IL GIORNO DELLA MEMORIA. SHLOMO è stato tra coloro che hanno voluto (assieme a Tullia Zevi) che il “giorno della memoria italiano” fosse il 27 gennaio (abbattimento dei cancelli di Auschwitz) come quello europeo(Furio Colombo).
NON PERDEREMO LA MEMORIA! ADDIO A SHLOMO VENEZIA. Gli interventi di Furio Colombo, Oreste Pivetta, ed Elena Loewenthal

Shlomo Venezia se n’è andato a 88 anni. Era nato a Salonicco dove, fino all’arrivo della furia nazista, viveva una delle più grandi e antiche comunità ebraiche d’Europa, annientata nei campi di sterminio


a c. di Federico La Sala

 Shlomo Venezia, non perderemo la memoria

di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2012)

Dopo Shlomo Venezia chi verrà a dire - in forma di testimonianza diretta e implacabile - ciò che è accaduto durante gli anni della persecuzione razziale (tedesca, italiana e di tutti i fascismi succubi) in Europa? Chi persuaderà coloro che adesso sono giovani e i giovani che non sono ancora venuti, che è veramente accaduto ciò che Shlomo Venezia ha raccontato ogni giorno, finché era vivo, quest’uomo grande e forte che era sopravvissuto ai due eventi spaventosi del campo di sterminio e del ricordo?

SHLOMO ERA la prova (che mancherà fra poco, con lo spegnersi degli altri pochi che sono ancora in grado di rendere questa tremenda testimonianza), di tre cose impossibili: che quel che è accaduto (sterminio di tutto un popolo, per ragioni dette senza vergogna e senza pudore “razziali”, ma anche in onore di macabro pregiudizio religioso, estesissimo, radicatissimo, sempre in vita, sulla morte di Cristo dovuta agli ebrei) che quel che è accaduto, è accaduto non come impulso bestiale, ma attraverso una meticolosa e perfetta organizzazione . Così perfetta che dovendo scegliere fra la morte di tutti gli ebrei e il rischio imminente di perdere la guerra, è stata data la precedenza al meticoloso e ben organizzato sterminio, fino all’ultimo campo e fino all’ultimo treno carico di vittime che riesce ancora ad attraversare per tempo l’Europa ormai devastata.

Infine chi dirà che tutto questo è un progetto di cultura, della più alta, nel cuore di un’Europa e si riteneva e ancora si ritiene la culla di tutto, che guardava, e ancora guarda, con benevola superiorità tutto il resto del mondo? Dice un proverbio americano che puoi ingannare tutti per poco tempo oppure qualcuno per lungo tempo, ma non tutti per sempre. Le leggi razziali e la loro esecuzione, complice un immenso silenzio di tutti (così poche le eccezioni che ogni tanto si contano e vi si rende omaggio, come a rari atti di eroismo) confutano questo detto del buon senso. 

Tutti hanno partecipato o accettato la persecuzione totale degli ebrei per tutto il tempo, e il fatto è così enorme e incredibile che ci voleva il corpo, la presenza, la vita e la memoria di Shlomo e degli ormai pochi sopravvissuti come lui perché chi non c’era o non sapeva credesse, al di là dell’inverosimile e della favola più oscura che l’umanità si sia mai tramandata. Ha scritto Alessandro Piperno che dopo Shlomo e dopo coloro che sono ancora qui, pronti a testimoniare, non si potrà più pretendere che qualcuno ti creda.

Spero che abbia torto e per questo ho fatto in modo che esistesse, anche con l’aiuto di Shlomo, un giorno detto “il Giorno della Memoria”. Spero, ma condivido quella paura, che è fondata sul senso di ciò che si può e ciò non si può narrare. “Ricordo” non è la parola, non basta. Shlomo e gli altri hanno fatto la guardia ai morti del massacro più ignobile del mondo fino all’ultimo istante. Erano qui a dire, parlando al presente, “badate che succede, che li portano via, anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati, tutti, per sempre, con la visione della buona cultura e l’efficienza della perfetta organizzazione, e il pregiudizio ben radicato di una fede”.

