UNA VIAGGIATRICE EUROPEA SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
AFGHANISTAN: PONTE TRA DUE MONDI

di Daniela Zini

Passaggio obbligato nel cuore dell'Asia, la terra, che fu contesa dai grandi conquistatori del passato, svolge, ancora oggi, il ruolo delicato di Stato-cuscinetto tra Oriente e Occidente.


“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux
 
 
“Quando Allah ebbe creato il resto del mondo, si avvide che era rimasto ancora molto materiale di scarto che non si adattava a nessun luogo. Allora, mise insieme quel materiale e lo gettò sulla terra. E quello divenne l’Afghanistan.”
 
 
Esistono contrade, pietrose, aride e gelide, che sembrano non poter suscitare alcuna cupidigia. Da decenni, tuttavia, gli uomini vi muoiono sudiciamente e le donne vi soffrono atrocemente, generazione dopo generazione. A una sciagura, a un tiranno succede un’altra sciagura, un altro tiranno. Che venga dal di fuori o dal di dentro, si abbatte ciecamente e con una crudeltà estrema e sembra distruggere la speranza stessa. Nel vedere la miseria delle città in rovina, la condizione delle donne, le lotte che contrappongono le diverse tribù, sembra sia scomparso l’Afghanistan, come lo hanno scoperto Marco Polo, Bruce Chatwin, André Malraux, Ella Maillart, Annemarie Schwarzenbach e tanti altri…
Non si conoscono dell’Afghanistan che le immagini speculari dai media. Ma questo paese vanta una lunga storia e una grande cultura.
L’apporto personale nel faticoso cammino verso la democrazia da parte degli intellettuali afghani, quali Mina Keshvar Kamal, Spojmai Zariab, Nadia Anjoman, Jamila Mujahed, Asef Soltanzadeh, Atiq Rahimi, Khaled Hosseini, Sayd Bahodine Majrouh, per i quali la scrittura ha rappresentato una forma di resistenza di fronte alla barbarie, è innegabile. Dal 1979 al 2002, non meno di duecento articoli di giornali, settimanali e riviste sarebbero stati pubblicati all’estero da afghani, ai quali si devono aggiungere trecento articoli editi all’interno del paese.
Da Venezia alla Cina, la Via della Seta resta più che mai un asse mitico.
Un cammino iniziatico sul quale oriente e occidente hanno barattato, per secoli, beni e idee.
Oggi, lo spirito di questa strada – di ospitalità, di concordia, di scambio tra uomini e, dunque, di apertura all’Altro – si ritrova nei paesaggi, nei patrimoni, nei tesori che si celano lungo la strada del commercio e dell’immaginario, da Istanbul a Xi’an, da Konia a Samarcanda, da Baku a Baiyan.
In questo tempo di civiltà in rottura, la Via della Seta – l’antistrada delle crociate – ci è di monito e di richiamo alla mediazione. Ci rimanda alle nostre origini e alla nostalgia del nomadismo.
Rammento lo stupore di J quando apprese il senso di questo viaggio.
Perché rimestare nella storia quando gli eventi attuali si rivelano così cruenti?
Un pensiero mi forzava a prendere la strada: risalire la pista di Marco Polo.
E un desiderio, altrettanto forte: seguire le orme di Rumi.
Marco Polo e Rumi avrebbero potuto incontrarsi su questa Via della Seta, nelle loro peregrinazioni, sulla costa dell’Asia Minore, in Anatolia o nel fondo dei deserti. Avrebbero potuto parlarsi, scambiarsi non della seta, dell’oro o dei ninnoli di vetro ma i loro saperi, perché la conoscenza, la scrittura e l’avventura compongono i segreti delle opere dei due viaggiatori, il Libro delle Meraviglie del veneziano e il Libro del di dentro dell’orientale.
L’uno mercante, l’altro poeta.
L’uno venditore di tessuti e di stoffe, l’altro predicatore della tolleranza, dell’amore dell’Altro per l’amore di sé.
Il mio padre confessore, un gesuita spagnolo, faceva comprendere questa idea con un’immagine semplice, ma molto forte. Raccontava che un giorno, camminando, vide su una collina di fronte, una forma mostruosa; avvicinandosi, si rivelò un uomo; quando fu vicino, riconobbe suo fratello. 
La Via della Seta non esiste più, perduta nelle sabbie, nelle guerre, umiliata dalle frontiere di cui solo i trafficanti si fanno gioco.
J non aveva torto.
Perché cercare a ogni costo le tracce e i caravanserragli di una via improbabile?
Che resta oggi, se non polvere, rovine, fortini inabitati?
Della stessa casa di Marco Polo, a Venezia, la Ca’ Polo, che molti veneziani fingono di ignorare, forse, per meglio proteggere i misteri della Serenissima, non resta che una targa molto modesta, erosa dal tempo, nelle vicinanze di Rialto, nella Corte Seconda del Milion, che ci ricorda:
 
“Qui furono le case di Marco Polo che viaggiò le più lontane regioni dell’Asia e le descrisse.”
 
Apologia a minima, per lo scopritore dell’oriente, l’esploratore delle terre lontane, che menerà a casa, ventisei anni dopo la sua partenza, ori e gloria, prima di sperimentare il carcere. Marco Polo apre la via, spinge l’avventura più lontano, alla ricerca del paese dei Seres (1), quei misteriosi confini che spaventavano l’antica Roma prima di chiamarsi Cina. La Via della Seta diviene il sentiero di una storia favolosa, un legame pericoloso e appassionato tra mondi che tutto separa.
Venezia diviene molto presto l’Illustrissima. Si misura con Costantinopoli la cristiana, la mette a sacco, le sottrae i suoi cavalli dorati, che svettano sulla loggia della basilica di San Marco, la spoglia dei suoi feudi, dei suoi bastioni di commercio e di baratto.
Uno degli aspetti discutibili della moderna storiografia sta nel fatto che, fino a pochi decenni fa, la storia universale era esclusivo oggetto di studio e di interpretazione degli europei e degli americani. Ciò significa che la maggior parte delle esposizioni disponibili concernenti la storia extraeuropea sono state viste attraverso le lenti degli storici occidentali. Quantunque la colonizzazione di molti paesi asiatici sia stata un processo storico relativamente tardo, non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che l’avanzata di Alessandro Magno fino ai confini dell’India ha costituito il primo tentativo espansionistico da parte dell’occidente. Nei secoli, la sua era sembra abbia fatto scuola in campo politico, artistico e letterario presso tutti coloro che, in seguito, depredarono popoli stranieri, incutendo loro timore e, soprattutto, imponendo loro l’obbedienza. Ma le relazioni tra Europa e Asia non costituiscono affatto un semplice caso di sottomissione e oppressione giacché, fino dai tempi di Alessandro, sono caratterizzate da una sequela di lotte per il potere, di attacchi e contrattacchi, di influssi politici e culturali, di mutui rapporti commerciali e di molteplici movimenti religiosi. Ciò è particolarmente interessante, ma rende più difficile trovarne un quadro. Guerra e commercio rappresentano una faccia degli avvenimenti mondiali; cultura e religione l’altra.
Gli ultimi anni del diciannovesimo secolo furono illuminati da una proposta meravigliosa che poi fu lasciata cadere completamente in oblio. Nell’agosto del 1898, lo zar Nicola II invitò gli Stati Uniti d’America a incontrarsi per una conferenza destinata a garantire la pace tra le nazioni e a mettere fine all’incessante aumento degli armamenti che impoverivano l’Europa.
Il messaggio del sovrano iniziava così:
 
“Il mantenimento della pace generale e una eventuale riduzione degli armamenti eccessivi, il cui peso grava tutto sui popoli, sono evidentemente, nelle attuali condizioni del mondo intero, l’ideale verso il quale tutti i governi dovrebbero tendere i loro sforzi.”
 
Quel programma di pace universale e l’iniziativa di quella conferenza fanno vedere sotto una luce orrenda il massacro dello zar e della sua famiglia, compiuto più tardi dai suoi sudditi in rivolta.
 
