COSTITUZIONE, EVANGELO, e NOTTE DELLA REPUBBLICA (1994-2012): PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
VOGLIO SVEGLIARE L'AURORA. A DON GIUSEPPE DOSSETTI, PER IL SUO CENTENARIO DELLA NASCITA.  LA "TRIPLICE VITTORIA" (UN SUO ARTICOLO DEL 1945) E "LA LECTIO MAGISTRALIS" DI ALBERTO MELLONI (Reggio Emilia, 9 febbraio 2013). - con note

Chi ha avuto e ha paura della visione della chiesa come comunità convocata dal dono lo dipinge come un uomo che è vero solo quando sta in silenzio. Ma Dossetti è ciò che è per la sua capacità di produrre rigore e cultura. Una cultura il cui pregio non era quello di veder nero (altri vedevano più nero di lui), ma di vedere il vuoto che si apre quando la chiesa non accompagna il cambiamento dei paradigmi di civiltà con una risposta di fede che per Dossetti mancava, con esiti che l’unico suo libro di teologia sulla Shoah scava a fondo.


a c. di Federico La Sala

Perché non possiamo non dirci laburisti

di Giuseppe Dossetti (l’Unità, 10 febbraio 2013)

 

  • L’articolo fu scritto per «Reggio democratica» all’indomani della vittoria elettorale del Labour. Era il luglio del ’45, un anno prima della Costituente. «Triplice vittoria»: questo il titolo dello scritto dossettiano, che suscitò scandalo nella destra

 

Trascorse le primissime ore di sorpresa, di fervore, di entusiasmo, l’esito delle elezioni inglesi appare sempre meglio come la vittoria di un mondo nuovo in via di faticosa emersione. Vittoria innanzi tutto del lavoro più che, come alcuni hanno detto, vittoria del socialismo; vittoria cioè di una effettiva, concreta e universale realtà umana, meglio che di una particolare dottrina e prassi politica concernente l’affermazione sociale di quella realtà.

Certo il Partito laburista ha contrastato e vinto i conservatori opponendo alla loro caparbia cristallizzazione di interessi e di metodi, un vasto programma di trasformazioni sociali; ma si tratta di tali socializzazioni che, per i principi teorici cui si richiamano (e che non hanno a che vedere con le dottrine classiche del socialismo, né di quello utopico, né di quello marxista), per il campo di applicazione (le industrie chiave e i grandi gruppi finanziari) e soprattutto per il metodo di realizzazione (proprietà sociale e non statale) non consentono, se non per approssimazione giornalistica o propagandistica, di parlare di socialismo, almeno come da decenni lo si intende nell’Europa continentale, e come da mesi lo si intende nella ripresa italiana.

Ben più propriamente invece dobbiamo parlare di un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno: programma che non è logicamente né praticamente connesso con la teoria socialista e che può essere condiviso, come di fatto lo è, da altri partiti non socialisti.

In secondo luogo la «vittoria della solidarietà», più e meglio che come qualcuno si limita a dire vittoria della pace. Gli elettori inglesi rifiutando con così grande maggioranza a Churchill, vincitore della guerra, il compito di organizzare il dopo-guerra, non hanno semplicemente voluto esprimere la loro volontà di pace e il proposito di allontanare gli uomini, gli interessi, gli atteggiamenti che hanno portato alla guerra e potrebbero perpetuarla in potenza o in atto, ma ben più essi hanno voluto mostrare la loro preferenza per quelle forze e quegli uomini che, appunto per la loro qualità e il loro spirito di lavoratori e di edificatori, hanno dato prova di avere una volontà positiva e attiva per l’edificazione di una nuova struttura sociale e internazionale in cui, nei rapporti tra singoli, tra classi e tra nazioni, non solo siano psicologicamente superate, ma persino oggettivamente rimosse, le possibilità concrete di egoismi, di privilegi, di sopraffazioni e in cui siano poste garanzie effettive di solidarietà e di uguaglianza.

