valorizzare l’economia della Natura e della sussistenza, per troppo tempo considerata inferiore all’economia della finanza globale. Cresce nel mondo la consapevolezza che rafforzare l’economia locale, l’agricoltura locale e il rispetto delle piccole comunità sia una giusta pratica per riconciliarci con la Terra e la Natura. Mancanza d’acqua, perdita di fertilità dei suoli, erosione genetica di piante e animali, spreco di alimenti mai visto nella storia dell’umanità, sono problemi che, se si continua a produrre, a distribuire e a consumare il cibo con questo sistema alimentare, resteranno senza soluzione. In campo agricolo la nuova disciplina dell’agroecologia altro non è che la capacità di riproporre in chiave moderna il dialogo tra i saperi tradizionali e la comunità scientifica. Non sarebbe onesto non riconoscere che i popoli indigeni hanno un approccio alla produzione del cibo che è storicamente sostenibile. Sanno mantenere la fertilità dei suoli utilizzando risorse e metodi naturali, rafforzando la resilienza delle colture e degli allevamenti. La politica di molti governi e agenzie di sviluppo di contrapporsi e minacciare le pratiche agricole dei popoli indigeni, come la rotazione delle coltivazioni e la pastorizia, è una politica miope e sbagliata. Slow Food condivide la sfida di questo Forum Permanente delle Nazioni Unite nel difendere le pratiche indigene che in molte parti del mondo operano per il mantenimento della coltura itinerante. Non è giusto appropriarsi dei beni comuni della Terra, ma come dicevano i Nativi Americani: «Insegna ai tuoi figli che la Terra è nostra madre, tutto ciò che accade alla Terra, accadrà ai figli della Terra. Se gli uomini sputano in terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la Terra non appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla Terra. La Terra vale più del denaro e durerà per sempre». Anche se in questo momento, in molte parti del mondo, gli arroganti prevalgono sugli umili; anche se le alte gerarchie del sapere e della politica non lasciano spazio ai contadini, ai pastori, ai pescatori e alla parte più sensibile di essi: le donne, gli anziani e gli indigeni; malgrado ciò siamo sempre più coscienti che riconciliarci con la Terra è l’unico modo per uscire dalla crisi. Le buone pratiche della lotta allo spreco, della condivisione e del dono, del ritorno alla Terra si realizzano con lentezza, senza frenesia e ansia. Tutta l’umanità è in debito con i popoli indigeni che hanno saputo nella pratica quotidiana mantenere questi principi, insegnando ai figli che tutte le cose sono collegate tra loro e che prenderci cura di tutte le creature è il dono più grande che ci è stato fatto. |
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Autore | Città | Giorno | Ora |
Federico La Sala | Milano | 28/10/2012 | 17.57 |
Titolo:Tutti figli di Caino zappaterra ... |
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Noi esseri moderni, tutti figli di Caino zappaterra
di Dario Fo (il Fatto, 28.10.2012) Avevo poco più di tredici anni, perciò un ragazzino, quando sfogliando un libro di commenti scientifici alla Bibbia ho scoperto che la Genesi come me la raccontavano a scuola e a dottrina era falsa o, se vogliamo essere più precisi, molto limitata ed errata nell’informazione. Subito lo scienziato-autore prendeva in considerazione l’origine dell’uomo che, secondo il sacro libro di Dio, sarebbe nato solo un discreto numero di secoli fa, qualche centinaia di migliaia d’anni prima dell’avvento del cristianesimo; e invece gli antropologi oggi indicano questa origine come avvenuta due milioni di anni prima dell’epoca cosiddetta moderna e soprattutto ci avvertono che il primo uomo e la prima donna sono venuti al mondo in Etiopia, quasi un milione di anni fa e quindi erano di colore scuro, dall’ambrato all’ebano. Hanno pure scoperto che le prime pitture che descrivono la Genesi furono dipinte proprio in Abissinia nel I secolo dopo Cristo, e mostrano non solo Adamo ed Eva di carnagione scura, ma anche Dio molto abbronzato. “DIO NERO?! ”. “Eh sì! E coi capelli crespi e grandi labbra! ”. Io, allora ragazzino, a questa notizia sono rimasto letteralmente sconvolto. Di colpo nella mia idea della civiltà dell’uomo, tutta