CHE FATICA ARRIVARE AL VOTO !

di Daniela Zini

UN DIRITTO ACQUISITO DOPO SECOLI DI VIOLENZE, RISSE FURIBONDE E LOTTE SANGUINOSE


Per l’uomo moderno votare per eleggere i propri rappresentanti per un consiglio comunale o per il parlamento è un diritto e un dovere che non si discutono.
Come ogni altra espressione della vita democratica di un paese moderno – libertà di stampa e di espressione, libertà di riunione e via dicendo – anche il diritto di voto è stato spesso, anzi, quasi sempre, ottenuto attraverso contese, discussioni, scontri durati per secoli, spostandosi da un ceto dirigente all’altro.
Nel XIX secolo e in quello scorso, infine, tale lotta per la conquista dei diritti elettorali ha coinvolto tutte le classi della società.
La Regina Vittoria, verso la fine del XIX secolo, scriveva queste parole:
 
“La Regina è ansiosa di ottenere l’aiuto di ognuno, mediante sia scritti sia discorsi, affinché tutti si uniscano per arrestare questa follia nefasta che viene definita “diritti della donna”, con tutti gli orrori che questa follia comporta e verso la quale tende il suo povero debole sesso, dimenticando ogni senso di femminilità e di decenza. Lady Amberley (una valorosa combattente per il suffragio femminile) dovrebbe venire frustata a dovere.”
Guidati da un esempio così illuminato – non bisogna, infatti, dimenticare che i sovrani britannici avevano e hanno, tra le loro prerogative, anche quella di difensore della fede ed erano e sono capi della Chiesa Anglicana – è facile immaginare con quanto religioso fervore l’opinione pubblica in Gran Bretagna si opponesse alla concessione del voto alle donne. È, quindi, altrettanto comprensibile che le suffragette, vale a dire le donne che si battevano per ottenere il suffragio elettorale, si servissero di ogni mezzo per richiamare l’attenzione del paese e suscitare l’interesse pubblico.
Fu, così, che tra la fine del XIX secolo e il primo ventennio del secolo scorso la questione del voto alle donne degenerò in moltissimi casi, in Inghilterra, in scontri violentissimi. Da una parte, le suffragette ben decise a ottenere vittoria, dall’altra, i benpensanti e, per loro, la polizia. La polizia, evidentemente obbedendo a ordini precisi, non usava molti riguardi, per non dire alcun riguardo, nell’affrontare e disperdere le suffragette.   
Alle violenze e agli arresti, rispondevano, necessariamente, con pari decisione: spaccando, a esempio, le vetrine degli eleganti negozi del centro di Londra; incatenandosi alle cancellate del parlamento, interrompendo i comizi degli uomini politici più in vista. Rinchiuse in carcere per queste loro attività “sovversive”, queste donne indomabili iniziarono scioperi della fame, rimasti memorabili. Per riuscire a nutrirle si dovette ricorrere alla forza, versando loro in gola alimenti liquidi attraverso cannucce, infilate nel naso.
Nonostante tali amorevoli cure, in molti casi, le prigioniere si ammalavano seriamente ed era, quindi, necessario rilasciarle; ma, non appena guarite, venivano arrestate di nuovo!
Il movimento suffragista britannico ebbe anche una vittima: Emily Wilding Davison (1872-1913). Questa intrepida donna, ben conoscendo la passione dei suoi compatrioti per le corse dei cavalli, scelse proprio l’avvenimento più importante della stagione, il Derby di Ascot, che ha luogo, ogni anno, alla presenza dei sovrani e di tutta la corte, per compiere un atto dimostrativo. In occasione del Derby del 1913, Emily Wilding Davison si buttò davanti ai cavalli, che la travolsero, uccidendola (http://www.youtube.com/watch?v=NARvfwx2oIQ&feature=related).
Cinque anni dopo, conclusa la prima guerra mondiale, durante la quale le suffragette interruppero ogni attività per partecipare alle attività di assistenza, le donne di Gran Bretagna ottenevano finalmente il voto, anche se limitato alle donne di trenta anni o maggiori, proprietarie di casa o mogli di proprietari di casa; le loro sorelle americane lo ottennero, nel 1920.