Infine, «vittoria della democrazia»: non solo per l’aspetto dai giornali e dai commentatori più rilevato, cioè per il fatto che, con l’avvento del laburismo al potere, la democrazia inglese entra finalmente nella linea della sua coerenza plenaria e la democrazia quasi esclusivamente formale (cioè di forme costituzionali e parlamentari di fatto accessibili solo a una minoranza di privilegiati) quale sinora è stata, si avvia a essere democrazia sostanziale, cioè vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale; ma vittoria della democrazia in un senso ancor più profondo e definitivo che molti non considerano e forse alcuni vogliono ignorare, cioè per il fatto che per la prima volta nella storia dell’Europa contemporanea si è potuto effettuare, nonostante le difficoltà dell’ambiente (la «Vecchia Inghilterra» conservatrice per eccellenza) e le difficoltà del momento (l’indomani della più grandiosa storia militare), una trasformazione così grave, decisa e inaspettata, che tutti consentono nel qualificarla «rivoluzione» e che tuttavia questa rivoluzione è avvenuta proprio per le vie della legalità e attraverso i metodi della democrazia tipica e gli istituti del sistema parlamentare.

Questo fatto è quello che riassume e corona, è quello che consacra nel presente e garantisce per l’avvenire la definitività delle altre vittorie. Ma è soprattutto quello che veramente conclude la storia dell’Europa moderna e apre non un nuovo capitolo, ma un nuovo volume, ponendo fine all’età del liberalismo europeo e preannunziando insieme la fine del grande antagonista storico della concezione liberale; cioè il socialismo cosiddetto scientifico. Non sembri un’affermazione paradossale: essa è veramente il frutto di una meditazione storica.

La vittoria del Partito laburista, che non è partito di classe, ma partito interclassista (in quanto accoglie il filatore di Manchester, Mac Farlane, il proletario del Galles e il maresciallo Alexander), del Partito laburista che non ha vinto solo con i voti dei distretti operai, ma anche con quelli dei centri rurali più legati alle concezioni tradizionali della Vecchia Inghilterra, del Partito laburista che ha vinto con una elezione popolate e veramente libera, tale vittoria, diciamo, ha non solo concluso il periodo delle dittature o delle aristocrazie conservatrici, ma ha smentito per la prima volta con la prova dei fatti le dottrine e le prassi (già da tempo confutare in teoria) che solo nel ricorso alla forza, nella dittatura di una classe sulle altre e nella metodologia dell’attivismo sopraffattore vedono una possibilità di ascesa per i lavoratori e di instaurazione di una vera democrazia.

Da oggi i lavoratori di tutto il mondo finalmente sanno di potere con fiducia rispondere ad un grido che li invita all’unità, ma non nel nome di un mito di classe e di lotta, ma nel nome di una volontà di solidarietà con tutti e di libertà e giustizia per tutti. Volontà che, come ha riconosciuto Clemente Attlee, è veramente cristiana.

Reggio Emilia, 31 luglio

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Voglio svegliare l’aurora - Il centenario della nascita di Giuseppe Dossetti 1913-2013 *

Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Giuseppe Dossetti (Genova 1913 - Monteveglio 1996), uomo politico, costituente, giurista e docente universitario, sacerdote e monaco, che ha segnato profondamente l’Italia e la Chiesa del Novecento e di oggi. La sua esistenza è legata in modo intenso e decisivo a Reggio Emilia e Cavriago, che lo ricordano con un programma di iniziative nel corso del 2013.

* DAL Sito Ufficiale del Comune di Reggio Emilia

 

 

 

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    Giuseppe Dossetti, un problema storico

    di Alberto Melloni (http://www.comune.re.it, 9 febbraio 2013) 

     

    • Il 9 febbraio si è svolta all’università di Reggio Emilia una cerimonia commemorativa della figura di don Giuseppe Dossetti con la lectio magistralis di Alberto Melloni. *

     

    1. Giuseppe Dossetti - al quale con un gesto la cui nobiltà perdona il ritardo con cui dedichiamo questo luogo, che da oggi diventerà “il Dossetti” - è un personaggio storico lontano: per molti un nome, ricordato proprio perché quel nome resta e periodicamente ritorna come un fantasma, un mito, un’ossessione, una dossessione dice Galavotti. Comunque un problema storico.