SHLOMO è stato tra coloro che hanno voluto (assieme a Tullia Zevi) che il “giorno della memoria italiano” fosse il 27 gennaio (abbattimento dei cancelli di Auschwitz) come quello europeo, e non il 16 ottobre (la razzia notturna nel ghetto di Roma, a 500 metri dal Vaticano e senza alcun grido di indignazione), come nel mio primo progetto. Voleva un segno che comprendesse tutta l’immensa tragedia europea. Immensa perché ha travolto tutti. E i discendenti del complice popolo europeo, che ha taciuto dovunque, avranno più difficoltà dei figli di Shlomo a spiegare il silenzio o vile o indifferente o prudente dei loro beneducati bisnonni, rispettosi dell’autorità e delle leggi. Shlomo Venezia è morto, ma bisognerà disperatamente fare in modo, nel rimpiangerlo, che non una sola parola di ciò che ha detto nelle scuole, nelle case, in tutti i luoghi d’Italia in cui ha potuto parlare, vada perduto. Troppo spaventoso sarebbe il vuoto.


Addio Shlomo, l’ultimo sopravissuto di Auschwitz

di Oreste Pivetta (l’Unità, 2 ottobre 2012)

182727. Nell’aprile 1944, Shlomo Venezia divenne un numero. Di quel numero, tatuato sul braccio in inchiostro nero, s’è forse liberato ieri morendo l’ultima volta, dopo essere morto mille e mille volte, lui che era vissuto -scrisse - con le mani nella morte, convincendo qualcuno a entrare nella camera a gas, trascinandone il cadavere, raccogliendo le sue ceneri, triturando le ossa più resistenti al fuoco, quelle del bacino, perché le tracce di un essere umano fossero le meno palpabili possibili... Raccontava Shlomo Venezia che anche le ceneri venivano passate al setaccio e solo dopo caricate da una carriola a un camion e poi disperse nel fiume.

Shlomo Venezia ad Auschwitz-Birkenau arrivò che aveva ventuno anni (era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923), era ebreo di origine italiana, l’avevano prelevato dentro la Sinagoga di Atene e, dopo qualche giorno in un carcere, l’avevano rinchiuso in un vagone insieme con altri ebrei come lui, con partigiani greci rastrellati sulle colline.

Dodici giorni dopo si ritrovò a Birkenau. Finì in uno stanzone, senza sapere dove fosse, che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Da una finestra vide una ciminiera e il fumo che saliva. Sentì parlare yiddish, si rivolse a quello sconosciuto in tedesco e lo sconosciuto gli rispose: chi non è più con noi si sta liberando da qualche parte del cielo. Tu passerai per il camino, come dice la storia dei campi di sterminio nazisti e come narrò in un libro, con quel titolo, un giovane partigiano italiano, deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera.

Shlomo Venezia ebbe il suo numero, 182727. Raccontava del dolore fisico patito quando lo incisero, dell’istintivo gesto di massaggiare il braccio, del grumo di sangue e inchiostro rimasto appiccicato alla mano e della paura di aver cancellato il numero: se l’avesse cancellato, come avrebbero reagito i suoi aguzzini. Il numero rimase lì per una vita a segnare la sua storia. Anche la «selezione» gli rimase addosso per una vita: era forte e lo scelsero per il sonderkommando, la squadra speciale. Tre mesi e poi ci sarà una nuova selezione, lo avvertirono i compagni. La «nuova selezione» significava l’eliminazione. Ma quel lavoro dà da mangiare? Gli assicurarono che qualcosa c’era.

Non c’era invece scelta: davanti ai suoi occhi tre ragazzi ebrei ortodossi rifiutarono e subito vennero fucilati. Cominciò a entrare in quello stanzone, a cavarne corpi nudi deformati dall’asfissia e dall’orrore: all’inizio era difficile, un cumulo alto un paio di metri, non si sapeva dove poggiare i piedi e come districare quel groviglio di scheletri. Una volta un compagno udì un gemito, come di un essere ancora vivo... Lui e gli altri continuarono a scavare. Il gemito si udì ancora. Tutti si diressero ad un angolo e videro un bambino ancora attaccato al seno della madre. Era vivo, lo raccolsero, una guardia se lo fece consegnare e gli sparò con la soddisfazione di un cacciatore sulla preda.

Quelli del sonderkommando dovevano sgombrare la camera a gas, lavare il pavimento, ridipingere di calce bianca le pareti. Non si doveva lasciar segno di quanto era avvenuto prima. I condannati dovevano entrare senza alcun sospetto, pensando ad una doccia, le donne per prime, con l’idea che era meglio sbrigarsi. Morivano tutti. Morì anche un cugino incontrato sulla porta del crematorio, un cugino che lo pregava di intercedere presso le Ss, perché lo salvassero. Ci provò. Dovette convincerlo a compiere l’ultimo passo, assicurandogli che non avrebbe sofferto.

