Isola Nera 5/57
Casa di Poesia e Letteratura Casa aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana. Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace. Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione. mulasgiovanna@yahoo.it ottobre 2010 Lanusei, Sardegna
"Nella mia vita non mi sono mai contraddetto per la semplice ragione che su (Mario Soldati) GIOVANNA MULASda “NESSUNO DOVEVA SAPERE, NESSUNO DOVEVA SENTIRE”Un estratto da ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’, mio nuovo romanzo. E’ il climax dello scritto, l’evento che darà il via al dipanarsi fisiologico della matassa narrativa, ad un ulteriore incatenarsi di fatti tragici che ‘daranno un senso’ all’essere ( al divenire) accabadora della protagonista. Chi conosce la mia letteratura e la mia vita sa quanto io sia legata alla tematica della violenza sulla donna, che riprendo in questo capitolo una volta ancora e dopo il mio autobiografico ‘Lughe de chelu’ ( Bastogi, 2003), con il personaggio di un parroco che violenta la giovanissima protagonista.
Abbaccai Ogni volta, dopo la messa, don Cristoforo dava al pesante portone d’ ingresso della parrocchia tre mandate ( tre, dovevano essere, come la Santissima Trinità, diceva lui) per serrarlo.
Poi Abbaccai lo vedeva ritirarsi nelle sue stanze, rosario e bibbia nel pugno, probabilmente a leggere il breviario. Quando l’avevano visto arrivare in paese col treno da Cagliari e accompagnato dall’anziana e grassa madre vedova, l’inverno di due anni prima, nessuno avrebbe detto che di prete si trattava. Vederlo scendere dal vagone così, tutto nero tranne i capelli troppo biondi, alto, zaino alla mano ed un paio di libri nell’altra, il ciuffo scomposto e il sorriso facile, la pelle chiara da continentale, così come gli occhi; tutte le donne ne erano rimaste affascinate ( per mesi in paese e nelle campagne non si era parlato d’altro che di un prete bello come un angelo), e tutti gli uomini, giovani o vecchi che così diverso lo vedevano, così bello e puro, ma tutto tranne asessuato come un vero prete dovrebbe essere o almeno apparire all’occhio...bhè, molte donne s’erano sentite rifiutare dal marito il permesso di andare in chiesa. E don Cristoforo, così si chiamava, Cristoforo Veneruso; aveva dovuto visitare tutto il paese, casa per casa, ovile per ovile, quasi scusandosi della sua bellezza. Convincendo comunque con le buone e sempre con la Bibbia in mano che la messa non andava saltata. Che era male saltarla. Certo era che, thia Annicca lo diceva sempre, la sera, in cortile, sbucciando le patate per il brodo di gallina del giorno dopo; tutte le zitelle, giovani o vecchie del circondario, avevano preso ad andare a messa non solo la domenica, ma tutti i santi giorni. E sempre vestite a festa; tutti i giorni per loro erano diventati Domenica delle Palme. Una volta Abbaccai ( avrebbe compiuto quattordici anni il sei di maggio) aveva scoperto don Cristoforo a spiarla mentre spolverava il candelabro rivestito d’oro che Thia Paba aveva donato alla chiesa in ringraziamento dopo che sua nipote s’era salvata da morte certa per broncopolmonite fulminante. Una miracolata insomma, sia la nipote sia thia Paba, che poteva permettersi di regalare candelabri come quello. In paese dicevano si nascondesse i denari nell’ orto, sotto gli ulivi. Ed era capitato che i carabinieri dovessero correre in casa sua nel cuore della notte perché richiamati dalla vecchia vedova che aveva scoperto qualche disgraziato scavarle nell’orto e chi la capisce questa gente? Disgraziati di paese, latitanti sono che dovrebbero FINIRE IN GALERA! E nell’ultima parte della frase alzava la voce di tre toni di modo, forse, che tutte le case attorno sentissero cosa la signora pensava davvero del suo vicinato. Abbaccai stava piegata sulle ginocchia, le gonne leggermente sollevate sopra le caviglie per potersi muovere meglio, i capelli raccolti con grosse, grezze forcine d’osso, sotto il fazzoletto. Avvertiva una sottile pellicola di sudore sulla fronte; si avvicinava l’estate e senza dubbio, come le ripeteva thia Annicca, sarebbe stata un’estate lunga e molto calda, come quella che aveva seguito