    Nato a Genova nel 1913, morto a Monteveglio nel 1996, potrebbe essere ormai studiato per quel che è stato nella storia, un politico, un riformatore, un produttore di cultura.

    Dossetti fu un politico di vita attiva assai breve: resta in scena con pieno titolo solo sei-sette anni fra la Resistenza e l’inizio degli anni Cinquanta. In un tempo nel quale i cattolici non erano moderati. Perché quando lo erano stati avevano votato la fiducia a Mussolini in Italia col Partito popolare, ad Hitler in Germania col Zentrum: e in quel momento, nel roveto ardente della liberazione, avevano in mente ben altro che finire al guinzaglio di nuove illusioni conservatrici o autoritarie. Volevano una democrazia sostanziale, una società dominata dalla ricerca della giustizia sociale e strumenti democratici di democrazia, cosa che in italiano si chiama partito. E insieme, nello stesso gesto con lo stesso respiro, una chiesa segnata dalla trasparenza evangelica. Cose che richiedevano per lo meno una Costituzione. E forse un Concilio.

    Dossetti è stato un riformatore, per tante cose un riformatore sconfitto. Padre di una Costituzione di cui deprecava la zoppìa della II parte, fondatore di avventure intellettuali e politiche che ha sovrastato con la sua visione del futuro. Perito del concilio Vaticano II, di cui pure sentiva le insufficienze. Cristiano, più precisamente “battezzato”, padre una “piccola famiglia” monastica nascosta fra l’appennino e la Palestina. Prete di una chiesa, quella di Bologna, quella italiana che dopo la rimozione di Lercaro, lo lascia andare in esilio in Medio Oriente dimenticandosi di lui. Eppure quest’uomo riformatore portatore del valore dell’utopia come utopia, lontano nella storia, ancora oggi fa discutere.

    Dossetti lo si denigra, lo si dimentica, e potendo lo si rimuove. I reazionari ne fanno la caricatura: un cattocomunista, un pesce rosso che nuota nell’acqua santa, un integralista. Gianni Baget Bozzo, suo antico discepolo vi riconosce l’ostacolo che impedisce il dispiegarsi del disegno politico di rinascita nazionale di Forza Italia.

    La chiesa italiana non riesce neppure da morto a dargli un posto, e a inserirlo nelle liste nelle quali, non senza qualche ipocrisia, mette La Pira o Lazzati, Sturzo e Toniolo, Bachelet o Moro. Perfino gli eredi delle tante scintille intellettuali e spirituali che ha seminato nella politica, nel diritto, nella ricerca, nella vita religiosa sono a mal partito con una personalità indocile a tutto, fuorché alla fede, che la vera eredità indivisa e indivisibile di questo personaggio.

    E così si finisce per creare tanti piccoli Dossetti, sfocati, uno per la resistenza, uno per la Costituzione, uno per la Dc, uno per il monachesimo, uno per il concilio, uno per Palazzo d’Accursio e uno per Piazza del Gesù. Nessuno dei quali è vero per una ragione semplicissima: perché Giuseppe Dossetti è stato Dossetti proprio per essere stato tutte quelle cose lì in una volta sola, tutte insieme, con una intensità alimentata da una spiritualità antica e aspra, per tutta la vita: e lo è stato con la consapevolezza di un cristiano che voleva esserlo facendo la propria scelta “con tutte le sue forze”. Per questo comprendere Dossetti vuol dire cercare di cogliere l’insieme di que sta intensità che già egli evocava nel discorso dell’Archiginnasio.

    2. Questa intensità si dispiega in tempi e storie precise, che di poco sbordano dal “secolo breve”, quello iniziato con la Grande Guerra e finito con la riunificazione della Germania. Dossetti nasce infatti nel 1913, ai tempi della Sagra della primavera di Strawinski, mentre infuria quella che Emilio Gentile chiama l’apocalisse della modernità: il delirio del bagno di sangue, del lavacro della violenza, che vede inerme una chiesa decerebrata dalla repressione antimodernista e una cultura che in tutti (con la sola eccezione di Sigmund Freud) attecchisce e fermenta il desiderio della violenza, di cui tornano anche oggi i sinistri rumori.

