PRETI PEDOFILI: QUESTIONE RISOLTA?

di Elio Rindone

Del problema della pedofilia clericale da mesi non si parla più: ciò accade perché la questione è stata adeguatamente affrontata e sono state messe in campo strategie per quanto possibile risolutive o perché, essendosi spostata, come è naturale, l’attenzione della pubblica opinione su altri ambiti, l’oblio garantito dal passare del tempo sta consentendo al Vaticano di superare il momento critico senza troppi danni? Per cercare di capirne di più, può essere utile richiamare i termini della questione, tentando un bilancio di ciò che è stato detto e di ciò che è stato fatto.


La soluzione più conveniente per chi ha torto marcio? Fare la vittima! Una strategia comune, a quanto pare, non solo a un noto politico italiano (chi sarà mai?) ma anche alla gerarchia ecclesiastica. “Dietro gli ingiusti attacchi al Papa – a caldo affermava in un’intervista l’ex segretario di Stato, il cardinale Angelo Sodano – ci sono visioni della famiglia e della vita contrarie al Vangelo. Ora contro la Chiesa viene brandita l’accusa della pedofilia. Prima ci sono state le battaglie del modernismo contro Pio X, poi l’offensiva contro Pio XII per il suo comportamento durante l’ultimo conflitto mondiale e infine quella contro Paolo VI per l’Humanae vitae”(L’Osservatore Romano, 6-7 aprile 2010).

Per la verità, pare che sia stato Pio X a perseguitare i modernisti e non viceversa, e sembra anche che milioni di ebrei siano stati massacrati senza una chiara parola di condanna da parte di Pio XII: è vietato denunciare questi fatti? Le critiche a Paolo VI per l’enciclica che proibiva l’uso della pillola invece ci sono state realmente, ma se si può parlare di un’offensiva, questa proveniva soprattutto dall’interno del mondo cattolico: in effetti, intere conferenze episcopali hanno contestato quel divieto e milioni di fedeli ancora oggi continuano a farlo.

Presentarsi, poi, come vittima di un attacco dei nemici della famiglia e della vita (si sa, quelli sono capaci di tutto!) è molto comodo perché consente di non parlare dei fatti contestati, e cioè i casi di pedofilia di un certo numero di preti e le coperture offerte dai loro superiori. In realtà, informare l’opinione pubblica di quanto avviene non significa brandire un’accusa, e meno che mai attaccare ‘la Chiesa’. È evidente che le responsabilità - di un sacerdote, di un vescovo, di un papa - sono sempre personali e non possono coinvolgere tutta una comunità: anzi, è nell’interesse di quello che il Vaticano II chiama con particolare frequenza ‘popolo di Dio’ denunciare le colpe e gli errori eventualmente commessi dalla gerarchia ecclesiastica.

Ora, che gli abusi nei confronti di un gran numero di minori ci siano stati e che i loro autori abbiano goduto di ampie protezioni è un fatto innegabile. L’ha ammesso anche Benedetto XVI nella Lettera pastorale ai cattolici dell’Irlanda, del 19/3/2010, rivolgendosi ai sacerdoti: “Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti”(n 7) e ai loro vescovi “Non si può negare che alcuni di voi e dei vostri predecessori avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi. Seri errori furono commessi nel trattare le accuse”(n 11).

Di fronte ai fatti di enorme gravità che vanno emergendo, i vertici della gerarchia non dovrebbero solo scaricare la colpa dell’accaduto su preti e vescovi ma ammettere anche le proprie responsabilità. Pare, invece, che in Vaticano sia prevalsa l’idea che la migliore difesa sia l’attacco volto a screditare tutti coloro che vorrebbero fosse fatta chiarezza anche ai piani più alti dell’edificio ecclesiastico. E, mentre si rispolvera la teoria del complotto anticattolico (e non poteva mancare qualche vescovo che chiamasse in causa gli Ebrei), il cardinal Sodano il 4 aprile, rivolgendo in maniera irrituale nel corso della messa pasquale gli auguri al pontefice, assicurava che “E’ con lei il popolo di Dio, che non si lascia impressionare dal ‘chiacchiericcio’ del momento, dalle prove che talora vengono a colpire la comunità dei credenti”.