1.     Afghanistan 1969
“Nessuno si può considerare padrone dell'India se non ha in mano Kabul.”
Gran Moghol Akbar
 
Posto tra Cina e Iran, tra Russia e Subcontinente Indiano, l'Afghanistan assomma due peculiarità: è un passaggio nel cuore dell'Asia, così obbligato che tutti i grandi condottieri e viaggiatori dovettero transitarvi, da Alessandro Magno a Marco Polo; ed è pochissimo noto nel mondo occidentale.
Il fondamento dell'Afghanistan riguarda, anche direttamente, l'Europa. Ci riguarda, in primo luogo, il tessuto etnico. La grande maggioranza degli afghani si proclama indoeuropea. Certo, hanno subito numerose commistioni: basti dire l'ondata araba, che, tra l'altro, determina l'avvento di quella grafia. Ma le due lingue afghane, il dari e il pashtu, sono lingue indoeuropee. Dipende dalle migrazioni di alcune migliaia di anni fa, quando, diffondendosi verso il meridione delle steppe dell'attuale Russia, gli ariani dovettero necessariamente invadere l'Afghanistan. La città di Balkh, nel nord del paese, è considerata una delle culle della loro gente.
All'inizio dei tempi storici, l'Afghanistan faceva parte dell'impero persiano; vi penetrò, nel IV secolo a.C., Alessandro. Subito, la scia del condottiero venne seguita da mercanti, tecnici, artisti occidentali; più tardi, i regni ellenistici conglobarono anche l'Afghanistan; la Bactriana, imperniata su Balkh, sopravvisse a lungo come territorio pressoché greco.
Ma vi è di più. Buddha nasce nel VI secolo a.C. e la sua religione si diffonde, anche in parte, nell'Afghanistan, senza, tuttavia, che la sua immagine venga mai raffigurata; poi, arrivano, memori dei loro dei, gli artisti greci, ed ecco Buddha effigiato in statue e dipinti; al dio nepalese gli artisti occidentali danno, sia pure con gli occhi a mandorla, il volto di Apollo. 
D'istinto noi europei, permeati di umanesimo, badiamo più alle tracce del mondo classico che ad altri fattori. Ma, intanto, la storia dell'Afghanistan corre. Nasce un grande impero locale, detto Kushana, che, guidato dal sovrano Kanishka, più o meno ai tempi di Nerone si batte contro i cinesi. Arrivano, dal ricostituito impero persiano, i Sassanidi; piombano da nord feroci genti, cugine degli unni; dilagano, nel VII secolo, gli arabi, che con la religione musulmana diffondono nuove norme e forme di vita. Quantunque gli arabi come tali lascino, poi, il paese o vi si fondino, queste norme e forme, basate sull'islam, danno all'Afghanistan il costume generale che conserva tuttora.  
Oggi, gran parte dell'Afghanistan è steppa o deserto; non così settecento anni fa. A quei tempi, mentre da noi nasce Dante, dalla Mongolia irrompe l'onda di Gengis Khan. E spazza tutto, da un capo all'altro del paese. Gengis Khan distrugge, sia per spirito primordiale di aggressività o per necessità, sia perché la sua gente, in gran parte di origine nomade, basa la conquista sull'impiego dei cavalli, quindi, sull'esistenza non delle città ma dei grandi spazi liberi. La distruzione radicale investe anche le opere di irrigazione. Quando Gengis Khan si ritira, l'Afghanistan decade presto a steppa, a deserto.
Noi stiamo parlando globalmente di Afghanistan, per un motivo di assunto. Ma, fin quasi ai tempi della rivoluzione francese, l'Afghanistan come tale non esisteva. Vi è, invece, un complesso di regioni, dinastie e domini. La dinastia afghana di Ghazna giunge a insediarsi sui troni della non lontana India. Sei secoli fa entra da dominatore, nella storia afghana, Tamerlano. Durante il nostro Rinascimento, il grande impero moghol dell'India ha come fondatore un afghano, Babur (il quale, morto in India, viene sepolto a Kabul, dove il suo monumento funebre è stato mirabilmente restaurato da una missione italiana). Durante il periodo del rococò europeo, condottieri afghani cercano di espandersi dalla città di Kandahar verso la Persia. L'ultimo grande conquistatore asiatico, Mohammad Nader Shah, che mira, invece, come alcuni dei suoi predecessori, all'India, è, a sua volta, afghano.
L'unità che si va delineando possiede una formidabile posizione strategica e anche commerciale. Ma è, come un tempo, un'arma a doppio taglio. Perché, se il periodo delle grandi invasioni si va allontanando, avanza, invece quello del colonialismo.
Espandersi verso l'India?
E come, se i nemici da battere sarebbero non più i popoli locali, ma, ormai, i britannici?
Anzi, l'incontro con i britannici fa perdere agli afghani un'ampia regione, oggi appartenente al Pakistan; è un particolare su cui tornerò più avanti.
Analogamente, l'avvento della Russia in Asia costa agli afghani la perdita di Samarkanda, Bukhara e altre città, vale a dire di tutte le terre a nord del fiume Amu Daria (l'Oxus dei tempi classici).
Da parte afghana, tra l'influenza russa e quella britannica si preferirebbe quest'ultima, perché più duttile, meno autoritaria. Ma si pretenderebbe un'illimitata autonomia interna. Inoltre il compromesso viene ostacolato dall'esistenza di indomabili tribù afghane nella zona del famoso passo del Khyber e oltre, vale a dire al di là della frontiera con l'India.
Per ben due volte, i contrasti sfociano non già nell'accordo, ma nella guerra. Sono campagne crudeli, sanguinosissime. I monumenti di alcune città afghane si ornano tuttora dei cannoni conquistati al nemico. Nelle botteghe di Kabul e di Kandahar non è difficile trovare vecchie pistole britanniche, con inciso il nome dell'ufficiale che le portava e che, con ogni probabilità, nel corso della campagna vi perse la vita.
A equilibrio faticosamente raggiunto, l'Afghanistan svolge le sue previste funzioni di cuscinetto. E assume progressivamente le caratteristiche, sia pure embrionali, di Stato. Ma uno Stato sui generis. Risente, infatti, di una nascita tormentata, favorita da forze esterne, inquinata dall'eterogeneità etnica. Inoltre il nuovo Stato ha confini naturali insufficienti; peggio, un'alta catena montuosa lo attraversa in senso longitudinale, determinando una frattura tra nord e sud. Difficile, quindi, raggiungere la meta di una vera unità.
Gli afghani conquistano l'indipendenza totale solo nel 1919, anno in cui ha luogo la terza guerra contro i britannici. In verità, si tratta piuttosto di una serie di scontri, provocati dal sovrano Amanullah con un preciso scopo. Ammanullah era un capo intelligente e ardito e aveva scelto il momento giusto. Non vince la guerricciola, ma ottiene facilmente un armistizio e, poi, un trattato di pace, con il quale gli inglesi gli riconoscono piena libertà anche in politica estera. È l'8 agosto 1919. Da allora, l'Afghanistan non ha mai visto minacciata la sua sovranità.
Amanullah, come Kemal Ataturk in Turchia, sa vedere chiaro. Comprende, a esempio, che per rendere l'Afghanistan efficiente si debba mutare rotta, che occorra dimenticare certi tradizionali sospetti, favorendo l'afflusso degli stranieri, che la condizione della donna, fino allora tenuta in qualità di sottospecie umana, vada liberalizzata. Amanullah è forte. Ma, quando pretende di imporre l'abolizione del velo femminile e fa comparire in pubblico la regina e le donne di corte a viso scoperto, suscita la violenta reazione dei mollà. Forse, nonostante tutto l'avrebbe superata; ma fa, in tutt'altra direzione, un passo falso. In altri termini, vuole manovrare anche con l'Unione Sovietica. E, questo, i britannici inglesi non possono tollerarlo. Così, scaturita all'interno e favorita all'esterno, divampa la rivolta. Nel 1929, Amanullah perde definitivamente la partita. Ha un solo torto: quello di avere guardato troppo lontano, di avere precorso i tempi. Caduto Amanullah, si insedia sul trono afghano un ex-capo di briganti, che, poco più tardi, viene impiccato. Alla fine dello stesso anno, cinge la corona un ex-ministro della guerra, Mohammad Nader Khan, che, quattro anni dopo, cade sotto i colpi di un attentatore. Da allora, vale a dire dal 1933, regna sul trono il figlio di Nader, Mohammad Zaher; ha solo cinquantotto anni, benché la durata del suo regno superi di molto quella di ogni altro monarca contemporaneo. Ufficialmente, la monarchia afghana ha carattere costituzionale. Lo Stato si articola nei due rami del Parlamento. L'unica donna-deputato è comunista.
L'Afghanistan non ha alcuno sbocco al mare. La popolazione si aggira tra i 12 e i 15 milioni di abitanti. Di certi villaggi, l'esistenza è stata accertata solo attraverso l'aerofotogramma. Molta parte delle donne vive tuttora segregata, quindi, non può essere censita. Non esiste ancora un vero stato civile. Il servizio militare viene imposto bloccando i singoli abitati, e rastrellando i giovani. La quasi totalità della popolazione è musulmana, in gran parte di confessione sunnita. Nell'islam, gli afghani sono considerati tra i più intransigenti.
