Quale rapporto  tra “Chierici” e  “Laici” nella Chiesa del nostro tempo ?
 

Un rapporto di separazione oppure   di comunione e di partecipazione ?


di   Perin Nadir Giuseppe

Il primo significato della parola “Chiesa”, è quello di essere una  “Comunità di fede, di speranza e di amore” ( LG, n.8,1).
Tutte le persone “battezzate” fanno parte di questa Comunità e ciascun battezzato partecipa ontologicamente e funzionalmente all’Ufficio sacerdotale, profetico e regale di  Cristo, in modo suo proprio.
Entra a far parte del “Popolo di Dio” - nome con cui la Chiesa viene chiamata, specialmente dopo il Concilio Vaticano II – e forma il Corpo Mistico di Cristo ( altro nome per indicare la Comunità ecclesiale nel suo insieme)
Il battezzato, man mano che “cresce in sapienza, età e grazia, presso Dio e gli uomini”, dovrà prendere coscienza di cosa significhi “essere cristiano” e “fare parte”  di questa Comunità alla quale Dio ha affidato una missione da compiere nel mondo, in nome e per autorità del suo Fondatore Gesù.
A questa MISSIONE  ogni battezzato, raggiunta la capacità di intendere e di volere  è chiamato a collaborare, in modo responsabile, assieme a tutti gli altri, secondo i doni ricevuti dallo Spirito Santo, “avendo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, in modo da comportarsi in maniera degna del Signore per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio” ( Col 1,9-10).
Questa è la Chiesa che nasce dal Vangelo, dalla Parola di Dio che deve guidare il comportamento di ogni battezzato, nei confronti di ogni altro essere umano”.
Ma, con la parola “Chiesa”  s’indica anche l’ “organismo sociale e giuridico, ordinato gerarchicamente.
Infatti, con il sacramento dell’ordine, per divina istituzione, alcuni tra i battezzati, chiamati da Dio a svolgere il ministero presbiterale, nella comunità ecclesiale, ricevendo il sacramento dell’ordine, che li segna con carattere indelebile, sono costituiti ministri sacri, cioè consacrati e deputati a pascere il popolo di Dio.
Questi ministri sacri ( Vescovo, sacerdote, diacono) adempiono, ciascuno nel suo grado, nella persona di Cristo Capo, le funzioni d’insegnare          (munus docendi), di santificare (munus santificandi)  e di governare           ( munus regendi) ( can 1008).
Il sacramento dell’ordine nei suoi tre gradi (episcopato, presbiterato e diaconato ( can 1009 §1) viene conferito mediante l’imposizione delle mani (materia) e la preghiera consacratoria (forma) prescritta dai libri liturgici per ciascun grado ( can. 1009 §2).
Per gli appartenenti a ciascuno dei due stati [ Clericale e Laicale) il CIC specifica quali sono i diritti e i doveri.
Questa è la Chiesa che nasce dalla storia che, in quanto organismo sociale e giuridico, ha un suo Codice ( CIC; CCEO) ove, dalla consuetudine, sono stati raccolti in unità i sacri canoni, perché la loro conoscenza, la loro applicazione e fedele osservanza risultassero più facili, in modo speciale per i sacri ministri, poiché  - come già ammoniva Papa Celestino in una lettera ai Vescovi costituiti nelle Puglie e nella Calabria - “ a nessun sacerdote è lecito ignorare i sacri canoni[1].
Anche il IV Concilio di Toledo (a.633) dopo la reintegrazione della disciplina ecclesiastica nel regno dei Visigoti, liberato dall’arianesimo, stabiliva che : “ i sacerdoti conoscano le Sacre Scritture e i canoni” poiché “l’ignoranza, madre di tutti gli errori, è da evitarsi specialmente nei sacerdoti di Dio”[2].
Ora, noi, cristiani del Terzo Millennio, trovandoci di fronte a questo volto “sdoppiato” di Chiesa, quale risposta possiamo dare alla domanda che costituisce l’argomento di questa riflessione ?
E’ un dato di fatto innegabile che il “clericalismo”  ha avuto e continua ad avere sulla “Comunità ecclesiale” delle pessime conseguenze.
