La riflessione di un musulmano nel Giorno della Memoria
Per una memoria dell'olocausto

di Ibrahim °abd an-Nur

Nella tradizione islamica, si dice che coloro che ricordano il Nome del loro Signore (man dhakara'Sma Rabbihi) siano destinati al Paradiso, alla prossimità al Creatore. Ricordo (dhikr) è l'invocazione frequente (du'a), ma anche un lavoro ben fatto; è l'impegno a riconoscere ogni giorno la Dignità divina, ma anche lo sforzo quotidiano di rinnovare la propria dignità umana. La freschezza del ricordo, la sua genuinità, è data dalla misura in cui questo informa di sé l'intera vita del credente.
Allo stesso modo, l'invito a meditare le vicende degli uomini e dei popoli non s'esaurisce mai nell'erudizione storiografica; la storia deve inseminare l'identità, così come ogni progetto deve fondarsi sulla memoria. Una conoscenza sterile è un sapere morituro, marcescente.

Celebrare la memoria è sempre una scommessa fallimentare, tanto più velleitaria quanto maggiore è il clamore con cui la si decreta. La commemorazione, infatti, è un processo sempre aperto, un movimento che ha origine nell'evento ed ha termine nella sua dimenticanza; la sua istituzionalizzazione introduce piuttosto un'abitudinarietà anestetica, impersonale, in virtù della quale l'esperienza testimoniale si fa discorso pubblico, viene iscritta su lapidi e pagine, presto ricoperte da edera e polvere, ed oblio.
Checché se ne dica, un memoriale laico non può fondare nessuna religione civile: gli manca la ritualità calendariale, quella periodicità simbolica che rende le festività religiose pietre miliari su un percorso comunitario coerente, anziché soluzioni di continuità tra muti segmenti dissonanti.
L'odierna cultura dell'istantaneità pubblicitaria rappresenta, d'altronde, il primo e migliore ostacolo alla reale costituzione di un orizzonte memoriale duraturo, condiviso e comprensibile.

Ciò non equivale a denunciare l'intrinseca ipocrisia o l'inutilità di qualsivoglia opportunità commemorativa, quanto a segnalare l'urgenza di un rapido ripensamento. A partire dal fatto che la memoria non è questione di volontà, ma di sensibilità; non è possibile un'etica della memoria che prescinda da un'estetica del ricordo.
E' necessaria, anzi tutto, un'immediata moratoria della demagogia politica, della retorica istituzionale; non si rievoca una ferita con un batuffolo di cotone. Pace, dialogo e civiltà non riguardano la Shoah; varcare un cancello di filo spinato non inaugura l'attesa di una nuova primavera: la retorica dell'auspicio finisce per rappresentare la più subdola delle censure.
In fondo, il martirologio è un preludio della dissacrazione; un calendario disseminato di santi ha finito per incoraggiare la dimenticanza dei loro volti, delle loro virtù: ci hanno pensato loro ad essere testimoni; la questione è archiviata, e l'imitatio è privilegio, appannaggio di epoche eroiche.

Il trauma della tragedia deve invocare invece un'autocritica incessante, essendo qualcosa che incessantemente
ci riguarda. Il senso della memoria è la sua attualità, la responsabilità che quotidianamente ci delega, c'addossa, c'affida; è la potenza riformatrice che inocula nel tempo presente, inamovibile capo d'accusa dinanzi a se stessi ed alla storia intera.
A fronte di troppe chiacchiere di circostanza, ciò suggerisce piuttosto un silenzio greve, turbato, penosamente meditabondo, che non abdicando alla sequela testimoniale s'impieghi piuttosto a ridarle la dignità dei racconti attorno al fuoco, di vite modellate attorno a principi terribilmente concreti, umani, imminenti.

Raccogliere
la Memoria in un Libro sembrerebbe perciò un'iniziativa tanto utile quanto pericolosa. Mentre ci poniamo il problema di stilare una raccolta bibliografica sulla Shoah, dobbiamo domandarci come agire la sua conservazione, come incarnare la sua permanenza.
Ho in mente tre titoli che potrebbero concorrere a tenere in considerazione quest'esigenza.

Israele e la Shoah; Idith Zertal, ed. Einaudi.
Il testo ripercorre le diverse, contrastanti forme che la memoria della Shoah assunse nell'ambito della cultura e della politica israeliane. Riflettere sui modi e gli sviluppi, e talora, addirittura, sugli obiettivi della memoria, è almeno altrettanto importante della meditazione sui suoi contenuti.

Uomini comuni; Christopher R. Browning, ed. Einaudi.
Il libro analizza lo sterminio di alcuni deportati polacchi da parte di alcuni soldati nazisti, provenienti dai ceti più diversi della società tedesca. Uomini comuni: ecco, i carnefici. Ogni lettore, ogni gruppo umano è personalmente interrogato dall'abnormità dell'efferatezza; sono gli anfratti meno esposti delle coscienze a celare il terrificante baratro della disumanità.

Shoah; Claude Lanzmann, ed. Einaudi.
Imponente opera cinematografica edita ormai ventidue anni fa, in Francia; oggi disponibile sia in Dvd - nove ore complessive di riprese - sia nella trascrizione cartacea. La testimonianza non è sorretta da alcun tessuto narrativo, argomento, glossa; è la nuda, buia parola di chi non s'è mai allontanato, di chi non ha mai oltrepassato quei cancelli aperti, sommerso benché salvato.

Quegli stessi cancelli, violati il 27 gennaio 1945, non domandano affatto di essere "chiusi per sempre"; non invocano sorveglianza, né celebrazioni o fiaccolate. Esigono invece d'essere varcati, e che ci s'addentri, stravolti, nell'umido, doloroso silenzio della tragedia, avendo il coraggio, la disperata pazienza di non scrollarcene. Domandano di guardare ancor oggi con gli occhi pesti e le membra dolenti di coloro che non vogliono rassegnarsi a tollerarne l'insopportabile ferocia; invocano sommessamente di trarre in salvo coloro che ancora e sempre vi albergano, annientati, ammutoliti.
 
Ibrahim °abd an-Nur
 
 


Mercoledì 27 Gennaio,2010 Ore: 14:35