Dicevo, prima, dell'eterogeneità etnica. Esistono, infatti, non meno di tre grandi etnie afghane. Quella dei pashtun è diffusa tra Kabul, quasi tutto il confine pakistano e una larga fascia dello stesso Pakistan occidentale. I pashtun si ritengono gli afghani numero uno. Al loro gruppo etnico appartiene la famiglia reale. Favorita da questa circostanza, la lingua pashtu sta avanzando a grandi passi, tanto da essere stata dichiarata idioma nazionale. Tuttavia, il tema dei pashtun ha anche aspetti dolorosi, perché il confine coloniale, imposto dagli inglesi e confermato, poi, ai tempi nostri, amputando i margini orientali dell'Afghanistan spezzò in due il loro popolo. Nei riguardi dei pashtun di oltre frontiera l'Afghanistan ha assunto un atteggiamento irredentistico. Sulle carte afghane le regioni occidentali del Pakistan vengono definite Pashtunistan. Quindi, i rapporti tra Kabul e Rawalpindi non sono cordiali. Migliorano, per motivi di solidarietà islamica, durante la guerra tra Pakistan e India, nel 1965; ma gli afghani non dimenticano i tempi in cui i domini dei pashtun raggiungevano la valle, oggi pakistana, dell'Indo. La seconda grande etnia afghana, quella dei tagiki, vive soprattutto tra Kabul e i confini settentrionali e occidentali, oltre cui il medesimo gruppo etnico si estende, poi, in Iran e nella repubblica sovietica del Tagikistan. I tagiki si considerano ariani più puri dei pashtun; la loro lingua ha un alto valore sia letterario sia pratico; in un passato anche recente, i tagiki dell’Afghanistan hanno avuto un peso specifico superiore a quello attuale. Verso i tagiki di casa propria - musulmani anch'essi – l'URSS si è comportata con molta abilità. Mirava, con la sua politica, a ingraziarsi i tagiki afghani. Pashtun e tagiki formano quasi i nove decimi della popolazione; terzo e ultimo, il gruppo degli hazarà comprende tra mezzo milione e un milione di anime. Gli hazarà sono certamente afghani sotto l'aspetto politico e, tra l'altro, parlano persiano; invece, sotto il profilo etnico, hanno tutt'altra origine. Hazar vuol dire, in persiano mille; di mille uomini si componevano le guarnigioni mongole, insediate in Afghanistan da Gengis Khan; gli hazarà hanno stigmate nettamente mongole, dunque, discenderebbero dalla orde di Gengis Khan. Gli hazarà abitano soprattutto nelle zone centro-settentrionali del paese, specie in montagna; sono poveri e accaniti lavoratori; si dedicano volentieri ai piccoli commerci, con pazienza, con tenacia; sono largamente impiegati nelle forze armate, sia per la loro solidità fisica, sia perché la loro povertà esclude certi intrallazzi con cui ottenere l'esonero. Tra gli afghani, in generale, sembrano i meno progrediti; per questo motivo, vi è chi li considera cittadini di secondo ordine, se non inferiori. Dopo le etnie più numerose, molte altre ne vengono. A esempio gli uzbeki, mongoli come gli hazarà, che non rinunciano mai al caratteristico pizzetto, i turkmeni, diffusi verso la repubblica sovietica del Turkmenistan, gli ebrei, giunti dalla remota antichità e ammirevolmente sopravvissuti; qualche migliaio di nuristani, forse, di origine greca, cui ho già accennato, infine, i kuci. In verità, i kuci costituiscono non un'etnia in sé, ma piuttosto un popolo, composto in maggioranza di pashtun, ben definito, alieno da mescolanza, rigidamente caratterizzato dal nomadismo. Il numero dei kuci è stato valutato sulla ragguardevole quantità di 700.000; ebbene, a seconda delle stagioni, l'Afghanistan viene regolarmente attraversato da molte centinaia di migliaia di nomadi, che viaggiano a cammello, in grandi carovane, conducendo gli armenti verso le zone di pascolo. A sera le carovane sostano, accendono i fuochi, montano le grandi tende. Visitando quegli alloggi, abbiamo la rivelazione di un'umanità che ha risolto i suoi problemi, decisi a non mutare il modo di vita. Al suolo, tutta la superficie libera è ricoperta di tappeti, spesso preziosi. Le donne non portano il velo, ostentano, invece, monili d'argento e d'oro, complicati, grevi. E una tenda può contenere un vero arsenale, anche modernissimo, perché i kuci sono tradizionalmente avvezzi, in ogni circostanza, a fare da sé. 
Gran parte dell'Afghanistan - dicevo - è steppa o deserto, ma, in pieno deserto, all'orizzonte possiamo scorgere catene di monti nevosi, perché il paese è generalmente alto (Herat 1300 m., Kabul 1800 m., Bamiyan 2800 m.) e, i monti, altissimi; basti rammentare il Pamir e l'Hindukush, con numerosi seimila e anche settemila. D'inverno e fino a primavera avanzata, domina il gelo. La neve scende fino a Kabul e più sotto e può facilmente bloccare le grandi vie di comunicazione. Nonostante la neve, l'acqua scarseggia perché va dispersa o si concentra solo nei pochissimi fiumi, come l'Helmand, il Kurnar, il Kabul e, al confine con l'URSS, l'Amu Daria. Quindi, scarseggiano, salvo le eccezioni delle vallate, gli insediamenti umani. Ma villaggi e borghi hanno fisionomie espressive. Chi entra in Afghanistan dall'Iran, pochi chilometri dopo il confine raggiunge la sommità di un poggio da cui si domina una grande, misteriosa fortezza, cinta di alte mura. Ma non è una fortezza: è una borgata. Perfino certi villaggi vicini a Kabul, di costruzione recente, somigliano a baluardi. Esistono, le muraglie, perché da tempo immemorabile gli afghani hanno acquisito l'istinto della difesa. O i villaggi morti, sparsi un pò dovunque. Mura sbrecciate, cupolette cadenti e, dentro, il vuoto.
Perché?
Per gli incendi o perché vennero meno le condizioni di sussistenza, e la popolazione migrò. E i caravanserragli, anch'essi morti. Ingressi quasi monumentali, senso di spazio, resti di moschee, tracce di un certo fasto; e, dentro il vuoto.
Perché?
Perché il traffico delle carovane di mercanti, motivo dei caravanserragli, si è spento?
L'Afghanistan offre visioni di ogni genere. Durante i mesi freddi si pratica un gioco di origine mongola, detto buskashi, che oppone due grandi squadre di cavalieri, ognuna delle quali cerca di portare alla propria base la posta in palio, la carcassa di un montone scuoiato. Un altro spettacolo, tanto popolare quanto sanguinario, consiste nel duello di due cani feroci, ai quali le orecchie sono state mozzate fin da cuccioli perché sia difficile azzannarle. Analoghi duelli vengono combattuti anche dai maschi della coturnice locale o pernice di monte; la sera prima degli incontri, i padroni vanno a passeggio con il loro campione in gabbia, pavoneggiandosi al suo furibondo chioccolare.  Si caccia volentieri: l'orso, la pantera, il lupo, un meraviglioso uccello delle alte quote - il lofoforo - simile al pavone, e una specie di diffidente muflone, chiamato, a ricordo del viaggiatore veneziano, capra di Marco Polo. I famosi levrieri afghani sono pochi e cari. Quelli dal pelo lungo, che noi prediligiamo, localmente sono considerati una varietà da salotto, viceversa quelli più tradizionali, usati per la caccia alla lepre, hanno il pelo raso. La proprietà degli uni e degli altri spetterebbe soltanto al re, il quale, peraltro, può eccezionalmente chiudere un occhio. Dei levrieri, di ogni specie, è vietata l'esportazione.
Nella parte più bassa del Nuristan, dove si coltiva il papavero, ho visto contadini raschiare l'essudato delle zucchette, o, in altre parole, raccogliere l'oppio. Altrove, anche a Kabul, nonostante le proibizioni si può comperare, con tutta facilità e a buon mercato, l'hashish; gli afghani lo fumano senza sotterfugi. L'hashish attrae molti hippies europei, i quali viaggiano per lo più su veicoli da quattro soldi, che non danno nell'occhio; alcuni di questi hippies fanno, poi, accaparramento di droga, la nascondono nei loro trabiccoli dall'aria innocua, e, poi, tornati in Europa rivendono a carissimo prezzo la micidiale mercanzia.  
Nelle strade afghane la circolazione è minima o, addirittura, come nel deserto tra Kandahar e Herat, quasi nulla. Una buona strada asfaltata corre dal confine iraniano fino a quello pakistano, passando dal sud del paese; un'altra, congiunge Kabul all'URSS. Una terza arteria, non buona ma discretamente percorribile, porta da Kabul fino alla vallata di Bamiyan. Entriamo a Kabul. La capitale si va avvicinando al mezzo milione di abitanti. Giace in una grande conca, incorniciata da colli e percorsa dal fiume Kabul, affluente dell'Indo; non ha pretese di monumentalità; la sua urbanistica sta cercando faticosamente una via attraverso eterogeneità, squilibri, demolizioni, edificazioni discutibili. Eppure Kabul piace. Dipende proprio dall'eterogeneità, per questo nella capitale vi è di tutto: dall'ambasciata colossale, come quella sovietica, alla carovana di nomadi; dal palazzo reale di stile europeo, con le sentinelle in impeccabile uniforme occidentale, alle vie dove i tintori creano caleidoscopi di tessuti sgargianti; dalle donne in burqa, il mantello tradizionale che copre rigorosamente anche il viso, alle studentesse moderne pressoché in minigonna, al forte Bala Hissar, carico di storia e impregnato di sangue britannico. E, poi, una serie quasi infinita di spunti. Gli hazarà venditori di acqua, carichi di otri. L'erbivendolo che, lavate nel Kabul le sue verdure, si mette a nudo a lavare se stesso. L'unica chiesa cattolica del paese, conglobata nel recinto dell'ambasciata d'Italia. I portatori di mestiere, sopraffatti da pesi inauditi. E semafori, avanguardia di progresso e motivo di perplessità per gli incolti. In periferia, i resti di un paio di vagoncini, unica traccia di una breve linea ferroviaria nata ai tempi di Amanullah, e, poi, svanita. Infine, a una ventina di chilometri da Kabul, la sorpresa di uno skilift, che va diffondendo anche tra gli afghani lo sport delle nevi. Dopo Kabul, viene Kandahar con 120.000 abitanti. È importante come centro agricolo e per la vicinanza alla città pakistana di Quetta. Conserva ricordi della prima guerra tra afghani e britannici. Gli americani vi hanno costruito un grande aeroporto intercontinentale. All'estremo ovest, Herat fu, a suo tempo, uno dei cardini della storia e della strategia di mezza Asia; oggi non ha più di 70.000 anime e dello splendore antico rimangono solo le rovine di pochi monumenti e la cittadella. Nell'estremo nord, la città santa di Mazar-e Sharif è famosa per una splendida moschea. All'estremo est, Jalalabad trae ragione di essere da una vasta area agricola e dai traffici con l'adiacente Pakistan. In questa rapida scorribanda visiva, ho lasciato volutamente per ultima la zona di Bamiyan eBand-e Amir. A parte le bellezze afghane composte di picchi eccelsi, che, di solito, sono difficilmente accessibili, Bamyian offre il meglio dell'intero paese. Ci troviamo in una vallata lunga, ampia, ricca di coltivazioni nonostante l'alta quota. Non siamo troppo lontani dalla valle del Wakhan, situata tra il Pamir e l'Hindukush, dove, fino da tempi antichissimi, passava la cosiddetta Via della Seta: una via che dalla Cina raggiungeva Bamiyan, per poi