Lo definirei : “ quel modo di “essere Chiesa” che tende ad avere molte certezze e pochi dubbi; in cui prevale più l’aspirazione a “far carriera” che la disponibilità a “servire”; l’amore al denaro, piuttosto che alla condivisione; la ricerca del prevalere delle proprie opinioni, più che l’apertura al dialogo; la preminenza di una certa “cultura” da pochi comprensibile; la ricerca dei privilegi, della propria sicurezza dentro un sistema organizzato gerarchicamente; poca attenzione alla formazione e promozione del laicato”.
George B. Wilson SJ, definisce il clericalismo come “ La morte del presbiterato” che è il titolo del suo libro “Clericalism: the death of priesthood”.
Infatti, una volta ordinato, “con l’obbligo ad osservare la perfetta e perpetua castità per il regno dei cieli, per cui il chierico è vincolato al celibato” (can 277 §1), il prete diventa depositario di una cultura clericale, ne eredita il modo di pensare, di parlare e di giudicare.
Con l’ordinazione entra a far parte di una classe con poteri speciali e non disponibili ad altri.
Dal momento che - per le ragioni spiegate nel Diritto Canonico -  l’esercizio di tali poteri è stato legato all’appartenenza allo “stato clericale” più che al sacramento dell’Ordine,  tutti coloro che, ad un certo momento del loro ministero, hanno deciso di “lasciare” per sposarsi, “perdendo così lo stato clericale” –  si sono trovati di fronte “il deserto” ed  intorno, solo “terra bruciata”.
Chi viene ordinato prete, eredita la conoscenza e la competenza proprie di quella classe, che rifiuta le critiche, ma coltiva  con tenacia la fedeltà corporativa tra i membri che vi appartengono.
L’ordinazione fornisce al “chierico” un’uniforme, uno speciale lessico ed un titolo.
Questo modo di essere della “Chiesa docente”, nei confronti della “Chiesa discente”, ha impedito nel tempo o per lo meno ha reso molto difficile che tra lo “stato clericale” e lo “stato laicale” ci fosse un rapporto di comunione e di partecipazione, evidenziando, invece, un rapporto di separazione !
Ci sono dei problemi su cui si discute molto, come la “scarsità di presbiteri nel ministero” e ci sono anche delle proposte che vengono fatte per arrivare a delle soluzioni, come l’ “ammettere al sacerdozio, in alcune circostanze particolari, uomini maturi già sposati.
Possibilità, che nella Chiesa Cattolica Orientale è diventata ormai una norma del CCEO, perché il matrimonio non costituisce un impedimento al sacramento dell’Ordine, mentre lo è invece, per la Chiesa Cattolica di rito latino.
Ma bisogna avere le idee chiare anche su questo, per non cadere in “pie illusioni”.
Nella Chiesa Orientale un uomo già sposato, con famiglia, può essere ordinato prete, dopo aver completato gli anni di formazione al ministero.
Ma un giovane che frequenta il seminario per  formarsi al ministero, qualora durante questo percorso “scoprisse” in sé anche la vocazione al matrimonio, sa bene che si deve sposare prima di ricevere il sacramento dell’ordine. Ma, non so quanto tempo dovrà passare tra la celebrazione del matrimonio  e l’ammissione all’ordinazione presbiterale.
Invece, tutti coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine da celibi, per potersi sposare devono chiedere prima la dispensa al Papa e devono poi lasciare l’esercizio del ministero, perché, ex iure, perdono “lo stato clericale”, ma continuano a far parte della Chiesa, in quanto battezzati, e possono agire in quanto membri dello “stato laicale”.
E la proposta di “riammettere” all’esercizio del ministero – almeno  quello diaconale – a determinate condizioni - dei preti-sposati che - con la loro famiglia - fossero disponibili, almeno per le piccole comunità parrocchiali, non se ne parla proprio, né nella Chiesa Cattolica Occidentale di rito latino, né nella Chiesa Cattolica Orientale.
Per quanto riguarda il ministero diaconale  vale la stessa regola del presbiterato. Con un’unica differenza che, anche nella Chiesa cattolica di rito latino un uomo sposato, può essere ordinato diacono ed espletare il servizio ministeriale che compete al diacono.
Ma se una persona (maschio) venisse ordinato diacono da celibe e poi volesse sposarsi, deve chiedere la dispensa al Papa e deve lasciare l’esercizio del suo ministero diaconale.