La Gran Bretagna non era nuova a lotte del genere.
Fino dai primi anni del XIX secolo, era andato acquisendo sempre maggiore vigore il movimento per la riforma del sistema elettorale, assolutamente inadeguato al nuovo aspetto che andava assumendo il paese, specialmente in conseguenza della rivoluzione industriale. Viene, così, definito il periodo che, nel corso di circa ottanta anni, dal 1760 al 1840, vede la trasformazione della produzione da artigianale in industriale, in seguito all’introduzione dei macchinari per la filatura e la tessitura, della macchina a vapore con il conseguente sviluppo delle ferrovie.
Con il sorgere delle prime officine si verificarono, inevitabilmente, intorno a queste, vasti concentramenti di operai, in buona parte ex-contadini, che, abbandonate le campagne, si erano trasferiti, appunto, in città.
Ma la suddivisione del paese in quelli che, oggi, chiamiamo collegi elettorali, prima della rivoluzione industriale, necessariamente basata sui villaggi agricoli, non era stata mutata. Per questo stato di cose, si verificava il controsenso che tali centri agricoli, praticamente disabitati, mantenevano il diritto di inviare deputati alla Camera dei Comuni, mentre centri in cui lavoravano e abitavano migliaia di operai non godevano di tale diritto e non avevano, quindi, modo di far sentire la loro voce. Alcuni esempi di questa situazione assolutamente assurda: il borgo di Old Sarum, con sette cittadini votanti, che conservò, fino al 1832, il diritto di eleggere ben due deputati, Bossiney, in Cornovaglia, che non aveva che un elettore, il quale, naturalmente, eleggeva il suo bravo deputato!
Non bisogna, inoltre, dimenticare che questi villaggi o erano di proprietà della Corona britannica o di latifondisti, generalmente nobili di qualche specie. È, quindi, facile immaginare che il proprietario imponesse il proprio candidato, che doveva, assolutamente, essere eletto dai votanti, pena il licenziamento dal posto di lavoro o lo sfratto dall’abitazione e, più spesso, entrambi. Allora, nulla era più facile che controllare il comportamento elettorale dei cittadini. Infatti, il voto non era segreto: si votava sulla pubblica piazza per alzata di mano o per acclamazione: è, quindi, evidente come fosse semplice individuare l’elettore che non votasse come voleva il padrone e, conseguentemente, punirlo, come si è detto. Per concludere questo assai poco edificante quadretto, bisogna ricordare che i proprietari di tali villaggi, detti “borghi corrotti”, quando erano a corto di denaro, offrivano in vendita la candidatura – quindi, la elezione sicura – al migliore offerente. Il prezzo raggiungeva le 30mila e, perfino, le 40mila sterline; questo prima della riforma della legge elettorale, nel 1832.
Questa riforma stabilì, tra l’altro, che le elezioni dovessero durare non più di due giorni; in precedenza, le elezioni potevano durare giorni e giorni, anche perché gli elettori potevano votare in più di un collegio, per cui venivano trasportati in giro quanto più era possibile.
Charles Dickens (1812-1870), ne Il Circolo Pickwick (1836-1837) ci dà un quadro vivacissimo e, nella sostanza, veritiero di quello  che era un’elezione, verso il 1830, in Inghilterra. In questo romanzo, Dickens, come è noto, dedica un capitolo appunto all’elezione del deputato in una cittadina di cui “per delicatezza” tace il vero nome. Il signor Pickwick, protagonista del romanzo, giunto a Eatanswill – questo il nome fittizio del grande borgo – si informa presso un suo amico, agente elettorale di uno dei contendenti, sull’andamento della contesa e sulle possibilità di vittoria dell’uno e dell’altro:
“Incerte”, rispose l’ometto secco, “per ora assai incerte. Quelli di Fizkin, è l’agente del nostro avversario, hanno trentasette elettori chiusi nella rimessa della locanda del Cuore Bianco!”
“Nella rimessa?”, esclamò il signor Pickwick sorpreso da questo colpo maestro di strategia politica.
“Li tengono chiusi nel caso ne abbiano bisogno”, continuò l’altro, “e li tengono chiusi per impedirci di prenderli noi; del resto, anche se riuscissimo a impadronircene non ci servirebbero a nulla perché hanno cura di mantenerli ubriachi in permanenza. È un gran dritto l’agente Fizkin, un uomo di prim’ordine.”