A cosa si riferiva il cardinale quando parlava di chiacchiericcio? Alle notizie di stampa che chiamano in causa i vertici della gerarchia per aver coperto i preti pedofili? Ma queste responsabilità sono provate dai documenti ufficiali della Santa Sede! Infatti, la lettera De delictis gravioribus inviata il 18/5/01 ai vescovi di tutta la Chiesa cattolica dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale Ratzinger, e dal segretario Tarcisio Bertone, pur introducendo qualche opportuno correttivo all’Istruzione della Congregazione del Sant'Offizio Crimen sollicitationis (16/3/62), per una serie di casi tra cui gli abusi sui minori stabiliva: “Ogni volta che l'ordinario o il gerarca avesse notizia almeno verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolta un'indagine preliminare, la segnali alla Congregazione per la dottrina della fede [...]. Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”.

Il che significa non solo che l’attuale papa e l’attuale segretario di Stato presumibilmente sono stati informati negli ultimi anni di tutte le denunce riguardanti i preti pedofili ma anche che l’ordine che impartivano a tutti coloro che per qualsiasi ragione fossero a conoscenza di casi di pedofilia era quello di mantenere un assoluto silenzio. Nulla doveva, quindi, trapelare al di fuori di una ristrettissima cerchia di ecclesiastici e nulla in effetti trapelava. Per quanto riguarda l’Italia, per esempio, il procuratore aggiunto di Milano Pietro Forno, capo del pool specializzato in abusi sessuali su minori, ha dichiarato: “Nei tanti anni in cui ho trattato l'argomento non mi è mai arrivata una sola denuncia, né da parte dei vescovi né da parte dei singoli preti”(Il Giornale 1/4/10). È così che, non denunciati all’autorità giudiziaria, innumerevoli abusi sono stati commessi da un certo numero di preti mentre la punizione per i colpevoli era spesso solo lo spostamento da una parrocchia a un’altra.

Di fronte a questi fatti non ha senso parlare di complotti della stampa laicista o ricordare che ad abusare dei minori non sono solo i preti cattolici ma anche genitori, medici, professori, non cattolici... Qui non è in discussione la percentuale, più o meno elevata, di preti pedofili ma la strategia del silenzio messa in atto per decenni dalla gerarchia vaticana. Come dimenticare che, da segretario della Congregazione per la dottrina della fede, Tarcisio Bertone, in un’intervista del febbraio 2002 al mensile 30Giorni, difendeva il diritto e il dovere di non denunciare i pedofili: “Se un fedele non ha più nemmeno la possibilità di confidarsi liberamente, al di fuori della confessione, con un sacerdote […] se un sacerdote non può fare lo stesso con il suo vescovo perché ha paura anche lui di essere denunciato [...] allora vuol dire che non c’è più libertà di coscienza”?

E anche recentemente monsignor Girotti, reggente della Penitenzieria Apostolica, ribadiva che il confessore non deve condizionare l’assoluzione del pedofilo all’obbligo di autodenunciarsi: “Il confessore non solo non può imporgli l’autodenuncia, ma non può nemmeno recarsi da un magistrato per denunciarlo”(Il messaggero 11/3/10), per non violare il segreto della confessione. Se ora qualcosa sta cambiando e si promette di seguire la via della trasparenza e della collaborazione con la magistratura, ciò accade solo - è lecito nutrire un simile sospetto - perché da alcuni anni le vittime hanno cominciato a denunciare, con conseguenze disastrose per numerose diocesi, sia dal punto di vista dell’immagine che del portafoglio.

Ma è chiaro che, se davvero si vuol cambiare rotta, è necessario chiedersi: per quali ragioni la gravità della pedofilia è stata così a lungo sottovalutata? E poi perché, una volta che se ne è presa coscienza, si è scelta la strategia dell’occultamento? Le cause, come sempre, sono svariate e complesse ma due sembrano quelle principali e, se non ci si propone di rimuoverle, non è possibile un effettivo superamento dell’attuale situazione.

Per quanto riguarda la prima domanda, è probabile che la plurisecolare sottovalutazione della pedofilia nella morale cattolica, e quindi nella società da essa influenzata, dipenda dal modo in cui è stata concepita in generale la sessualità: questa è considerata il campo in cui in modo particolare si manifesta il disordine della concupiscenza causato dal peccato originale, tanto che l’atto sessuale, di per sé qualcosa di sconcio, può essere ammesso solo all’interno del matrimonio e in vista della procreazione. Ne consegue che tutte le attività sessuali che esulano da tale contesto sono illecite e rientrano nel vizio della lussuria. E la forma più condannabile di tale vizio è il peccato contro natura, cioè quello che impedisce il raggiungimento dello scopo procreativo.