Perciò, se prima non si realizza il passaggio epocale da una Chiesa fortemente clericalizzata e blindata a 360 ° sull’obbligatorietà del celibato per tutti i chierici – come disposto dal can 277 §1 - ad una Chiesa “popolo di Dio”, in cui i laici svolgano pienamente la loro missione, si continuerà a navigare in un mare di “chiacchere”, senza mai raggiungere alcun risultato!
Non è un’impresa facile perché bisogna superare timori, paure, rompere tradizioni consolidate, vincere una mentalità corrente che vede ancora i laici ridotti al rango di ascoltatori e di esecutori.
Tanto è vero che gli stessi consigli pastorali – voluti dal Concilio Vaticano II - sono diventati una sterile accademia senza un serio confronto di opinioni.
La stessa ammissione alla piena comunione con la Chiesa Cattolica di alcuni membri del clero e del laicato appartenenti alla Chiesa episcopaliana, nell’accogliere tra il clero cattolico, il clero episcopaliano uxorato, la Santa Sede precisò che l’eccezione alla norma del celibato era concessa in favore di queste singole persone e non doveva essere intesa come se implicasse un cambiamento del pensiero della Chiesa circa il valore del celibato sacerdotale che rimane la norma anche per i futuri candidati al sacerdozio di questo gruppo. Inoltre questi sacerdoti sposati non vengono assegnati alla normale cura d’anime, ma ad altri servizi, come cappellani negli ospedali, nelle carceri e vicari cooperatori in parrocchie. In nessun caso il prete sposato avrà la responsabilità diretta di parroco in una parrocchia. Infine i candidati, dovranno accettare la severa regola che, in caso di morte della moglie, non potranno risposarsi. La stessa regola in vigore nella Chiesa Cattolica di Rito Orientale.
Che cosa fare allora ?
Recuperare, anzitutto, il senso autentico del laico, come appartenente al laos (popolo) di Dio, radunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (LG,n.4, EV 1,288) e prima delle distinzioni bisogna guardare l’unità fondamentale su cui si basa l’uguale dignità di tutti i membri della Chiesa: il Battesimo.
La Chiesa non nasce per una esigenza sociologica, anche se risponde al profondo bisogno dell’uomo, ma come dono di Cristo che si cala in mezzo agli uomini per condurli a vivere una comunione d’amore con Dio e i fratelli.
Rendersi conto che c’è una grandissima differenza nel rapporto tra “sacerdozio” e “laicato”.
I testi  dell’AT che parlano del sacerdozio nel popolo ebreo, sottolineano la necessità di una separazione fra coloro che dovevano svolgere la “funzione sacerdotale” e gli altri membri del popolo.
Nella tradizione del giudaismo, a livello socio-religioso, questa netta  distinzione tra sacerdoti e laici non era solo funzionale (come nel paganesimo) ma addirittura tribale. Basta leggere i libri del Levitico e dei Numeri
Per il sommo sacerdote, poi, la separazione era ancora più marcata, più insistente, attraverso riti di consacrazione lungamente descritti nel libro dell’Esodo e del Levitico, con la rituale investitura, unzioni e sacrifici molteplici e poi precetti di purità rituale che richiedevano la separazione dalla vita profana. Per cui il sommo sacerdote appariva come un essere elevato al di sopra dei comuni mortali.
La prima parola che il Siracide dice quando parla di Aronne è : “Dio ha elevato Aronne per farlo sacerdote”. Il sacerdozio lo rende differente da tutti gli uomini e i paramenti sacri esprimono la sua gloria senza eguali.
Una simile dignità aveva suscitato rancori e gelosie.
Nei secoli che seguirono l’esilio, le rivalità si fecero ancora più aspre, perché i sacerdoti, oltre all’autorità religiosa, avevano anche il potere politico.
Il sacerdozio divenne così oggetto di cupidigie e di trame oscure da parte di uomini che lo consideravano una posizione di prestigio e quindi un mezzo per innalzarsi al di sopra degli altri.
Il sommo sacerdozio costituiva il massimo di tutte le promozioni. Per poter raggiungere questa posizione che li distingueva dagli altri, veniva utilizzato ogni mezzo : il denaro e l’influenza politica. E, in qualche caso, secondo i Maccabei, un ambizioso arrivava perfino ad uccidere per avere il sommo sacerdozio.