la sua nascita. Abbaccai si era appena versata un bicchiere d’acqua di fonte, dalla brocca di terracotta poggiata al fresco, sulla cassapanca tarlata di fianco all’altare in pietra. Sulla sinistra della piccola finestra con delle assi inchiodate all’esterno, ora che i muratori facevano dei lavori di restauro, c’era un tratto di terreno dove, nell’erba, riaffiorava una ruota di carro. I passeri saltellavano ora tra le assi inchiodate, ora sulla ruota, e ogni saltello vivace era un canto, un’ arruffare di piuma. Abbaccai aveva intinto i polpastrelli nell’acqua rimasta nel bicchiere, e li aveva passati sopra il seno, sul collo, dietro i lobi delle orecchie dolcemente, a cercare refrigerio. Ad un rumore, ad un respiro, si era voltata di scatto; aveva fissato don Cristoforo con espressione lievemente sorpresa. Aveva riabbassato gli occhi sul candelabro, in silenzio. Poi aveva visto con la mente la figura di rondine trista scomparire nel sagrato. Finito il lavoro era andata come sempre a salutare don Cristoforo. L’ aveva trovato con la testa poggiata agli avambracci pelosi, troppo magri. Ed ecco che, d’istinto, l’aveva assalita all’improvviso una possibilità spaventosa: forse poteva succedere qualcosa di molto sbagliato nella vita delle persone, e a volte quel qualcosa di sbagliato non finiva lì…non era destinato a finire. Ma a continuare, a sfociare in qualcosa di peggio e nessuna volontà avrebbe potuto trattenerlo dallo sfociare. Un guasto progressivo. Un ciclo che si ripete e si ripete, all’ infinito. La schiena di don Cristoforo sussultava. -don Crì…ho…ho finito-. L’ uomo era trasalito. –Vai a casa-, aveva bisbigliato alla ragazzina, -e non tornare… da domani verrà mia madre a fare le pulizie-. -Anda bene goi; comente cheres, don Crì.-, annuì Abbaccai. Aveva, per un solo attimo, sentito l’ impulso di consolare don Cristoforo del suo male; era stata lì per sfiorargli la schiena con una carezza, e che diamine; era evidente che don Cristoforo non riuscisse da solo a superare il suo problema. Avrebbe voluto dirgli che sarebbe passato tutto presto, non c’era di che preoccuparsi perché la vita è così; oggi è bene domani è male, dopo è forse. Ma il suo istinto, ancora, l’aveva fermata dal reagire. A testa bassa aveva lasciato la stanza, chiudendo la porta. L’ avevano seguita, lungo il tappeto carminio a intarsi oro della chiesa e fino all’ingresso, i singhiozzi striduli e disperati di don Cristoforo. Era accaduto tre settimane dopo in una mattina, così, in una folata di vento di maggio era accaduto. Abbaccai aveva voluto andare a visitare don Cristoforo dopo la messa, salutarlo, chiedergli se andava meglio perché la verità era che sentiva nostalgia della sua voce dolce e rassicurante, dei modi da gentiluomo continentale, i consigli e le immagini dei santi che ad ogni visita le regalava invitandola a pregarli che c’era un Santo per ogni male, ripeteva il giovane parroco. E non importava se thia Annicca quando lei le aveva raccontato l’accaduto, era impallidita segnandosi tre volte fronte e petto. – non ci mettere più piede da sola, in quella chiesa- -Proite thì?- -PERCHE’ NON CI DEVI ANDARE E BASTA…HAI CAPITO? SE SO CHE L’HAI FATTO TI BASTONO LA SCHIENA FINO A SPEZZARLA…CUMPRESU AS, DIAULA?- -Mmmmh…eja…va bene.- -E neppure devi raccontare a nessuno quello che hai detto a me…lo prometti Abbaccà? Ti l’ammentas, diaula?- -Mmmmh.-. Quella stessa notte Abbaccai, dalla sua stanza, aveva sentito thia Annicca mormorare preghiere incomprensibili, parlare nel buio o col buio; tutta la notte era rimasta sveglia a mormorare perché la mattina, quando la ragazza si era alzata per scaldarsi il latte, l’aveva trovata addormentata sulla sua sedia a dondolo, di fronte al camino spento, il capo poggiato sulla spalla, il rosario stretto nel pugno ed il libricino dell’Antico Testamento aperto, sopra scialle e petto. Ai suoi piedi un piatto con acqua e olio, una bottiglia piena a metà di vino rosso spunto, un crocifisso, un’ immaginetta dei Santi Cosma E Damiano. – Sto aiutando una persona a vincere la sua battaglia-, aveva detto thia Annicca quando le aveva chiesto il perché della notte in bianco.