In base a questa concezione, nel medioevo esposta nella maniera più organica da Tommaso d’Aquino e a cui ancora oggi si ispira sostanzialmente il magistero ecclesiastico, un rapporto omosessuale, che rende appunto impossibile la procreazione, è più grave dell’incesto o dell’adulterio, che non compromettono la procreazione ma solo la possibilità di creare le condizioni più adatte per l’educazione della prole. E per lo stesso motivo hanno maggiore gravità i rapporti tra coniugi quando venga reso impossibile il concepimento e persino l’atto con cui “senza alcun commercio carnale si provoca la polluzione in vista del piacere venereo”(Somma teologica II-II, 154, 11). La masturbazione più grave dell’incesto o dell’adulterio!

In una simile prospettiva, è ovvio che i rapporti con i minori non assumono una speciale rilevanza, in quanto rientrano in altre fattispecie: se il minore è dello stesso sesso, siamo nell’ambito dell’omosessualità, già di per sé meritevole della più severa condanna; se è di sesso diverso, e quindi c’è la possibilità della procreazione, il rapporto è certamente peccaminoso ma non raggiunge neanche il livello del vizio contro natura. E infatti non è un caso che, nell’ampia trattazione che Tommaso riserva nella Somma teologica alle varie espressioni che può assumere il vizio della lussuria, sui ben dodici articoli della Questione 154 non ce ne sia uno dedicato alla pedofilia. Mentre oggi è diffusa la consapevolezza che la pedofilia, e non l’omosessualità, costituisce una devianza, la gerarchia ecclesiastica ha evidenti difficoltà a prendere le distanze dalla visione tradizionale della sessualità.

Per quanto riguarda la seconda questione, la concezione del sacerdozio difesa dalla gerarchia e accettata dal popolo cattolico ha influito, forse in maniera determinante, sulla decisione di tener nascosti i casi di pedofilia. È evidente che per un adulto è tanto più facile abusare di un minore, senza ricorrere alla violenza o al denaro, quanto più può godere della sua fiducia: un bambino o una bambina si fidano spontaneamente del padre o dello zio o dell’amico di famiglia. Ora, l’immagine del sacerdote proposta dal magistero, un ‘padre’ per i fedeli che gli si accostano, è tale da ispirare la massima fiducia, al di là delle qualità personali, perché grazie al sacramento dell’ordine egli rappresenta Cristo stesso.

Da secoli infatti, come nota criticamente Eugen Drewermann, il sacerdote è presentato come una figura sacra, un essere che ha ricevuto una speciale vocazione, “la cui azione produce effetti ‘divini’ non in virtù della sua personalità bensì in virtù dell’incarico oggettivamente ricevuto dalla Chiesa”(Funzionari di Dio, Bolzano-Verona 1995, p 46). E questa concezione è ribadita anche dagli ultimi pontefici. Per illustrare il ruolo del sacerdote Giovanni Paolo II, per esempio, cita un passo di uno scrittore cattolico che attribuisce a Cristo queste parole: “Ho bisogno delle tue mani per continuare a benedire, Ho bisogno delle tue labbra per continuare a parlare, Ho bisogno del tuo corpo per continuare a soffrire, Ho bisogno del tuo cuore per continuare ad amare, Ho bisogno di te per continuare a salvare (Michel Quoist, Preghiere)”(Discorso al clero di Roma, 9/11/78). E qualche anno dopo: “I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore, ne proclamano autorevolmente la parola, ne ripetono i gesti di perdono e di offerta della salvezza, [...] ne esercitano l'amorevole sollecitudine, fino al dono totale di sé per il gregge”(Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, 25/3/92).

La stessa idea è espressa da Benedetto XVI, che nella Lettera ai cattolici irlandesi sopra citata, raccomanda la figura del curato d’Ars, “San Giovanni Maria Vianney, che ebbe una così ricca comprensione del mistero del sacerdozio. Il sacerdote, scrisse, ha la chiave dei tesori del cielo: è lui che apre la porta, è lui il dispensiere del buon Dio, l’amministratore dei suoi beni”(n 14). Ma se si concepisce il sacerdote come la ‘ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore’, come un uomo le cui mani servono per benedire e la cui bocca annuncia la salvezza, come colui che ‘ha la chiave dei tesori del cielo’, è ovvio che il credente, specialmente se è un adolescente, è indotto ad abbandonare ogni riserva e ad affidarsi a lui ciecamente. Una simile sacralizzazione del ruolo del sacerdote dà un enorme potere sui fedeli e ha pochi riscontri al di fuori del cattolicesimo, favorendo così i possibili abusi.