proseguire verso sud e ovest. Con la seta giunse, da oriente, il buddismo. La borgata di Bamiyan sorge sotto una parete di roccia, alta un centinaio di metri, verticale, lunghissima. Nella parete, monaci buddisti aprirono centinaia di fori, che sarebbero stati, poi, le loro celle, gli eremitaggi; sicché la parete di Bamiyan somiglia a un alveare. Ma, tra le cavità minori, altre due se ne aprono. Sono gigantesche, con il disegno ben netto, come absidi; in fondo, nella roccia madre i buddisti scolpirono due statue del loro dio e ricoprirono le pareti di affreschi. Oggi, i volti di Buddha e gli affreschi sono deturpati o distrutti; dipende sia dall'avvento dell'islam, sia dall'intemperanza fanatica di un condottiero dello scorso secolo. Ma, entrambe le statue sopravvivono e, attraverso gallerie nella roccia, se ne può raggiungere il capo. Una è alta circa 40 metri; l'altra, 53. Neppure i quattro Ramses II di Abu Simbel arrivano a tanto. Là dove la valle di Bamiyan si chiude in una strettoia, domina, da un poggio con le pareti precipiti, un gruppo fantasmagorico di castelli, di torri. In basso dilaga il verde di un bosco di pioppi, mentre le pareti e le torri hanno color d'ocra e di sanguigno. Gli afghani le chiamano Città Rossa. Rossa di sangue. Erano la cittadella che difendeva la valle di Bamiyan. Gengis Khan, attraverso la Via della Seta, irruppe nella valle afghana; pare che la cittadella, in un primo tempo, si sottomettesse e, poi, tradisse, e, in proposito, è nata più di una leggenda; di certo, Gengis Khan ordinò di distruggerla. Fece passare a filo di spada uomini e animali; da qui il sangue che ancora arrosserebbe rocce e mura. E ordinò, Gengis Khan, di considerare la Città Rossa come un posto maledetto, da non più abitare, da non riedificare mai più. Così avvenne. Così è. Infine, Band-e Amir: siamo ancora nella regione di Bamiyan, oltre un passo alto 3.500 m., percorso da una strada piuttosto ardua. Spazi desolati; villaggi radi, con influssi tibetani; carogne di cavalli, sbranati dai lupi; vette sull'ordine dei cinquemila e più; d'un tratto, un lago. Ma non è che il primo di sette; sette laghi digradanti, separati l'uno dall'altro come da semplici gradini, a 3.300 m. sul livello del mare, la quota della nostra Marmolada.
Tuttavia il fascino ispirato dal selvaggio Afghanistan non deve far dimenticare i suoi problemi concreti. Kabul inizia ad avere una grande università, ma almeno i quattro quinti della popolazione afghana sono analfabeti. Qualche ospedale è nato; le Nazioni Unite hanno creato una scuola di infermieri, che dovrebbero distribuirsi capillarmente nel paese; ma i medici scarseggiano e in fatto di salute pubblica le necessità sono ancora imponenti. Il tenore di vita si può sintetizzare con poche cifre: un funzionario percepisce dalle 30.000 alle 60.000 lire al mese; un domestico, a Kabul, dalle 12.000  alle 20.000; un manovale, circa 4.000.
La voce delle esportazioni ha un certo peso, grazie alla produzione di frutta squisita, ricercatissima in Pakistan e, soprattutto, in India –, e, poi, di lana, di cotone allo stato greggio e di pelli del famoso karakul, l'agnellino di latte con cui si confezionano i tipici copricapo locali e, da noi, le pellicce del cosiddetto persiano; si esportano anche tappeti di pregio, che, spesso, per non disorientare l'acquirente occidentale, assumono, a loro volta, la qualifica spicciola di persiani; e, infine, l'Afghanistan esporta in Russia, con impianti diretti, i suoi idrocarburi. Ma, tutte queste voci equivalgono soltanto a 35 miliardi di lire. Viceversa occorrerebbe importare quasi tutti i prodotti finiti; quindi, per tenere la bilancia commerciale in parità o, perfino, in attivo, si rinuncia al necessario. Le limitate risorse del paese escludono che l'attuale situazione possa capovolgersi. Ma, può migliorare. Dipende in gran parte dalla soluzione del problema idrico; dipende, in altri termini, dalla costruzione di dighe e canali e da una razionale distribuzione delle acque. L'agricoltura è suscettibile di larghi progressi anche mediante l'applicazione di nuove tecniche: basti dire che la maggioranza dei contadini afghani usa tuttora l'aratro a chiodo. Parallelamente all'agricoltura potrebbe svilupparsi anche la zootecnia. Se a questi e ad altri fattori aggiungiamo determinati fermenti morali, come l'aspirazione degli studenti di Kabul o di coloro che hanno studiato nelle università straniere, all'ammodernamento del paese, all'eliminazione di vecchie pastoie e all'instaurazione di una democrazia - oggi, ancora in gestazione - di tipo occidentale, giungiamo a una conclusione di moderato ottimismo. Sarebbe, invece, il contrario se prevalessero gli elementi retrivi, che ancora influenzano vaste categorie, specie di livello sociale inferiore. Ma, vi è un'altra pedina da valutare, quella della politica estera. Le antiche aspirazioni zariste verso i mari caldi e l'India, sono divenute aspirazioni sovietiche. L'antico schieramento britannico contro la pressione russa è divenuto schieramento pakistano: perché il Pakistan, nemico dell'India, è, invece, amico della Cina e, finora, ostile all'URSS. L'Afghanistan, dunque, svolge la sua funzione di Stato-cuscinetto, oggi, anche più di ieri. Solo che la partita si è complicata per il contrasto tra ovest ed est e per la presenza di nuove possibilità. Nella loro tradizionale pressione verso sud, i russi si trovavano svantaggiati dall'esistenza, a metà Afghanistan, di una poderosa propaggine dell'Hindukush; d'altra parte, questa propaggine ostacolava l'unità afghana; ebbene, poiché, nel caso specifico, gli interessi sovietici e quelli afghani collimavano, i russi hanno potuto costruire la strada, di cui dicevo prima, lungo la direttrice nord-sud, che dal loro confine raggiunge Kabul. La strada, detta del Salang, costata un'enormità, sale a quota 3.300 m. e attraversa in galleria la montagna più alta; in questo modo è nata una ragguardevole novità politica e strategica.
I russi influiscono sull'Afghanistan non già con il criterio, ormai sperato, del satellitismo, ma con metodi intelligenti: a esempio, concedono numerose borse di studio, favoriscono traffici, acquistano prodotti afghani, soprattutto quando le relazioni tra Kabul e Rawalpindi si raffreddano, e forniscono all'esercito afghano molti materiali indispensabili, come benzina, pezzi di ricambio, munizioni, missili terra-aria. Inoltre, hanno influito costruendo metà di un'altra strada, quella che da Kabul raggiunge Herat e, poi, il confine iraniano. Ovviamente, gli Stati Uniti si preoccupano dell'attività russa. E hanno risposto, tra l'altro, costruendo l'altra metà della strada di Herat. Così, nel contrasto tra due mondi, l'Afghanistan si è inopinatamente trovato a possedere arterie di importanza vitale. Ma, il loro costo è stato assorbito solo dagli Stati Uniti e dall'URSS. Gli afghani non hanno speso un dollaro né un rublo. Dopo l'URSS, gli Stati Uniti e il Pakistan, quarto contendente della parità afghana è la Cina. L'Afghanistan confina con la Cina per soli 93 chilometri; sono quelli del Wakhan, la valle dove passava la Via della Seta. Un secolo fa, il Wakhan non era presieduto da nessuno. Gli inglesi, quando vi mandarono una missione per delimitare i confini del nuovo Stato-cuscinetto, raggiunsero un passo ad alta quota, dove giaceva abbandonata una capanna; allora, proseguirono oltre lo spartiacque e, finalmente, si incontrarono con alcuni armati, i quali dissero che là era la Cina. Più tardi, una commissione anglo-russa fissò i confini del Wakhan senza neppure recarvisi; né gli afghani di allora ebbero interesse a insediare guarnigioni in una zona tanto remota.
Ai nostri tempi, il discorso cambia. Salvo la Mongolia - sulla cui dipendenza effettiva, peraltro, si discute -, l'Afghanistan è l'unico paese al mondo a confinare sia con la Cina sia con l'URSS. Kabul si è, quindi, preoccupata di avere, al confine cinese, una situazione chiara. Vi fu, nel 1962, una visita di Zaher Shah a Pekino e, più tardi, ebbero inizio, sul terreno del Wakhan, i lavori di una commissione mista. Furono lavori positivi, senza particolari ostacoli. La linea di frontiera venne fissata di comune accordo. Una lunga serie di pali infissa nel terreno porta, da un lato, in caratteri arabi, la scritta Afghanistan e, dall'altro lato, in caratteri latini e in lingua inglese, la scritta China. Così il problema della frontiera cino-afghana sembra risolto. Ma, non si tratta soltanto di frontiera, bensì di tutto un complesso di fattori. A esempio, gli afghani hanno finora bloccato ogni tentativo di infiltrazione politica cinese. Hanno accolto, qualche anno fa, un folto gruppo di profughi cinesi, giunti attraverso il Wakhan. Nel frattempo, i rapporti tra Kabul e Pekino sono rimasti buoni. Ma, la Cina bada all'attività russa in Afghanistan non meno di quanto facciano gli Stati Uniti; la Cina non vorrebbe continuare a vedersi aggirata, sulla tradizionale direttrice dei mari caldi, dalla Russia. Quindi, vorrebbe, a sua volta, costruire una strada.
Dove?
Sulla Via della Seta di Gengis Khan, di Marco Polo: in altre parole, dalla sua regione di Sinkiang - quella degli esperimenti atomici - all'Afghanistan, attraverso i 3.300-3.500 m. dei passi del Wakhan. Insomma, così come i russi hanno creato una strada nord-sud, che li avvicina all'India, i cinesi vorrebbero creare la strada est-ovest, che neutralizzasse, strategicamente parlando, l'arteria russa.
Ci si chiederà: in questa situazione intricata, gli afghani per chi parteggiano?
Non parteggiano per nessuno. Dal contrasto altrui, cercano solo di trarre vantaggi. Si proclamano lo Stato più neutrale di tutto il terzo mondo. Dunque, Stato-cuscinetto: ma un cuscinetto duro e spinoso, su cui nessuno si adagia. Ed è logico che sia così, per un popolo che ha forgiato la sua indipendenza con millenni di sangue.
 