    È giovane quando il cattolicesimo è filofascista. Studente modello a Bologna, cresce fra Cavriago e Reggio sotto l’influsso della madre e del radicalismo cristiano di don Dino Torreggiani, il prete degli zingari, dei carcerati, segnato dalla figura di don Angelo Spadoni, il vicario scomunicato dopo la guerra. La spiritualità oblativa resterà come un ordito di tutta la sua vita. Dossetti vuole che la sua esistenza sia "un olocausto", ha il desiderio non di farla passare, ma di consumarla, di spenderla per qualcosa, anzi per Qualcuno, in una serie di intrecci spirituali decifrati analiticamente da Galavotti nel primo dei due tomi ai quali ha lavorato con difficoltà non tutte dovute al soggetto dei suoi studi.

    Ma Dossetti non è solo l’anima pia del bimbo rapito davanti alla sindone. È anche altro e lo si vede fin da giovane. Negli anni Trenta va a vivere a Milano, all’Università Cattolica del p. Agostino Gemelli, il socialista diventato francescano, scienziato, filofascista, vulcanica testa calda di una riconquista della società a partire dalle sue classi dirigenti, esaudito nel suo desiderio al punto che sessant’anni di classe dirigente cattolica, da Dossetti a Romano Prodi incluso, si formano ad una scuola che solo di recente ha perso questo rango.

    Negli anni dei tribunali speciali, della guerra d’Africa, delle leggi razziali, questo giovane giurista che studia diritto romano e diritto canonico, lavora per il fondatore dell’Università, per ottenere da Roma l’approvazione dei nuovi "istituti secolari". In Cattolica diventa un virtuoso della sua materia, di cui sarà poi ordinario in questa Università di Modena insieme ad un altro grande del diritto come Amorth. Talmente bravo che Pio XII promulga i documenti (due dei pochi nei quali non intervengono i suoi fidati consulenti gesuiti tedeschi) di cui Dossetti è il redattore. Talmente fine nella sua materia da riuscire a piegare Paolo VI quando il progetto di una Lex ecclesiae fundamentalis all’inizio degli anni Settanta cade perché la sua critica severa convince migliaia di vescovi a mettere uno stop a quel disegno.

    Il cavallo di razza della Cattolica, però non è solo un dotto minutante di diritto canonico: è un leader naturale. L’8 settembre 1943 quando lo Stato fascista si sgretola, Dossetti e altri giovani dotti destinati ad una Italia nazionalcattolica, si sono già svegliati alla democrazia, hanno iniziato a pensare al domani del paese. Pensare la resistenza intellettuale, poi quella politica, e infine aderendo a quella militare. Dossetti (lo racconta in una delle interviste agli studiosi di fscire.it che passerà martedì sera in tutt’Italia) gira per Milano con i volantini azionisti. A casa Cadoppi, proprio dietro questo Palazzo oggi a lui dedicato, rifiuta l’idea di un "partito cattolico", diventa capo partigiano della provincia di Reggio Emilia, dove i militanti comunisti hanno un peso enorme e la cui condotta dopo la liberazione costituisce una pleonastica vaccinazione ideologica di cui non farà vanto. Capo partigiano disarmato, Dossetti porterà qualcosa di quell’audacia in una vita politica che lui dice (è un vezzo che userà molte volte parlando di sé) inizia per caso. Piccioni e i vecchi popolari pensano possa essere un vicesegretario decorativo accanto a De Gasperi. Invece sprigionerà una creatività politica senza pari.

    Diventa il leader cattolico della commissione che alla Costituente stende quella carta che sarà anche la più bella del mondo, ma che, come dimostra il pizzico di storicamente sfocato che c’era nella splendida lectio di Roberto Benigni, è anche una delle più ignorate del mondo.