Nel Nuovo Testamento, il solo presbiterato menzionato è quello di tutti i battezzati, che in unione con Cristo, il Sacerdote, sostituiscono la classe sacerdotale del Vecchio Testamento.
Il presbiterato nel Nuovo Testamento si potrebbe definire “un’azione che scaturisce dalla conversione” – come afferma Geoge B. Wilson nel suo libro. E’ un’anima che vive con lo Spirito. E’ un mettersi nella mente e nel cuore di Gesù, contemplando il Padre, vivendo le Beatitudini e ricordando quanto dice  Matteo, parlando del Giudizio finale ( Mt 25,31- 46).
 “Amministrare” significa semplicemente agire con la mente di Gesù. Significa dare a Dio la gloria e l’onore che gli spettano ed avere attenzione e dedizione per ogni essere umano che ti passa accanto, vivendo in relazioni rispettose con chiunque, senza trattare gli altri come oggetti.  
In questo senso anche i laici sono preti, pur esistendo una differenza essenziale tra ministero ordinato e ministero (servizio) del cristiano-laico. Tuttavia, quando un battezzato, viene ordinato prete, non “significa renderlo santo”.
E questo valeva anche nell’Antico Testamento, perché, anche se non era richiesta la somiglianza del sacerdote con i fratelli, ma la separazione, tuttavia, questa separazione, o differenziazione dai fratelli non voleva dire che il sacerdote fosse  esente dal peccato.
Infatti la legge prescriveva  sacrifici anche per i peccati del sacerdote.
La legge esigeva una purezza rituale esterna, ma non poteva esigere l’assenza  del peccato.
Tuttavia, l’aspetto di compassione verso gli altri, malgrado la presenza del peccato nel sacerdote, nell’Antico Testamento, non veniva ritenuto nell’idea sacerdotale antica. Per cui ci troviamo di fronte ad un contrasto piuttosto paradossale : nell’AT i sacerdoti sono peccatori, ma non hanno pietà per i peccatori.
Cristo, invece, è senza peccato, ma è pieno di misericordia per i peccatori.
Questa è la rivelazione e la dimostrazione più profonda dell’amore di Dio verso di noi.
Il cristianesimo pre-paolino conosceva già una chiara presa di distanza dalle prescrizioni giudaiche circa alcuni aspetti correnti della vita sociale : come la purità dei cibi ; la purità di alcuni rapporti umani; la sacralità di alcuni tempi come il sabato e del luogo templare di Gerusalemme.
Questa era avvenuto  prima con Gesù, il quale non era sociologicamente un sacerdote ( cfr Eb 7,14;8,4) e si dimostrò ripetutamente libero nei confronti delle leggi di purità ( es. Mc 7) ; poi con Stefano e compagni, dove è evidente la critica del Tempio inteso come dimora manufatta della presenza di Dio tra gli uomini ( cfr At 6-7).
Il cristianesimo, nel suo rapporto con il giudaismo, aveva desunto il primo concetto di laicità: quello generale di una totale profanità del mondo che non è più visto come una epifania omogenea del divino, ma è demitizzato e considerato nella sua propria diversità.
Ma il cristianesimo non seguì il giudaismo nemmeno nella distinzione-separazione di un gruppo di persone addette al culto sacrificale, da tutto il resto della comunità di laici.
Il cristianesimo si sentì erede non del Tempio, ma della sinagoga, dove per presiedere il culto ( incentrato solo nella parola) non era affatto necessario essere sacerdoti, ma bastava una riconosciuta conoscenza della legge come parola di Dio.
Questa novità cristiana cominciò con Gesù, il quale da una parte non era abilitato ad operare sacerdotalmente nel tempio, ma lo era per intervenire nel culto sinagogale ( cfr. Lc 4,16-30).
D’altra parte, quando Gesù chiamò i suoi discepoli e gli stessi Dodici, non attribuì loro specifiche mansioni sacerdotali, ma compiti di evangelizzazione e di cura pastorale ( cfr. Mt 10; Mc 3, 14-15; Lc 22,19; At 1,8).
Negli scritti del NT non solo non si parla mai della comunità cristiana in termini di sacerdoti e laici, ma nessuno dei suoi membri è mai descritto in modo tale da evocare questo dualismo.