 
 
 
(1) In una delle sue Odi Orazio scrive che Mecenate fosse preoccupato di quello che i Seres e altri popoli stessero tramando contro Roma.
Odes, lib.III, n.XXIX, vv. 25-28: Tu civitatem quis deceat status / curas et Urbi sollicitus times, / quid Seres et regnata Cyro / Bactra parent Tanaisque discors.
 
 
 
 
2.   Afghanistan 2009
“Quello degli Stati europei che riuscirà a diventare padrone del territorio afghano, affermerà il proprio incontrastato dominio su tutta quella parte del globo che dal Caspio e dal Golfo Persico va fino all'Oceano Indiano e al Mar Giallo.”
Abu Fazil
 
Avevo già apposto la parola fine a questo articolo, quando…
Scrivendo queste righe, riprovo l'immensa tristezza che ho avvertito quel giorno.
Dall’invasione sovietica, il 27 dicembre del 1979, l’Afghanistan non ha conosciuto che la guerra.
La domanda è inevitabile.
Perché non ammettere che gli afghani non siano così entusiasti, come si pretende, della liberazione del loro paese?
 
Il presidente Barack Obama si è, infine, deciso.
Accettando, il 10 dicembre scorso, a Oslo, il suo Premio Nobel per la Pace con “una profonda gratitudine e una grande umiltà”, ha difeso la nozione di “guerra giusta”, nove giorni dopo la sua decisione di inviare 30.000 soldati supplementari in Afghanistan. Terzo presidente americano della storia a ricevere il prestigioso riconoscimento, Barack Obama ha giustificato il ricorso alla forza militare in certi casi.
 
“Un movimento non-violento non avrebbe potuto arrestare le armate di Hitler. I negoziati non possono convincere i capi di al-Qa’ida a deporre le armi.”,
 