    Ha attorno a sé un gruppo di cui fanno parte La Pira, Lazzati, Mortati, Amorth, Fanfani, radunati in via della Chiesa Nuova. È l’autore dell’accordo che porta tutti i partiti di massa a riconoscersi nei principi della prima parte della Carta, inclusi quelli sui patti Lateranensi e sulla libertà religiosa. Nella DC è il capo della battaglia contro quel realismo che diventa immobilismo politico. Inventa strumenti economici, politiche, riviste e cenacoli - con l’idea che una democrazia "sostanziale" possa far sua le aspirazioni di giustizia sulle quali la sinistra socialcomunista guadagna i propri voti. Alla fine nel 1949-1951, paralizzato dalle "pressioni indicibili" della Santa Sede, decide di andarsene: perché senza una riforma della chiesa non ci sarà quella dello Stato.

    Svanisce dietro la cortina fumogena costruita Rossena e non porta nessuno dalla vecchia vita alla nuova che inizia a Bologna, sua chiesa e sua città per tutto il resto della vita. Per molti che hanno letto la sua rivista Cronache sociali (uno per tutti don Milani), una diserzione; per altri un sollievo che farà franare (è il caso di Montini e di De Gasperi) un equilibrio politico nel quale Dossetti era essenziale. Per altri un abbandono o un passaggio che comunque aumenta la riverenza per un inesauribile fiuto politico e un rapporto con la Scrittura magnetico.

    Per lui è il transito verso una vita diversa, di studio e di preghiera, che lentamente prenderà una forma monastica, o per essere pignoli come bisogna essere in quest’aula parlando di un maestro del diritto canonico, prenderà la non-forma di una reciproca immanen za fra fedeltà battesimale e vita sotto una regola, nella quale l’antico rifiuto della categoria dei “religiosi” degli anni Quaranta si esprime in categorie nuove.

    Dal 1953 infatti, Dossetti va a vivere a Bologna. Fonda in via san Vitale un "centro" che unisce una comunità di ricerca e una di contemplazione presto destinate a prendere ciascuna la sua via. Quello che tutti chiamavano "Pippo" diventa il fondatore di uno dei maggiori centri di ricerca sulla storia religiosa, l’autore d’una regola monastica per la famiglia religiosa - e per essa viene ordinato prete diocesano da Giacomo Lercaro che ne è padre. Non è questo l’approdo della sua vita? Sì, ma è un approdo che porta ancora molte sorprese. A partire dallo shock del 1956.

    Appena fatti i voti di obbedienza a Lercaro, il cardinale gli dà l’obbedienza di candidarsi a sindaco di Bologna, contro il Pci di Giuseppe Dozza. Un brivido che scomoda Togliatti, venuto da Roma per dargli del traditore, e che finisce in modo paradossale.

    Dossetti ovviamente perde le elezioni amministrative. Ma convoca giovani professorini, come Beniamino Andreatta e il già noto Achille Ardigò, e scrive quel Libro bianco per Bologna, che diventerà il manuale di tutte le giunte rosse da lì in poi. E tuona per chiedere, dal banco di un consiglio comunale, la "persecuzione della ragion di Stato" durante l’invasione dell’Ungheria.

    Poco dopo, il cardinale lo ha lasciato tornare alla vita orante, lo fa prete e gli affida il gioiello di Bologna, san Luca. Il 25 gennaio 1959 arriva inatteso l’annuncio del concilio Vaticano II, la nuova pentecoste voluta da papa Giovanni. Durante la preparazione Dossetti rimette in modo la sua officina di san Vitale 114 non per studiare i temi del concilio, coperti da segreto, ma per preparare un’edizione delle decisioni dei grandi concili della serie bellarminiana ma senza l’omissione di Costanza: un modo sofisticato per dire che il concilio apparteneva a quella tradizione millenaria e non all’orizzonte della condanne dei decenni precedenti. Ma nel concilio si realizza quel sogno che aveva coltivato negli studi, meditando una frase di Torquemada affiorata: "nel concilio non c’è più autorità che nel papa, ma c’è più grazia"