Nella Nuova Alleanza esiste un solo sacerdote, Gesù Cristo ( cfr. Eb) e tutti battezzati, a diversi livelli, sono nello stesso tempo destinatari e partecipi della sua originalissima funzione mediatrice (cfr 1Pt 2; Ap 1, 6; 5, 10; 20,6)
Nell’epistola agli Ebrei, il sacerdozio di Cristo non è stato fondato sulla separazione rituale come nell’AT, ma sulla solidarietà esistenziale di Cristo con tutti.
Infatti, “Gesù che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine, per questo non si vergogna di chiamarli fratelli”           ( Eb,2,11).
Gesù Cristo “non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo” (Eb 2,16-17).
Egli, per diventare sommo sacerdote, rinuncia ad ogni privilegio.
Invece di mettersi al di sopra del popolo, egli si è reso del tutto simile ai suoi fratelli, accettando persino la passione.
Invece di una posizione più alta, intermedia tra Dio e l’uomo, Cristo ha preso una posizione quanto mai bassa che gli dà una solidarietà completa con “gli ultimi” degli uomini.
Questo atteggiamento non solo si oppone agli abusi ai quali accennava l’autore del libro dei Maccabei, ma va contro le idee tradizionali dei giudei più religiosi, coloro che avevano grande zelo per la santità del sacerdozio e miravano al mantenimento delle separazioni legali tra il sommo sacerdote ed il mondo profano.
Esigere una somiglianza tra il sommo sacerdote e gli altri membri del popolo, era inconcepibile con il loro modo di concepire il sacerdozio.
In particolare il contatto con la morte era considerato un ostacolo per essere sommo sacerdote, il quale, secondo la legge ebraica, non aveva nemmeno il diritto di fare il lutto, nemmeno per il padre e la madre, perché se avesse avuto contatto con la morte, non sarebbe stato più adatto per rendere il culto a Dio.
Cristo, invece, per rendere culto a Dio, prende la via della morte in solidarietà completa con tutti noi. Ed è proprio per aver fatto sua, fino in fondo, la natura umana, che Cristo è stato “coronato di gloria e di onore”        ( Eb 2,9), ammesso con la sua natura umana nell’intimità con Dio.
La sua elevazione presso Dio, invece di effettuarsi attraverso le separazioni legali, si è compiuta grazie all’accettazione della totale comunanza di destino con i suoi fratelli.
I vecchi testi della Bibbia, come fondamento del sacerdozio, esigevano la severità e non la misericordia, perché il sacerdozio comportava la rottura di tutti i legami famigliari e veniva messa in evidenza l’esigenza di una adesione totale a Dio, escludendo ogni pietà verso i peccatori ( cfr Es. 32, 29 ss ; Nm 25,7-13; Dt, 33,9…)
Con Cristo tutto cambia.
Lungi dall’esigere la rottura di ogni legame con noi, l’obbedienza di Cristo verso il Padre, l’ha condotto verso la misericordia. Non è scagliandosi contro di noi che Egli diventò sommo sacerdote, ma associando, in modo stretto, la sua sorte alla nostra.
La lotta contro il peccatore richiesta nell’AT, Cristo l’ha impostata in maniera radicalmente nuova ed efficace.
Invece di uccidere i fratelli per punirli di aver offeso Dio, ha sofferto lui stesso la morte che noi meritavamo, nell’obbedienza generosa e nell’amore.
Egli ha trasferito il combattimento nella sua stessa umanità e ciò facendo ha ottenuto, secondo la volontà del Padre, la vittoria della misericordia ed ha stabilito una solidarietà estrema con noi.
La morte umana, conseguenza e castigo per il peccato, è diventata in Cristo un mezzo che ha fatto trionfare la carità, l’amore.
Il dono di sé, spinto fino all’estremo, ha sostituito tutti gli antichi sacrifici, perché ha realizzato ciò che quelli cercavano invano di ottenere : unire gli uomini fra loro e unirli a Dio.
Gesù è stato in tutto simile a noi, eccetto che nel peccato ( Eb 4,15).
Infatti, il peccato non contribuisce per nulla a stabilire una vera solidarietà. Anzi, crea divisione, come dimostra l’esperienza ed afferma la Scrittura.
L’autentica solidarietà con i peccatori non consiste nel rendersi complice del loro peccato, ma nella generosità che Gesù ha avuto nell’assumere la situazione terribile provocata in loro, dal peccato.