ha spiegato il capo della Casa Bianca in un discorso di quattromila parole, due volte più lungo di quello pronunciato, in gennaio, per la sua investitura.
Sono stati necessari tre mesi di concertazione, di dialogo spesso animato e di riflessione in seno all’establishment politico-militare a Washington sul modo di gestire la guerra in Afghanistan, perché una strategia, infine, sia emersa e il presidente americano la abbia annunciata in un discorso solenne all’Accademia di Westpoint, lo scorso 1° dicembre. Il presidente Barack Obama ha, volontariamente e intenzionalmente, fatto dell’annuncio della sua nuova strategia per l’Afghanistan un evento planetario. Prima ancora di parlarne al popolo americano, ha chiamato per dare loro la primeur il primo ministro britannico, Gordon Brown, il presidente francese, Nicolas Sarkozy, il primo ministro danese, Lars Loekke Rasmussen, il presidente russo, Dimitri Medvedev e, ricevendolo alla Casa Bianca, ha informato il primo ministro australiano, Kevin Rudd. Ma non è tutto. Prima di pronunciare il suo discorso, Obama ha informato della sua nuova strategia le autorità afghane, pakistane, indù, cinesi e polacche. Il mondo intero o quasi.
Se il presidente Obama non ha stupito nessuno disponendo l’invio di un potenziamento di 30.000 soldati supplementari in un arco di tempo di sei mesi, che porterà da qui al maggio prossimo il numero delle forze americane a 100.000 GI’s, per contro, ha sorpreso il suo popolo e i suoi alleati, limitando l’impegno americano nel tempo: secondo la nuova strategia, infatti, il ritiro delle truppe inizierà nel luglio del 2011. Vi è di che stupirsi, dunque, quando si paragona l’enormità del compito che le forze straniere devono compiere in Afghanistan e il poco tempo che concede loro ormai la nuova strategia, vale a dire due o tre anni al massimo, poiché il presidente Obama si è impegnato a riportare la totalità delle sue truppe a casa, prima della fine del suo mandato, che si concluderà il 20 gennaio 2013.
La missione dei 30.000 soldati supplementari è di svolgere un ruolo determinante nell’indebolimento dei talebani e nella presa in carico, in termini di addestramento e di equipaggiamento, delle forze militari e di polizia afghane alle quali sarà affidata la sicurezza del loro paese. Il nuovo contingente sarà dispiegato nelle zone dove i talebani sono massivamente presenti, soprattutto a Kandahar, nel sud, e a Khost, nell’est. E, apparentemente, i rinforzi non saranno incaricati soltanto di missioni di combattimento, ma anche di un travail de sape, che consisterà nel reclutare gli elementi meno radicati dei talebani e arruolarli nelle milizie locali, controllate dai capi tribali. Questa strategia di Obama ricorda quella di Bush alla fine del suo mandato, quando accordò al generale David Petraeus 30.000 soldati supplementari e diverse valigie piene a scoppiare di biglietti verdi per finanziare le milizie tribali sunnite irachene che svolsero un ruolo vitale nella distruzione delle strutture di al-Qa’ida.
Ma questa strategia che è riuscita a recidere le ali di al-Qa’ida in Iraq riuscirà a soffocare i talebani in Aghanistan?
Le strategie di Bush e di Obama, molto similari, sono state concepite per contesti molto diversi. Le tribù irachene sono più strutturate, più forti e più determinate delle tribù afghane, da un lato; dall’altro, al-Qa’ida in Iraq è un organismo straniero, mentre i talebani fanno parte integrante della società e della cultura afghane. In Iraq, è sufficiente che un membro di al-Qa’ida parli perché si denunci come straniero. In Afghanistan, è sufficiente che un talebano si rada la barba perché si trasformi in pochi minuti in un civile senza attirare il minimo sospetto. Di più, una volta braccati dalle milizie tribali sunnite, gli affiliati di al-Qa’ida dovevano penare non poco nel trovare un rifugio dove nascondersi. I talebani sono diventati maestri nel gioco del gatto e del topo con le forze straniere: la porosità delle frontiere con il Pakistan ha sempre permesso loro di dileguarsi quando la pressione militare aumenta e di tornare quando questa diminuisce.
Arriviamo, dunque, al problema fondamentale posto dalla nuova strategia di Obama che, dal punto di vista del governo pakistano, “non risolverà il conflitto afghano, ma aggraverà la situazione in Pakistan”. L’esercito pakistano, in piena guerra contro i suoi talebani, dubita fortemente che la pressione sui ribelli afghani – che l’arrivo di 30.000 soldati americani supplementari non mancherà di ingenerare – non induca una fuga massiva dei talebani afghani verso il Pakistan, complicando oltremodo la situazione nel Waziristan. Ascoltando attentamente il discorso di Obama, si percepisce che il presidente americano è cosciente della minaccia che incombe sul Pakistan, che ha tentato di rassicurare in questi termini:
 
“In passato, abbiamo sovente definito i nostri rapporti con il Pakistan in modo stretto. Non è più così oggi. Ora siamo legati al Pakistan da rapporti di partenariato, basati su interessi reciproci, rispetto reciproco e fiducia reciproca.”
 
Reagendo a caldo sulle onde della BBC, Ahmed Rashid, giornalista pakistano, ha affermato che “il Pakistan ha un bisogno urgente di azione e non di discorsi.”
Attendendo i risultati della strategia di Obama, due domande fondamentali si pongono:
-         i 30.000 soldati supplementari potranno aiutare a realizzare in diciotto mesi quello che non ha potuto esserlo in otto anni?
-         l’esercito americano può risolvere la questione afghana senza aggravare la già esplosiva situazione in Pakistan?
Per comprendere perché l’Afghanistan era ed è così importante per gli interessi strategici americani bisogna comprendere il ruolo che il paese ha svolto attraverso la sua storia in quello che è divenuto noto come il “Grande Gioco”. Nel XIX secolo, la Russia e la Gran Bretagna sono state impegnate in una lotta permanente in Asia Centrale, una lotta “tra la balena e l’elefante”, come si definiva allora. La Gran Bretagna tentava di controllare i mari e la Russia le terre. Una situazione che si ritroverà ancora nella bipolarità della guerra fredda e in quella lotta di influenza tra Stati Uniti e URSS per installare basi e facilities lungo tutta la cintura intermedia estesa dall’Asia all’Europa, situata tra l’heartland e il mare, che l’americano Nicholas John Spykman chiama rimland. Per Spykman, il dominio sul rimland è il vero enjeu geostrategico tra potenze di mare e potenze di terra. Così, è nel rimland che si svolgeva il “Grande Gioco” tra la Gran Bretagna, che controllava l’India e i mari intorno, e la Russia alla conquista dell’Asia centrale e in espansione verso i mari caldi. Lo scontro si concentrava nella zona cerniera occupata dall’Afghanistan e dalla Persia, che Spykman descrive in modo figurato come il “balcone del nord” (northern tier). L’Afghanistan ha vissuto buona parte del XX secolo lontano dalle influenze esterne, in una sorta di “no man’s land géostratégique”, secondo la definizione di Yves Lacoste. Si è sovente intesa l’invasione sovietica dell’Afghanistan come una ripresa del “Grande Gioco”. Ma è un’interpretazione, forse, affrettata. In piena guerra fredda,  l’armata rossa rifuggiva da ogni conflitto diretto con un’altra potenza militare. Evitò, quindi, di indisporsi il Pakistan, alleato degli Stati Uniti. Non sfociò nell’Oceano Indiano per non esporsi a una forte reazione dell’India, che era legata, all’epoca, da un trattato di amicizia con l’URSS e non avrebbe ammesso una forma di rimessa in causa della sua leadership regionale. Tutto porta a credere che i sovietici si fossero lanciati in un’operazione che avrebbe dovuto essere di breve durata. Ma la loro presenza in Afghanistan li mise in contatto con il principale alleato degli Stati Uniti nella regione e destò, dunque, una reazione americana, che si tradusse, come si sa, in un aiuto militare importante al Pakistan e, in minima misura, alla resistenza afghana. Questo aiuto contribuì a indebolire le truppe di occupazione sovietiche, dopo tutto mal preparate a una guerra di guerriglia in un ambiente che mal conoscevano. Se non vi è stato “Grande Gioco” in Asia Minore a quell’epoca, non si può sottostimare, tuttavia, l’operazione militare sovietica che ha posto questa regione in un confronto di tipo bipolare con un conflitto tra Stati interposti. Una volta partiti i sovietici, la regione fu in preda a divisioni interne, di cui le grandi potenze si disinteressarono.
E, ora, possiamo riprendere da dove avevamo interrotto.
All’inizio degli anni 1960, Mohammad Zaher Shah proclama una nuova costituzione più liberale che stabilisce una monarchia parlamentare. L’apertura politica dà la possibilità di stabilire delle relazioni con il Pakistan, nel 1967. Grandi progetti sono realizzati, ma solo alcuni privilegiati beneficiano dello sviluppo del paese. La popolazione è al 90% analfabeta e il tasso di mortalità infantile è del 50%. Nel 1973, profittando del malessere della popolazione e delle rivendicazioni politiche dei comunisti e religiose dei conservatori, Mohammad Daud, cugino e cognato del re, che è stato rimosso, dieci anni prima, dalla carica di Primo Ministro, prende il potere, con l’appoggio del PDPA, instaura una repubblica e attua un regime autoritario che non lascia posto ad alcuna forma di opposizione. Abrogata la costituzione del 1964, la nuova costituzione, su modello dell'Algeria e dell'Egitto di Nasser, è approvata nell'aprile del 1977. Poco sostenuto in patria, Daud cerca di riallacciare i legami con il mondo islamico. Si reca in Kuwait, in Arabia saudita e in Egitto e, con un tentativo disperato, cerca di riconciliarsi con lo Shah Mohammad Reza Pahlavi, nel 1978, riuscendo solo ad anticipare la suacaduta.
Il 27 aprile 1978, Daud, la sua famiglia e 3.000 dei suoi sostenitori sono assassinati. Il potere è affidato al PDPA e il nuovo primo ministro, Mohammad Taraki, instaura una repubblica popolare. Il 30 aprile, si costituisce il primo gabinetto, che conta venti membri, tra i quali una donna, Anahita Ratebzad. Taraki introduce un programma di riforme per abolire un sistema feudale, garantire la libertà di religione, la parità di diritti per le donne e le minoranze etniche. Migliaia di prigionieri sono liberati e i dossiers della polizia bruciati, un gesto per marcare la fine della repressione. Nelle zone più povere dell’Afghanistan, dove la speranza di vita è di trentacinque anni e la mortalità infantile è di 1 su 3, le cure sono gratuite. Il tasso di progresso risultante è stupefacente. Lo Stato sta diventando progressivamente laico e tollerante. Alla fine degli anni 1980, le donne rappresenteranno il 50% degli studenti universitari, il 40% dei medici, il 70% degli insegnanti e il 30% dei funzionari. John Pilger nel suo libro The New Rulers of the World, che narra la storia di questo periodo attraverso gli occhi di una donna afghana, Saira Nurani, una donna chirurgo, sfuggita ai talebani, nel 2001, scrive:   
 