    Poi il concilio inizia, anzi “si apre” e apre la chiesa. Lercaro, padre conciliare, chiama Dossetti a Roma nel novembre del 1962 come suo consultore. Dossetti torna a vivere in quell’indirizzo emblematico, via della Chiesa Nuova. E da lì farà ricorso ai vecchi amici giuristi come Mortati, ai giovani del centro di Bologna - come Pino Alberigo, Boris Ulianich e Paolo Prodi - ai grandi teologi del Vaticano II. E sarà protagonista di passaggi decisivi del concilio. Paolo VI adotta nel 1963 un nuovo regolamento del concilio che lui ha riformulato e poi lo nomina perito del Vaticano II. La costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen Gentium si delinea con i voti orientativi da lui voluti, sul modello di ciò che aveva fatto in costituente.

    Dossetti altri passaggi decisivi del Vaticano II: ma soprattutto vede nella riforma liturgica non un cambio di formule, ma il sogno realizzato di una chiesa eucaristica. Si inalbera quando il concilio non vota la condanna della deterrenza atomica e non canonizza in aula papa Giovanni, padre e maestro della sua nuova vita.

    Per molti riformatori un concilio nella vita basta e avanza: è così anche per Dossetti? No: dal 1966, tornato a Bologna, lancia il progetto di una complessa riforma dell’arcidiocesi, diventa provicario, rischia di succedere al cardinal Lercaro nella cattedra e nella porpora.

    Ma non sarà così. Non solo perché il papa decide di nominare a Bologna Antonio Poma come coadiutore con diritto di successione. Ma perché nel gennaio del 1968 a Bologna capita qualcosa che non si vedeva da secoli. Lercaro, con una collaborazione di Dossetti, lavora all’omelia del 1° gennaio 1968, prima giornata mondiale della pace. Era la festa che, nei sogni di Paolo VI avrebbe dovuto sancire una tregua mediata da lui in Vietnam: la tregua non ci fu, continuarono i bombardamenti sui civili e Lercaro, anziché usare il registro degli auspici, condannò i bombardamenti sul Vietnam in nome di Dio. E condannare bombe americane "in nome di Dio" è un caso internazionale che innesca una reazione a catena dove tutto - l’affaire di Avvenire, il messale, il Pci - si fonde in una rottura esplosiva: Paolo VI rimuove Lercaro dalla sua cattedra: uno shock senza precedenti, che cambia la vita di Dossetti e lo priva, dopo quattordici anni del padre, a ridosso della morte della madre che aveva voluto nella propria famiglia monastica.

    Lercaro si sottomette a questa con “abbandono” e con una obbedienza soprannaturale sarà anche quella di Dossetti: che inizia un viaggio in Oriente, e poi, dopo l’udienza di Nixon atterrato con un elicottero da guerra in piazza san Pietro, si eclissa. Dall’Oriente a Monteveglio, da Gerusalemme a Gerico questo staretz cercato e temuto si sottrae a ogni impegno pubblico, fino alla morte di Poma, l’arcivescovo di Bologna che aveva sostituito Lercaro. Ma pur senza apparire è presente in momenti cruciali della chiesa e della storia.  