la storia della razza eletta, cioè bianca, andava a quel paese. Le immagini di Adamo ed Eva, così come le avevo conosciute sfogliando la Bibbia illustrata da Gustave Doré, erano false. Inaccettabile era anche l’atteggiamento che Dio aveva tenuto verso i due primi figli di Adamo ed Eva. Sappiamo che Abele era un pastore, quindi allevava pecore e capre, mentre Caino era contadino, piantava sementi di grano, orzo, segale. Caino e Abele erano fratelli e si volevano bene ma Dio fece un grave errore: pubblicamente mostrava di preferire il pastore al contadino. Per Abele aveva un’adorazione, al contrario, un po’ meno, amava e stimava Caino e soprattutto il suo mestiere di zappatore coi piedi sempre zozzi di fango e la faccia arsa dal sole. “MA COSA stai combinando Padre Nostro? Crei la rissa? A cominciare proprio dall’inizio della stirpe! ”. Abele porta a te, Signore, un agnello perché lo si faccia arrosto. Tu vai in visibilio. Ma, quando arriva Caino, con un mazzo dorato di grano, non ti degni neanche di guardarlo. E allora vuoi proprio l’odio fraterno, che la storia finisca in tragedia! Perciò ti chiedo Signore, chi ha armato di quel bastone la mano di Caino? Santo Padre, guardiamoci negli occhi: tu sei il responsabile del fratricidio! Tanto è vero che a un certo punto te ne rendi conto e gridi: “Guai a chi tocca Caino! Chi lo minaccia o tenta di ucciderlo avrà a che fare con me! ”. E allora pensateci bene, entrambi i fratelli al momento della tragedia non avevano ancora generato figli propri, quindi la sola stirpe che è venuta al mondo e che ha generato tutta l’umanità discende da un unico esemplare: Caino! Quindi, siamo tutti figli di Caino! Tiè! Siete rimasti male? Bene, sbagliate! Dovreste esserne fieri. Caino e la sua genìa di contadini hanno creato, inventato, scoperto le cose più importanti della nostra vita, per la nostra crescita: chi ha intuito la possibilità di riprodurre i cereali con cui sfamarci? Chi ha ideato l’innesto, cioè la possibilità di inserire attraverso un ramo diverso, un diverso frutto più succulento e profumato? Un villano. Chi ha intuito il valore dell’acqua? I contadini, mica le multinazionali! O se preferite fu Noè, anche lui di razza contadina, che appena salvata l’umanità dal diluvio piantò il primo seme per la vite e quindi fu il primo a ubriacarsi fradicio. E la ruota? Chi l’ha creata? Un ragioniere del Comasco? No, sempre lo zappaterra, che oltretutto ha costruito i primi ponti e ha scoperto l’irrigazione, la rotazione delle semine. Ha allagato deserti per renderli fertili. Ha inciso la terra per creare canali con argini, dighe e chiuse. VA BENE, va bene, sento già l’erudito contestatore che mi fa notare: “Sì, il contadino è stato utile all’evolversi dell’uomo, ma chi ha tolto dalla condizione animale, rozza e bruta l’essere umano? Forse l’inventore della pagnotta di pane? O del prosciutto di Parma? ”. No, e nemmeno il mastro fornaio, sempre della razza dei villani, che ci ha insegnato a cuocere col lievito le ciambelle e le succose lasagne, ma che hanno fatto fremere dell’uomo soltanto le sue trippe. Chi ha elevato l’intelligenza e la poesia dell’essere umano è stato solo l’autore del canto, il compositore della musica, il maestro di danza e il lirico inventore del ritmo e dell’armonia. “E chi è costui? ”. Nient’altro che il sublime poeta di corte che non sapeva certo zappare, né incidere la corteccia degli alberi. Caro erudito furbastro, qui stai mettendo in campo il solito furto con raggiro e truffalderia: chi fu il primo essere umano che s’inventò una ninna nanna per indurre al sonno il suo figliolo? “Ma di certo una mamma contadina”. E nelle lagune i contadini hanno imparato a muoversi in equilibrio su lunghe barche spingendo canne o puntali che conficcano nel basso fondale. Remavano, e per meglio andare a tempo cantavano in coro. Quindi, per favore, rispettate l’intelligenza del villano, la sua straordinaria creatività e chiamatelo per favore Maestro giacché tutto ci ha insegnato, perfino a riunirci fra di noi in momenti di disastro e tragica carestia creati da voi, signori, e impiantare milioni di piccoli orti che avranno di certo il potere di salvarci, se seguiremo il loro esempio, dalla pressante miseria e dalla fame. |