ATTENDENDO NATALE. CONSIDERAZIONI DI TEOLOGIA 'LAICA'

Augusto Cavadi

Riprendiamo questo articolo, su segnalazione dell'autore che ringraziamo, dal suo blog Augustocavadi.com
“LAURIA – NUOVE ROTTE”
Magazine di Sport e Cultura
Dicembre 2017
   I biblisti sono ormai unanimi: natale non è il centro dei quattro vangeli. Questi testi sono stati costruiti intorno a ciò che i primi cristiani ritenevano il fulcro della propria fede: la resurrezione di Gesù (e non è un caso che della nascita del Redentore parlano solo Matteo e Luca, redatti successivamente a Marco che ne tace). Eppure…Eppure natale è la festa più emozionalmente avvertita dai cristiani e, per molti versi, dagli abitanti del pianeta. Come mai?
La chiesa dei primi secoli è stata strategicamente geniale nell’adottare come ricorrenza della nascita di Cristo non la sua data cronologica  (per altro impossibile da determinare per mancanza di registri anagrafici all’epoca), ma la festa del dio Sole: un modo semplice, immediato, ma efficace di esprimere la convinzione che il  Maestro fosse la nuova Luce apparsa sulla terra per diradare il buio di quei tempi (e non solo di quelli!).
La rilevanza del natale è sottolineata dal cammino che lo precede e dalle tappe che lo seguono. Lo precedono, infatti, quattro settimane di preparazione interiore e comunitaria: l’Avvento. Sono i giorni di attesa dell’Arrivo (Ad-venire) del Messia. Ma in che senso se ne può parlare? Con i Padri della chiesa, e oltre loro, si potrebbe rispondere: in quattro sensi.
Il Verbo di Dio è venuto una prima volta nella persona storica di Gesù; viene ogni giorno nel cuore di ogni uomo e di ogni donna che si aprano con sincera disponibilità alla Luce; viene ogni giorno nella carne dei deprivati (in questi anni sbarcando fisicamente, sulle nostre spiagge, da barconi stracarichi di disperati); verrà per l’ultima volta alla fine dei tempi – o, per lo meno – alla fine del tempo mortale della nostra mortale umanità.
Se le cose stanno così – almeno nella fede tradizionale dei cristiani – essi fanno molto bene a festeggiare la prima venuta del Salvatore a Betlemme ( o a Nazareth o dovunque sia effettivamente avvenuta); ma non fanno altrettanto bene a dimenticare di celebrare le altre due venute (nella propria interiorità e nei propri fratelli più sfruttati dai meccanismi del capitalismo internazionale) e a prepararsi alla fine (prossima o lontana, comunque certa) di questo pianetino sperduto nell’universo.
  Il vangelo di Cristo è un patrimonio etnico limitato all’Occidente, che lo ha gelosamente impacchettato in  trattati teologici, dizionari e catechismi , o non piuttosto un evento a cui ogni civiltà ha diritto di attingere liberamente, se necessario traducendo nella propria lingua (nelle proprie categorie culturali) un messaggio comunicato in aramaico venti secoli fa?
  La risposta più chiara l’hanno data, da mille anni, le chiese autocefale dell’Oriente cristiano-ortodosso (greche, slave, russe): esse celebrano il natale il 6 gennaio. Non quando il bimbo viene partorito nel guscio di una famigliola mononucleare, ma quando viene esposto al pubblico e offerto ad estranei vicini e lontani. Vicini come i pastori, gente semplice che non ha bisogno di molte spiegazioni: corre in soccorso di chi ha bisogno, a dare latte e paglia a chi soffre fame e freddo. E lontani come i magi che come personaggi storici non hanno le carte in regola, ma come figure simboliche sono insostituibili: la loro presenza attesta, fin dai primordi, che il vangelo non è un affare provinciale ma una proposta potenzialmente universale, destinata non a soppiantare le sapienze già fiorenti (di cui i magi sono, appunto, esponenti) bensì a integrarsi con esse in tensione verso sintesi inedite  da aggiornare in continuazione.  La poesia dell’Epifania (o Manifestazione) va fruita in tutta la sua ricchezza, senza ridurla a quadretti bucolici da presepe. Essa, infatti, veicola una novità talmente dirompente che oggi, dopo venti secoli, sta davanti a noi come un traguardo utopico più che indietro come un residuo archeologico: la novità proclamata dall’ebreo-romano Paolo di Tarso a proposito di un popolo, vasto quanto l’umanità, in cui sarebbero diventate irrilevanti le differenze fra ebrei e pagani, uomini e donne, nobili e proletari.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com



Venerdì 22 Dicembre,2017 Ore: 19:54