Il signor Pickwick non trovò nulla da dire.
“Comunque”, riprese l’ometto, “non disperiamo”, quindi, a voce bassa, continuò. “Ieri sera abbiamo dato un piccolo ricevimento: quarantacinque signore, mio caro, quarantacinque signore e a ognuna abbiamo regalato un parasole verde…!”
“Un parasole!”, disse il signor Pickwick.
“Proprio, mio caro. Quarantacinque parasoli a sette scellini e mezzo cadauno. Non c’è donna che possa resistere a cose di questo genere. L’effetto provocato dai nostri parasoli è stato straordinario: ci siano assicurati tutti i mariti e una buona metà dei fratelli. Nulla batte i parasoli, altro che calze e sottovesti di flanella e roba del genere! E questa dei parasoli è stata idea mia, solo mia. Può grandinare, può piovere, può esserci il sole ma non farete neanche cinquanta metri per la strada senza vedere una mezza dozzina di parasoli verdi!”
Questa, evidentemente, era una versione satirica e umoristica della verità, ma la realtà era questa. Nel corso delle elezioni per il rappresentante del collegio elettorale di Westminster, che durarono dal 1° aprile al 17 maggio 1784, la posizione dei tre candidati si dimostrò assai incerta: ora, era in testa lo statista liberale Charles J. Fox (1749-1806), acerrimo nemico del re Giorgio III, quindi, gli altri candidati, l’ammiraglio Lord Samuel Hood (1724-1816) e Sir Cecil Wray (1734-1805), sembravano sopravanzarlo. A un certo punto si ebbe la sensazione che Fox stesse per spuntarla. Ira del re, che ricambiava, con interesse, l’odio dello statista, e ordinò, immediatamente, si mandasse a votare una compagnia di granatieri della guardia e tutti i servitori di palazzo, affermando che erano proprietari di casa del comune di Westminster - cosa evidentemente falsa - e, quindi, avevano diritto al voto (infatti, allora, come era stato in passato, e come fu, per molti anni ancora, fino al XX secolo, requisito essenziale per aver diritto a votare era essere proprietari o, comunque, esercitare un’attività redditizia).
Da parte sua l’ammiraglio Hood assoldò una banda di manigoldi, li vestì da marinai e li mandò alle urne. Tutto sarebbe andato liscio se… i falsi marinai non avessero incontrato una masnada di cocchieri irlandesi, ingaggiata dall’altro candidato. Ne seguì, naturalmente, uno scontro vivacissimo nel corso del quale i falsi marinai bruciarono le carrozze degli irlandesi. Dovettero intervenire le guardie reali, non più in veste di falsi elettori, per dividere i contendenti.
Ormai, le cose si mettevano male per il candidato liberale Fox e, allora, si ricorse agli estremi rimedi, come racconta lo storico Nathaniel William Wraxall (1751-1831) nelle sue Memorie Postume (1836):
“Il partito ormai non aveva altra possibilità di successo che nel trovare una soluzione originale. Da questo momento la campagna elettorale assunse un tono addirittura divertente. Dato che la riserva di voti locali era ormai esaurita, si pensò di ricorrere ai sobborghi e si mobilitò per questo un’eccezionale propagandista: la duchessa di Devonshire, che non si fece pregare. Ordinò immediatamente di attaccare i cavalli e accompagnata dalla sorella, la contessa Duncannon, andò casa per casa incitando gli elettori a fare il loro dovere. Mai si erano viste due dame di così alto lignaggio degnarsi anche solo di accorgersi degli umili cittadini; si può, quindi, pensare l’emozione di questi nel sentirsi pregare. Il successo fu pari all’attesa; ben presto Fox superò l’avversario.” 
Non è difficile immaginare che il comportamento delle due titolate avesse suscitato l’ira e il disappunto dei conservatori (anche, è  molto probabile, perché non vi avevano pensato loro) che protestarono vivacemente, esagerando le attività svolte dalle due nobili sorelle in favore dei liberali. Si affermò, infatti, che queste non fossero andate troppo per il sottile nel loro zelo propagandistico, al punto che Sua Grazia la duchessa avesse ottenuto il voto di un macellaio in cambio di un bacio.