    Come dicevo poco fa si batte contro la Lex ecclesiae fundamentalis che voleva dare alla chiesa una costituzione che, per quanto simile a quella delle democrazie liberali, ne avrebbe inquinato la fisionomia di comunione: si batte con un’azione di disseminazione che persuade l’episcopato cattolico e convince Roma - sarà un maestro come Eugenio Corecco l’artificiere ultimo di questa operazione delicatissima - a rimettere tutto entro la sistematica codiciale.Nel 1978 è in Italia e attivo durante il rapimento di un suo antico amico Aldo Moro con una serie di iniziative e rivolte a vari leader politici e con una lettera alle Br che Giovanni Moro avrebbe dovuto ritirare la mattina della lettera di Paolo VI, quella che diceva “senza condizioni”.Nel 1980 scrive a Menachem Begin una severa lettera teologica quando, durante l’occupazione israeliana di Beirut, i miliziani cristiani perpetrano quell’immane eccidio a Sabra e Chatila, di cui egli addossa la responsabilità morale ultima a Tshaal: episodio e lettera dopo le quali Begin si ritirerà dalla vita pubblica.Nel 1982 assiste un cattolico come Beniamino Andreatta quando questi chiama in causa il papa in persona durante il discorso al parlamento che scoperchia lo scandalo dell’Ambrosiano/Ior e che salva la chiesa da un marasma dalle conseguenze incalcolabili.Riprende la parola in modo pubblico solo nel 1986 con un profilo che per alcuni è tutto ciò che resta di uno statista diventato un monaco anziano e malato. Eppure l’idea di Dossetti che, se si posa una cultura profonda su una vita integra si riesce a capire meglio il futuro continua a sbalordire.Come quando ad ottobre del 1990 scrive in un articolo apparso anonimo che sta per accadere nel mondo dopo l’operazione Desert Storm e spiega le conseguenze di quella che molti considerano la più classica delle guerre giuste. Dossetti teme che quell’alleanza internazionale non costituisca agli occhi delle masse diseredate dei Sunniti un titolo di legittimità, ma un ricordo delle crociate di cui il fondamentalismo ha bisogno.
      • Unico risvolto positivo della vicenda: questi fatti entreranno sempre più nella consapevolezza politica dei popoli. Di questi popoli anzitutto, ma anche di molti altri popoli asiatici e africani, con la conseguenza pressoché inevitabile di portare tumultuose reazioni in un vasto ambito di stati, più o meno direttamente coinvolti; reazioni che nessuno sarà più in grado di dominare. E questo non solo in tutti i paesi arabi, dalla Palestina allo Yemen, ma anche in Turchia, la cui situazione diventa sempre più difficile, in Egitto, dove le ripercussioni sono inevitabili, e negli altri paesi del Maghreb, aggravando crisi già in atto come quella del Sudan e di altri paesi africani. Tutto questo difficilmente non si estenderà al Pakistan e alle repubbliche sovietiche musulmane. [...] L’islamismo radicale aveva bisogno di questo e ne trarrà vantaggio. Anche se Saddam Hussein fosse eliminato, l’occidente si troverà di fronte un islamismo radicale più difficile da combattere e ideologicamente più inestirpabile, sia nei paesi musulmani che nell’Europa stessa. Vi saranno conseguenze evidentissime per la chiesa. C’è letteralmente pericolo dell’estinzione della chiesa nei territori palestinesi e giordani e in quel pochissimo di chiesa che poteva esserci negli altri territori di Arabia; una chiesa, cioè, ridotta a vivere all’interno degli edifici di culto. Il fatto che la prepotenza americana abbia costretto tutti i paesi, ormai vassalli, ad associarsi all’impresa, ha dato alla medesima un marchio di universalità che rievoca per tutto il mondo orientale la qualifica e il ricordo delle crociate, con tutto quello che ne segue: il ricordo degli eccidi e dell’intolleranza. Ma questo ricordo suscita anche nei musulmani la bellissima ed eccitante speranza che il trionfo degli occidentali sia effimero, come è stato effimero quello dei crociati. Costantinopoli, saccheggiata e bruciata nella quarta crociata del 1204, sarà come un’ombra sinistra costantemente evocata a tutta la Siria, all’Egitto stesso e poi a tutto il resto dell’Africa. Tutto questo riaccenderà l’intolleranza già presente contro i cristiani nell’alto Egitto.

       

      Ripeto: 1990. Non per profezia: ma per rigore intellettuale.

      Questa stessa lungimiranza lo riattiva anche politicamente all’indomani della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi del 1994: quando si schiera in difesa della costituzione promuovendo una fitta rete di comitati non per trattare la carta da feticcio di una nostalgia di vecchi partigiani, ma per un giudizio ancora una volta sulla chiesa.

      È la primavera del 1994. Così, con una tonaca addosso, diventa ancora una antenna politica di prima grandezza e guida un patriottismo costituzionale che, dopo la sua morte, il 15 dicembre 1996, farà valere le sue ragioni. Una sospensione emergenziale della vita monastica? l’inveramento di una vita politica nella spesa exhinanente di sé? Di fatto un’attenzione spirituale alla storia cosa che è sempre rimasta viva in Dossetti, quel muoversi tra i massimi sistemi, la chiesa e lo Stato.