Shlomo Venezia andò avanti così, di tre mesi in tre mesi, fino a quando due carri armati sovietici si presentarono alle porte di Auschwitz. Non fu tutto, perché Shlomo per anni, malato ai polmoni, dovette fare la spola tra un sanatorio e l’altro. Il ritorno alla vita civile fu in solitudine. Poi visse a Rimini e quindi Roma, si sposò con Marika, ebbe tre figli, ritrovò un’apparenza di normalità, solo un’apparenza, perchè «tutto mi riporta al campo». «Qualunque cosa faccia - scrisse nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 da Rizzoli - qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto... Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Si chiuse nel silenzio.

Quasi mezzo secolo dopo Birkenau, nel 1992, si decise a parlare (diede una consulenza a Benigni per il suo film «La vita è bella»). Nel 1992. «Un giorno - disse - ho trovato il coraggio di raccontare tutto quello che posso raccontare, quello che sono certo di aver visto».Tornò ad Auschwitz, rivide la torretta dell’ingresso con quella scritta, il lavoro rende liberi, non riuscì subito ad orientarsi non scorgendo più gli edifici dei crematori che i nazisti avevano fatto saltare, sempre quell’idea di far sparire i resti dei loro delitti. Ricordò soprattutto per i giovani, tornando più di una volta in quel luogo di insuperabile dolore. L’ultimo italiano della squadra speciale sopravvissuto, ricordò finché la salute lo sorresse, perché era certo che i giovani dovessero sapere


 Addio a Shlomo Venezia, vittima due volte del nazismo

di Elena Loewenthal (La Stampa, 2 ottobre 2012)

Shlomo Venezia se n’è andato a 88 anni. Era nato a Salonicco dove, fino all’arrivo della furia nazista, viveva una delle più grandi e antiche comunità ebraiche d’Europa, annientata nei campi di sterminio. «Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda. Non si esce mai per davvero dal Crematorio», ripeteva spesso.Se, come diceva Primo Levi, i sopravvissuti non hanno conosciuto la Shoah fino in fondo perché sono sfuggiti a quel destino di annientamento, Shlomo Venezia vi fu più vicino che mai: i tedeschi lo destinarono infatti al Sonderkommando, la squadra di prigionieri incaricata di condurre i convogli di ebrei alla distruzione. «A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri», scrive Levi ne I Sommersi e i Salvati.

Nell’universo dello sterminio, non c’è stata forse un’esperienza più terribile, più «completa». Nessuno ha conosciuto la macchina di Auschwitz meglio di loro, più da vicino. In pochissimi sono sopravvissuti alle squadre del Sonderkommando che si avvicendavano nel campo perché venivano eliminate a ritmo regolare, e per molto tempo nessuno di loro se l’è sentita di parlare perché pareva impossibile riuscire a raccontare una realtà così follemente crudele: «Non dovete credere che noi siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici», scrive ancora Primo Levi dialogando con uno di loro.

Per decenni il tormento ha costretto al silenzio anche Shlomo Venezia. Insieme alla moglie mandava avanti un negozietto di souvenir per turisti a Roma. All’inizio degli anni 90 ha cominciato a testimoniare e da allora l’ha fatto con tenacia e schiettezza, senza negare a chi lo ascoltava nulla dell’orrore che aveva vissuto. Raccontava l’inferno nel modo più diretto possibile e così aveva fatto anche per Roberto Benigni, che l’ha avuto come consulente preparando il suo film La vita è bella.

Da allora Venezia era stato nelle scuole, aveva testimoniato in pubblico, alla televisione. Parlava con una forza sconcertante, con un’energia vitale che rendeva ancor più obbrobrioso il confronto con la morte di massa di cui raccontava. E’ stato un testimone unico non solo perché veniva da quel buco nero dell’inferno, non solo perché lui dentro le camere a gas e nel forno crematorio ci era entrato migliaia di volte: anche per il coraggio di una parola franca, vibrante, senza eufemismi. Nel 2007 ha messo per iscritto la sua testimonianza in un libro intitolato «Sonderkommando Auschwitz» e pubblicato da Rizzoli


Martedì 02 Ottobre,2012 Ore: 11:55