“Ogni ragazza poteva andare al liceo e all’università. Vi potevamo andare quando volevamo e potevamo portare quello che ci piaceva. Noi avevamo l’abitudine di andare al caffè o al cinema, per vedere gli ultimi film indù. Tutto ha iniziato a guastarsi quando i mojahedin hanno iniziato a vincere. Uccidevano gli insegnanti e bruciavano le scuole. Era triste pensare che fossero quelli che l’occidente avesse sostenuto.”
 
Ma una persistente propaganda anti-religiosa aggrava gli effetti di una politica che rompe gli schemi tradizionali della società e scatena la resistenza armata degli islamici più radicali nella regione. Nel settembre del 1979, Hafizullah Amin (1929-1979), si impossessa del potere, fa giustiziare Taraki, elimina l'opposizione, annulla tutte le riforme e instaura uno Stato religioso fondamentalista islamico, rovesciato due mesi più tardi dal PDPA.
Amin è assassinato e sostituito dal leader del Parsham, Babrak Karmal e, a sostegno del suo governo, il 27 dicembre 1979, 85.000 soldati dell’armata rossa invadono il paese. Il conflitto degenera in una jihad contro l’invasore straniero e kaffir (infedele). È una guerra contro l’invasore sovietico, ma è anche una guerra civile che oppone, le une contro le altre, le principali etnie del paese, la pashtun, la tagika, la uzbeka, e vedrà l’intervento più o meno diretto del vicino Pakistan e degli Stati Uniti. Nel maggio del 1986, con l’arrivo alla Casa Bianca di Ronald Reagan, la fornitura massiva di armi americane – missili antiaerei Stinger molto efficaci per bloccare l’azione degli elicotteri blindati sovietici – e l’aiuto pakistano, il conflitto si trasforma, da entrambi i fronti, in una guerra classica con l’uso di armi pesanti, blindati e artiglieria. Più di 3 milioni di afghani passano la frontiera per rifugiarsi in Pakistan e in Iran. Il 14 aprile 1988, dopo nove anni di impantanamento, gli accordi di Ginevra mettono ufficialmente fine a una “guerra sporca”.
Il popolo aghano, ormai ridotto in condizioni disastrose e abbandonato a se stesso, si appresta a voltare pagina. La guerra ha già ucciso 2 milioni di persone e ne ha ferite centinaia di migliaia. I campi profughi del Pakistan e dell’Iran ospitano circa 4 milioni di rifugiati. Le campagne, le valli e i villaggi sono deserti, l’agricoltura e l’allevamento a un punto morto, le infrastrutture – ponti, strade, linee elettriche, canali, pozzi – distrutte al 99%. In città i mercati sono vuoti e le poche industrie ferme. L’Afghanistan non è che una distesa di rovine e la società è tornata indietro di più di due secoli.
Ma chi nel mondo si occupa più dell’Afghanistan, quel pittoresco paese che era così piacevole, visitare prima del conflitto, mentre l’impero rosso sta crollando e iniziano a manifestarsi i contrasti nel Golfo e in Jugoslavia?
Ben pochi.
Le superpotenze, che hanno condotto in Afghanistan una guerra definita “a debole intensità”, privano questo paese di ogni aiuto e sostegno. Il fallimento del colpo di Stato condotto contro Mikhail Gorbaciov dal maresciallo Dmitri Yasov, ministro della difesa, e dai conservatori del partito comunista ha avuto come conseguenza immediata la firma dell’accordo sovietico-americano del 13 settembre 1991, in cui si prevede che, entro il 31 dicembre, le due potenze cessino di aiutare le parti in conflitto in Afghanistan. Najibullah non può fare niente per impedire all’esercito di smantellarsi su base etnica. I generali, gli ufficiali e i militanti comunisti pashtun affluiscono ai partiti pashtun della resistenza, in particolare all’hezb-e islamidi Golboddin Hekmatyar, mentre i loro omologhi tagiki allo jama’at-e islami del comandante Massud. Alla fine dell’inverno Najibullah fa partire la famiglia per l’India e, il 18 marzo 1992, si dichiara pronto a trasferire il potere a un governo provvisorio i cui membri siano indicati dalle Nazioni Unite. Da quel momento, tutto precipita molto in fretta. Il giorno successivo ‘Abd al-Rashid Dustam, ex-lavoratore delle industrie del petrolio e del gas di Shebergan diventato, dopo il ritorno dall’URSS, il capo delle milizie uzbeke incaricate di proteggere gli idrocarburi delle province del nord, si separa da Najibullah per allearsi con Massud, i suoi tagiki e l’ayatollah ‘Abdol Ali Magari (1946-1995), Guida degli sciiti dell’Hazarajat, che hanno il sostegno della Repubblica Islamica dell’Iran. Un mese dopo è l’armata di Dustam, ben equipaggiata e disciplinata, forte di 20.000 uomini, a permettere al comandante Massud di entrare a Kabul, mentre Najibullah, che ha inutilmente tentato di lasciare il paese, si rifugia nei locali delle Nazioni Unite, dove è accolto dai militari e dai comunisti tagiki, uzbeki e hazarà. Spaventati, i comunisti pashtun aprono le porte della capitale alle truppe di Hekmatyar.
Lo Stato afghano ha cessato di esistere.
Kabul diviene così il teatro di una guerra civile che la sconvolgerà per quattro anni, opponendo tra loro le diverse etnie. I vincitori di questa guerra civile sono, tuttavia, nuovi venuti, organizzati dal 1994 e sostenuti dal Pakistan, che beneficiano dell'adesione di buona parte della popolazione. Sono fondamentalisti islamici che si fanno conoscere sotto il nome di talebani. Herat cade in loro potere nel 1995, Kabul nel 1996, Mazar-e Sharif, nel 1998. Solo sfugge loro il nord-est, tenuto dalle truppe del comandante Ahmad Shah Massud (1953-2001), uno dei signori della guerra apparsi durante l'occupazione sovietica, sostenuto da russi, americani e iraniani. Del loro capo, il mollà Mohammad Omar (1959), che solo alcuni privilegiati hanno potuto avvicinare nella sua residenza di Kandahar, non si conosce nulla. Non compare mai in pubblico e non esistono immagini di lui. Nascosto, è ovunque e in nessun luogo. È tutti e nessuno. Potrebbe essere il mendicante che tende il piattino nei vicoli, come l’uomo che fa l’elemosina. Si vendono, invece, le foto di Osama ben Laden, il guerriero del Wadi Duan, la valle delle tribù e dei miliardari dell’Hadramaut, nello Yemen. È considerato un eroe. I suoi ritratti sono dappertutto. È una sorta di doppio del mollà Omar, ma, come quest’ultimo, non si fa vedere in giro, è un’immagine oleografica.
I talebani instaurano un regime di terrore religioso, imponendo agli afghani la loro visione ristretta della legge coranica. Chi non si piega abbastanza rapidamente è ricondotto all'ordine dal ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio. Condannano ogni forma di immoralità che include il sesso prima del matrimonio, l'adulterio e l'omosessualità. La musica, il ballo, la pittura, il disegno, il teatro, la letteratura, l'istruzione e i giochi tradizionali – che includono gli aquiloni e le bambole – sono fuori legge. Gli uomini devono portare una barba lunga, rasarsi il pube, portare abiti tradizionali e pregare ogni giorno in moschea. Le donne, tenute fuori della vita pubblica, non hanno accesso alle cure sanitarie, alla scolarità, al lavoro e devono portare il burqa, che le copre dalla testa ai piedi. Quelle giudicate immorali sono lapidate a morte o bruciate vive. La lista dei divieti non cessa di allungarsi. Un decreto del febbraio del 2001 vieta la boxe che raggiunge la lista degli sport illegali.
Niente di tutto questo inquieta Washington.
Massud è l’unico che ancora resiste. Si difende con le unghie e con i denti, come mille anni prima quei montanari contro gli invasori arabi. Ma se dovesse fuggire, questa volta non potrebbe più nascondersi a Peshawar, perché anche là incombe la pressione dei talebani. Non si vede più una donna, che vada a mangiare il gelato nei caffé di Arab Road, il pomeriggio verso le quattro, prima di andare a fare compere. Tutte sono velate, per timore di essere malmenate, se non aggredite con il vetriolo. Ripiegato nell'inespugnabile valle del Panjshir, Massud terrà testa ai talebani fino al suo assassinio, il 9 settembre 2001. L'attentato, che gli costerà la vita, prelude quello che distruggerà le torri gemelle di New York.
La tragedia che è la storia dell’Afghanistan si è persa dietro gli eventi dell’11 settembre 2001.
Ma la storia non è così semplice.
La risposta americana, che ha messo fine al regime dei talebani, ha ugualmente gran parte di responsabilità nella riaffermazione dell’autorità di alcuni comandanti locali e, dunque, nell’insicurezza che regna nel paese. In effetti, la strategia è consistita nel bombardare a oltranza, suscitando un forte sentimento antiamericano, e nell’armare comandanti locali per eliminare le ultime sacche di resistenza talebana.Ma la maggioranza di queste armi hanno solopermesso ai signori della guerra di imporre la loro legge nella loro zona di influenza, di esercitare pressioni sulla popolazione per ottenere una legittimità e perseguitare i più esposti: le minoranze etniche o religiose e le donne.
Nonostante la guerra, il mosaico etnico è poco cambiato. I tagiki vivono sempre intorno a Herat, nel nord-ovest, gli uzbeki nel nord e i turkmeni, nomadi nel Wakhan, nel nord-est. Le montagne del centro sono il feudo degli hazarà, di origine mongola. A est e a sud, i pashtun rappresentano il gruppo etnico più importante.
Nel giugno del 2002, la Loya Jirga (il Grande Consiglio), riunita a Kabul, elegge Hamid Karzai, l’aristocratico capo tribale dei pashtun, presidente dell’autorità provvisoria che deve condurre il paese alle elezioni, nel 2004.
In tutti i tempi, gli americani hanno cercato di avere accesso, con ogni sorta di mezzi, a nuove fonti di energia. Le compagnie petrolifere sono molto rispettose delle leggi e dei regolamenti quando operano sul suolo degli Stati Uniti, all’estero la politica di sfruttamento si confonde con la strategia espansionistica del governo. La simbiosi Stato-Imprese fa in modo che spesso – per non dire sempre – le imprese abbiano un ruolo di pionieri nella regione del mondo che il governo ha deciso di penetrare. Gli interessi strategici in gioco sono così importanti e i capitali finanziari così enormi, da prevalere sempre sulle leggi del paese “ospite”.
Il fine giustifica i mezzi, si sa, e non si lesina sulla scelta di questi mezzi.
L’esempio più emblematico è quello dell’Afghanistan.
Nel 1995, la Union of Oil California lanciava il progetto di sfruttamento del gas del Turkmenistan, allorché la caduta dell'URSS permetteva un migliore margine di manovra per perseguire una politica aggressiva in quella parte del mondo. La UNOCAL 76, tra le maggiori compagnie indipendenti degli Stati Uniti, nel corso degli anni 1990, cercava e trovava petrolio e gas in Africa, Asia, America latina, lasciando spesso dietro di sé, in Birmania, in modo particolare, una scia di sofferenze. La UNOCAL che deteneva la maggioranza delle azioni nell’affare contava, a quella data, tra i suoi dirigenti e alti quadri, personalità che sarebbero divenute, a livello mondiale, note più tardi: Condoleeza Rice, ex-segretario di Stato degli Stati Uniti, Hamid Karzai, attuale capo di Stato in Afghanistan e Zalmay Khalilzad (1951), ex-ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, in Afghanistan e in Iraq, erano i più in vista.
In cosa consisteva questo progetto?