      3. E che come ciascuna delle altre, a qualcuno fa problema: perché Dossetti continua ad esserlo un problema (da rimuovere) per ciò che questo percorso di cristiano e di uomo significa. Chi ha avuto e ha paura della forza della sua proposta politica immagina che "facendosi prete" abbia dimostrato il carattere astratto o utopico del suo pensiero. Chi ha avuto e ha paura della visione della chiesa come comunità convocata dal dono lo dipinge come un uomo che è vero solo quando sta in silenzio. Ma Dossetti è ciò che è per la sua capacità di produrre rigore e cultura.

      Una cultura il cui pregio non era quello di veder nero (altri vedevano più nero di lui), ma di vedere il vuoto che si apre quando la chiesa non accompagna il cambiamento dei paradigmi di civiltà con una risposta di fede che per Dossetti mancava, con esiti che l’unico suo libro di teologia sulla Shoah scava a fondo. In parte compensata da un "eccesso di fede" che vorrebbe fosse il modo proprio suo e della sua famiglia di compensare il semipelagianesimo dell’attivismo cattolico, la dissipazione delle energie spirituali, la mancanza di fede operante che tocca tutti, anche la gerarchia: una compensazione microcosmica dell’attivismo che si accontenta della presenza per la presenza, quella che è il danno che la chiesa fa a sé (e indirettamente, ma non inefficacemente allo Stato) e della quale il concilio - con i nodi dei poteri teologicamente partecipabili e della povertà di Cristo come povertà di impianti filosofici - è il paragone.

      4. Se nella chiesa Dossetti inquieta per la sua fedeltà teologica al concilio come atto di confessione di una chiesa eucaristica e di una cristologia del nudus nudum Christum sequi, sul piano politico quel che fa problema è il suo giudizio sul fascismo come dato permanente della storia italiana.

      Dossetti mutua da Gobetti l’idea del fascismo come autobiografia della nazione: ma non solo sul piano storiografico o sul piano della coscienza del cattolicesimo democratico (quello che non perdona i popolari italiani e i centristi tedeschi), ma proprio come dato permanente, che si ripropone.

      È questa la radice teologica del suo patriottismo costituzionale. Quello che Dossetti fiuta e rifiuta nel 1994 è la tentazione di liberarsi dalla coscienza della guerra che i costituenti portavano con sé in un agnosticismo costituzionale della chiesa italiana che ricordava l’altra grande “mancanza al proprio compito” della chiesa.

      Se Dossetti rimane un inciampo e un ingombro, se non si riesce a caramellarlo, se non si riesce a farne democristiano prestato all’ascesi o viceversa è per questo vigore culturale. Che non viene solo da un abitudine al rigore dello studio ma dalla Bibbia, indossata come la povertà sanante della cultura religiosa. La bibbia che "raschia il cervello" e che plasma l’intelligenza degli eventi e genera una “povertà” necessaria: perché (è una polemica del 1966):
      -  Pretendere che un valore culturale qualunque (anche se di grande dimensione e profondità come potrebbe essere il diritto romano o la metafisica aristotelica) sia universalmente valido equivarrebbe a scomunicare dall’umanità tutti quelli che non accettassero o potessero comprendere e assimilare quel valore.

      Dossetti per questo non cerca l’autoriforma dell’eremita, ma un monachesimo che sa che ogni cristiano ha bisogno della chiesa: e che la riforma della chiesa serve perché chi ne ha sete la trovi, in un momento nel quale si esauriscono le culture e non c’è (non c’è) un pensiero cristiano o non cristiano che non sia il mero rabberciamento di rottami ideali o ideologici. Questo spiega l’ostilità verso un uomo di un secolo. Il fascino di un uomo di un secolo fa che di quel secolo - come disse nel suo ultimo corso Pino Alberigo - fu la coscienza.

      * FONTE. FINESETTIMANA.ORG



Lunedì 11 Febbraio,2013 Ore: 13:44