Comunque queste pratiche corrotte non erano ignote neppure nell’antichità, proprio ad Atene, patria della democrazia, per convincere gli elettori a partecipare alle riunioni elettorali in preparazione delle elezioni e alle votazioni, si era dovuto ricorrere alla distribuzione di somme in denaro.
Anche in Italia, del resto, fin verso il principio del secolo scorso – e probabilmente anche più tardi – si usavano metodi del tutto simili. Uno di tali sistemi, a quanto pare abbastanza diffuso nei centri minori, consisteva nel distribuire agli elettori la metà di un biglietto da dieci lire, l’altra metà restava in mano all’agente elettorale o al capomafia o al fattore del signor duca o marchese o, comunque, del “padrone”.
Se il”padrone” risultava eletto con un numero di voti corrispondente (o almeno molto vicino) a quello delle mezze dieci lire distribuite, le altre metà trattenute dall’agente elettorale o capomafia, venivano consegnate agli elettori.
E, ritornando alla Gran Bretagna, è, quindi, assai comprensibile che, date le premesse cui si è accennato, il cammino del suffragio universale non sia stato, né facile, né rapido.
Dalla prima riforma elettorale del 1832 dovettero passare novantasei anni perché le elezioni avessero, veramente, luogo a suffragio universale, senza più alcuna riserva. Il primo passo venne compiuto, con la riforma, appunto, del 1832, con cui si eliminarono parte dei borghi corrotti, si crearono circoscrizioni elettorali nelle grandi città industriali, quali Manchester, Birmingham, Leeds, Sheffield, fino allora non rappresentate alla Camera dei Comuni, si limitò a due soli giorni la durata delle elezioni e si abbassarono i limiti del valore delle proprietà che i cittadini dovevano possedere o delle loro entrate pur mantenendo vivo il principio del censo, come base del diritto di voto. Con questa riforma acquistarono tale diritto 217mila cittadini, in precedenza, esclusi.
Ci volle una trentina di anni – trentacinque per l’esattezza – perché, nel 1867, un’altra riforma estendesse il diritto di voto a oltre 900mila britannici. Le limitazioni finanziarie all’esercizio del diritto di voto vennero ulteriormente abbassate, allargando la capacità di votare fino a comprendere gli inquilini e non più solo i proprietari di casa. Si aumentarono i rappresentanti alla Camera dei Comuni per le grandi città e si diminuirono quelli dei centri con popolazione inferiore ai 10mila abitanti.
Fino al 1884, nel sistema elettorale britannico non cambiò nulla, ma in quell’anno per la nuova riforma 2 milioni di nuovi votanti fecero fare un nuovo passo innanzi sul cammino della democrazia.
Trentaquattro anni più tardi, nel 1918, conclusa la prima guerra mondiale, l’importante riforma, definita da alcuni addirittura rivoluzionaria, garantiva il voto alle donne di almeno trenta anni, inoltre, ammetteva al voto tutti i maschi di ventuno anni, residenti in un collegio elettorale; modificava le clausole finanziarie, abolendone alcune; limitava a un solo giorno le operazioni di voto che dovevano aver luogo in tutto il territorio nazionale.
Con questa riforma 8 milioni di cittadini divennero elettori.
Nel 1928, il diritto di voto veniva esteso a tutte le donne maggiorenni a parità di condizioni con gli uomini. Così 7 milioni di elettrici completavano il corpo elettorale britannico.
Nel 1948, infine, venivano eliminati gli ultimi privilegi delle grandi università, in materia di rappresentanti alla Camera, e i residui delle limitazioni di carattere economico.
Un secolo per la storia è niente, per l’uomo è lunghissimo, è quasi difficile da immaginare che abbia fine. Eppure i tentativi, le lotte, le delusioni di quelli chi iniziarono questa battaglia per la democrazia, in Gran Bretagna e in tutti i paesi, hanno dato, dove più, dove meno, i loro frutti.
E sono serviti veramente?
Daniela Zini
Copyright © 2 gennaio 2011


Luned́ 03 Gennaio,2011 Ore: 21:30