Si trattava di trasportare il gas proveniente dal campo Dowletabad – conosciuto fino al 1991 come Sovietabad – in Turkmenistan, attraverso un gasdotto di 1450 km. di lunghezza passante per l’Afghanistan, poi il Pakistan fino all’Oceano Indiano. Si era chiamato questo progetto CentGas. L’hic è che la guerra civile infuriava in Afghanistan e i signori della guerra non controllavano sufficientemente le loro truppe. Agli occhi dell’UNOCAL e della CIA, solo i talebani avevano truppe sufficientemente importanti e sufficientemente disciplinate per poter imporre “la pace” necessaria al buon svolgimento dei lavori di costruzione del gasdotto e al suo sfruttamento ulteriore. Allora si sostennero i talebani, si misero a loro disposizione ingenti somme, si fornirono loro armi e mezzi logistici. Dopo essere stati a lungo relegati nel sud del paese, i talebani lanciavano una grande offensiva che spazzava tutti gli altri eserciti – compreso quello di Massud, più tardi riapprezzato – e prendevano il potere nel paese. Gli Stati Uniti hanno conosciuto le conseguenze funeste di questa decisione, l’11 settembre 2001, il resto del mondo ne ha risentito le scosse più tardi a Madrid e altrove, con atti terroristici sempre più frequenti e sempre più violenti. Migliaia di morti, conseguenze insospettabili, tale è, infine, la fattura che il mondo ha pagato e continua a pagare per la costruzione di un gasdotto, il cui progetto fu in apparenza annullato, nel momento in cui ebbe inizio la rappresaglia di al-Qa’ida con il bombardamento di una fabbrica di prodotti chimici in Sudan (1998).

 

La guerra contro i talebani costituisce un momento molto importante e rivelatore dell’evoluzione del processo americano della nuova dottrina petrolifera. La presenza dell’esercito americano nel paese e il suo insediamento su diverse basi tutto intorno all’Afghanistan rafforzavano la posizione delle compagnie americane già presenti in alcune repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale. La nomina di Hamid Karzai, ex-vicepresidente dell’Union oil of California (UNOCAL) alla guida del paese, seguita dalla designazione di Zalmay Khalilzad – lui stesso ex-dipendente di UNOCAL – dapprima come rappresentante del presidente George W. Bush, incaricato dell’attuazione delle nuove strutture politiche afgane, poi, come ambasciatore a Kabul, dimostra che la guerra aveva come scopo reale la penetrazione del nuovo eldorado petrolifero, rappresentato da quei paesi che si estendono dalla Turchia, a ovest, fino alla frontiera cinese, a est. All’indomani di questa guerra e prima di quella in Iraq, l’amministrazione del presidente George W. Bush era alla ricerca di un mezzo che gli permettesse di aprire una breccia nel carapace dell’OPEC, quando l’Algeria si propose per facilitare l’attuazione della nuova strategia. Il 22 novembre 2002, lo stesso presidente Abdelaziz Bouteflika in un articolo apparso nel Washington Post, scriveva:

 
 
“L’Algeria ambisce divenire il primo produttore del continente africano e così assicurare agli Stati Uniti la sicurezza energetica supplementare di cui hanno bisogno.”
 
Un progetto di legge sugli idrocarburi era già all’ordine del giorno a quella data. Il presidente della Repubblica non pensava, forse, che l’adozione di quel testo di legge avrebbe suscitato una forte opposizione nell’opinione pubblica e la manifestazione di forza del sindacato UGTA. Fu costretto così a congelare temporaneamente la sua iniziativa.
Questo è in buona sostanza l'antefatto energetico e logistico della tragedia attuale.
Questa è l'attuale grave situazione otto anni dopo l'invasione dell'Afghanistan.
Con lo spiegamento di altri 30.000 GI’s e di migliaia di unità dai ranghi della NATO gli effettivi delle truppe occidentali presto saliranno a 100.000.
Questo è versare benzina sul fuoco.
Talebani è diventato un termine tanto amorfo quanto al Qa’ida.
Chiunque in Afghanistan, perfino nel nord e nell'ovest non pashtun del paese, dissentisse dagli aerei da guerra e dalle truppe da combattimento occidentali sarebbe un talib.
Un nemico.
Più truppe USA e NATO arriveranno in Afghanistan, più risentimento, resistenza e violenza seguiranno.
Inevitabilmente.
 
 
 
 
Daniela Zini
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Marted́ 19 Gennaio,2010 Ore: 14:42