Per cui, potremmo dire che, d’ora in poi, nessun uomo può trovarsi in qualsiasi situazione di pena, anche meritata, senza riscontrare che Gesù Cristo è al suo fianco.
Cristo nostro fratello, solidale con tutti noi, è stato invitato a “sedere alla destra di Dio”. E da quel momento il trono di Dio è diventato per noi il trono della grazia.
Da quanto affermato, quali conclusioni potremmo trarre, in rapporto alla domanda che ci siamo fatti all’inizio ?  
1-Tutti i fedeli- “laici”, cioè non facenti parte dello stato “clericale”, hanno la possibilità di entrare in comunione con Cristo “sacerdote”, perchè  tutte le realtà della vita concreta, diventano occasione di unione con Cristo sacerdote, dal momento che Cristo ha fondato il suo sacerdozio sulla sua partecipazione a queste condizioni concrete.
2-I fedeli possono ricorrere sempre alla misericordia sacerdotale Cristo, perché questa misericordia viene dalle prove che quotidianamente vivono.  Per cui, non devono uscire dalla loro esistenza per incontrare Cristo. Anzi devono vivere questa loro esistenza nella fede e non evadere da essa.
Purtroppo la maggioranza dei cristiani non essendo consapevoli del cambiamento radicale effettuato dal sacerdozio di Cristo, dal momento che sono ignoranti della Parola di Dio perché non l’ascoltano né la vivono, si mantengono in una situazione da Antico Testamento.
Mentre questo “lieto annunzio” che Gesù ci ha portato, ci invita ad accogliere e vivere con gioia questa nostra partecipazione al suo “sacerdozio, in quanto battezzati.
3- Tuttavia, penso che trasformare il rapporto tra  “chierici” e “laici” da un rapporto di separazione, ad un rapporto di comunione e di partecipazione sarà molto difficile, a causa di un marcato “clericalismo” ancora “serpeggiante” nella Chiesa.
La strada è ancora tutta in salita. 
Anzitutto, perché la maggioranza dei cristiani considera “l’umano”  non compatibile con il divino; come il Sacro con il  profano.  Tanto meno, ci passa per l’anticamera del cervello che la relazione con il divino si può realizzare e sperimentare solo nell’umano.
Anzi, l’umano e il divino sono ancora considerati, come per il passato, come due dimensioni della stessa realtà che entrano in conflitto l’una con l’altra. Per questo, nella storia,  molto spesso e volentieri, è successo e succede ancora che nel nome di Dio ( il divino) si umilia l’uomo ( l’umano).
Che fare ?
Cominciare a vedere il Dio nel quale credere e al quale vogliamo somigliare, in quel cittadino galileo del primo secolo, cioè in Gesù, in quel nazareno, nella sua bontà e nella sua umanità nei confronti di tutti i limiti e le sofferenze degli esseri umani.  
Non lasciare che molte situazioni negative e di sofferenza, diventate ormai una “piaga incancrenita” vengano vissute nella chiesa nell’indifferenza di coloro che, invece, dovrebbero avere sempre “prae oculis salute animarum” ( can 1752).
Questo riguarda anche il rapporto tra i “chierici”, ancora in carica ( Vescovi e preti) e i “preti-sposati” che per tale scelta, non solo, non fanno più parte – ex iure -  dello stato clericale, ma non possono neppure espletare quei “servizi”  che i laici ( uomini e donne sposate e non)  possono essere chiamati a svolgere all’interno della comunità ecclesiale, qualora fossero a ciò preparati.
Vivere il rapporto di COMUNIONE - che è frutto dell’amore- e di PARTECIPAZIONE verso tutti, anziché di SEPARAZIONE, è ancora un sogno, nonostante le tante belle parole e buone intenzioni.
Non si può concepire  la Chiesa che nasce dal Vangelo e dalla Parola di Dio, come fosse “un aspersorio” che spruzza “acqua benedetta” su tutto e su tutti, perché la “Comunità ecclesiale” dovrebbe essere UNA PRESENZA VIVIFICANTE che, in dialogo con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, contribuisce a costruire la città dell’uomo, a misura d’uomo.
            Perin Nadir Giuseppe ( prete-sposato).
[1] 21 luglio 429,cfr Jaffé, n.371; Mansi, IV, col 469.
[2]  Can 25; Mansi, X, col 627.



Venerdì 15 Luglio,2016 Ore: 18:11