Ma è altrettanto evidente che, una volta che è stata inculcata nel gregge dei fedeli una concezione così sacralizzata del prete, è poi estremamente difficile consentire che vengano alla luce quei fatti che smentiscono quella ideologia: se si squarcia quel velo, infatti, crolla la costruzione teologica del sacramento dell’ordine che configura a Cristo i suoi ministri e non è più possibile chiedere ai laici quell’atteggiamento di assoluta fiducia e di totale obbedienza. In realtà, un buon prete è tale per il suo impegno personale e non perché appartiene allo stato clericale: infatti, accanto a sacerdoti che sono autentici testimoni del Vangelo, c’è un buon numero di mestieranti, non manca chi è assetato di ricchezza e di potere e ormai sappiamo con certezza che c’è anche una percentuale, sicuramente minoritaria, di pedofili.

Per salvare la credibilità del clero, e in genere dell’istituzione ecclesiastica che si è costruita sulla divisione tra sacerdoti e laici, pastori e gregge, può apparire giustificabile quindi anche l’occultamento di veri e propri reati. È bene nascondere i fatti sino a quando è possibile, minimizzarne la portata se vengono alla luce, sanzionarli solo se non se ne può fare a meno, anche se c’è il concreto rischio che queste scelte possano provocare terribili sofferenze a nuove vittime innocenti. Lo scandalo che danneggia l’istituzione è il male da evitare a ogni costo, anche sacrificando i diritti delle persone. Proprio quella “preoccupazione fuori luogo per la reputazione della Chiesa e per evitare scandali”(n 4) che ora il papa nella Lettera ai cattolici irlandesi condanna, rompendo con una lunga tradizione: nel Seicento, per esempio, i moralisti sostenevano che è lecito a un prete persino uccidere chi attenta alla sua onorabilità, come ci ricorda Pascal citando un passo del manuale di teologia del padre Francesco Amico, in cui l’illustre gesuita affermava che “è permesso a un ecclesiastico o a un monaco uccidere un calunniatore che minacci di divulgare crimini scandalosi della sua Comunità o sul suo conto, quando non c’è che questo solo mezzo per impedirglielo, come nel caso in cui egli si accinga a diffondere le sue maldicenze se non ci si affretta a ucciderlo”(Lettere Provinciali, Milano 1989, p 117).

In conclusione, per superare questa crisi, i gerarchi del Vaticano, dopo aver risarcito per quanto possibile le vittime sia dal punto di vista morale che economico, dovrebbero ammettere le proprie responsabilità e addirittura consentire una libera riflessione sulla tradizionale visione cattolica della sessualità e del sacerdozio. Sul momento, invece, la preoccupazione prevalente è sembrata quella di chiudersi a riccio nella difesa di Benedetto XVI: tutta la Chiesa si stringe intorno al papa, diceva il cardinal Sodano nell’indirizzo di auguri del giorno di Pasqua. Poi, il tempo farà la sua opera, e della questione dei preti pedofili, si spera in Vaticano, non si parlerà più.

Ma la realtà è ben diversa da quella che si vuole fare credere: “Innumerevoli sono i cattolici che hanno perso la fiducia nella loro Chiesa; e il solo modo per contribuire a ripristinarla è quello di affrontare onestamente e apertamente i problemi, per adottare le riforme che ne conseguono” scrive Hans Kueng (La Repubblica 15/4/10). In Italia il 62 per cento, in America addirittura l’80 per cento dei cattolici disapprova la gestione vaticana della crisi, e alla lunga ciò peserà sulla tenuta dell’istituzione ecclesiastica. È vero che, se l’opinione pubblica è rimasta sconcertata e disorientata, sono tuttavia venute parole di apprezzamento per il papa almeno da parte di numerosi politici e dello stesso governo italiano: ma forse, almeno per chi in Vaticano ha idee chiare sulla qualità della nostra classe politica, ciò dovrebbe essere motivo non di conforto ma di preoccupazione, se non di vero e proprio allarme.

(9-9-2010)

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Venerdì 10 Settembre,2010 Ore: 12:04