Fu nel momento in cui si chinò per raccogliere una rosa caduta dall’altare, caduta curiosamente proprio nell’istante in cui Abbaccai ci passava davanti per andare in sagrestia, che una mano le calò sulla spalla, stringendola e costringendola a voltarsi. -Don Cri…?- mormorò Abbaccai. Don Cristoforo era lui ma…non era lui…non sembrava lo stesso don Cristoforo di tre settimane prima. Questo…quest’uomo aveva la barba lunga, gli occhi cerchiati e fuori dalle orbite e le labbra strette. Abbaccai cercò di parlare ma non riuscì. -Ti avevo detto di non tornare- fece il prete. -…tu…sei peccato…tu…te la stai cercando…- te la stai cercando te la stai cercando te la stai cercando La ragazza strattonò la presa, indietreggiò fino a toccare la parete -Se ti avvicini ti ammazzo, hai capito bene, ti ammazzo!-, disse. L’altro si lanciò su Abbaccai ruggendo, lei restò dov’era. Urtò inavvertitamente con l’anca il candelabro che vacillò, si esibì in un giro di valzer, le cadde accanto. La ragazza caricò tutto il peso del corpo sulla cassapanca spingendola su e verso l’ uomo; con un tintinnio musicale bottigliette e vasi si rovesciarono sul granito della chiesa, andando in frantumi. Schegge di vetro partirono in ogni direzione, Abbaccai alzò un braccio per farsi scudo agli occhi. E il prete le fu sopra. La rovesciò sul granito: un tonfo sordo, una fitta alla nuca, una luce bianca esplose ad Abbaccai nella testa. Ora, l’aveva sopra di lei. Si limitò a fissarlo con dolente solennità infantile, silenziosa, mentre le mani di lui le sollevavano la gonna frenetiche, le allargavano le gambe e frugavano graffiandola e ferendola ancora, ficcavano le unghie nella carne fresca, dolce, pura, risalivano ai seni, li strizzavano mentre il fiato aumentava, roco. Pareva che il suo intento ora non fosse più solo quello di violentarla, ma di ucciderla direttamente. -peccato…il peccato sei- ripeteva don Cristoforo e un rivolo di saliva gli colava sul mento. Togliere il peccato dalla faccia della terra, lavarselo dalla pelle e il sangue. E lei seppe, in quel momento sentì con matematica certezza che lui l’avrebbe fatto: vide chiaramente la scena, con una sensazione di estraniamento che la sconvolse forse più delle mani aliene sulla sua carne. La vide in un flash, un attimo. Vide lui che si rialzava dopo, vide lui che le chiedeva perdono e mentre lei sconvolta si aggiustava le gonne per fuggire lo vide che, muto e lestro, la raggiungeva alle spalle, la strangolava, la lasciava sul granito, morta. Lo vide che la raccoglieva da terra guardandosi attorno, la nascondeva in sagrestia chiudendo la porta a chiave e aspettando la notte. Lo vide dare messa come nulla fosse accaduto, solo più pallido del solito ma è un continentale, ha sangue allungato con acqua lui, vide le vecchie bisbigliarsi sorridendo tra un rosario e l’altro. La notte, mentre l’ultimo ubriaco camminava incespicando dall’ unica bettola del paese alla casa; ecco don Cristoforo che rientrava in sagrestia, la raccoglieva dal suo angolo, le accarezzava i capelli, la baciava sussurrandole all’orecchio di averla amata davvero lui, ma il peccato non aveva diritto di restare sulla terra, andava lavato perché poteva portare ancora in tentazione. Infilava il corpo della ragazzina dentro un sacco di tela grezza, quelli usati da thia Annicca per conservare i resti dei cibi da dare ai maiali, e, caricandoselo sulla spalla, lo portava giù al fiume. Non c’erano carabinieri in ronda quella notte, non a quell’ora. Abbaccai vide thia Annicca segnarsi e segnarsi e piangere la sua scomparsa nella cucina di casa Spano, tra acqua, olio e vino e immagini sacre. Vide don Cristoforo tirarla fuori dal sacco e deporla amorevolmente ai piedi del vecchio albero di noce, poggiarla seduta, la schiena al tronco e le gambe leggermente divaricate, le gonne lunghe a coprire le ferite, il capo chino come una Madonna addormentata. Lo vide piegare il sacco con la stessa flemma cerimoniosa di quando, durante la messa, alzava l’ostia al cielo per benedirla e appoggiarla tra le labbra di turno. Lo vide mettersi il sacco piegato sotto il braccio e, senza voltarsi indietro, prendere la via del ritorno. Poi, ancora, lo vide ritornare in chiesa e pregare fino all’alba, chiedere perdono e avere l’assoluzione da se stesso, che in fondo non aveva fatto altro che liberare il mondo dal peccato. E lo vide pure, qualche anno dopo, buttare gli occhi suoi chiari, consiglieri e puri, su Giannedda Demuru, la figlia del farmacista del paese, che solo tredici anni teneva ma un seno di donna fatta. Ecco, tutto questo Abbaccai lo vide in un istante, un flash. E mentre don Cristoforo emetteva un grido soffocato, roco, lei lo colpì dietro la nuca col candelabro. Lo colpì una, due volte, tre, fino a che la testa sussultante dell’ uomo non rimase ferma, bloccata sulla sua spalla; continuò a colpire il morto fino a che non sentì il sangue di lui scivolarle sul seno, sul collo, i capelli umidi dal pianto. Attese il buio nascosta in sagrestia, disperata e violata ma viva, corse attraverso la campagna fino a casa di thia Annicca che già l’aspettava, che già sapeva. E la vecchia nulla disse, solo l’abbracciò stretta, la lasciò piangere, la lavò e su ogni ferita, biascicando preghiere e gesticolando, poggiò un bacio. -Resta qui a riposare. Ti guarderà la luna. E’ l’inizio, Abbaccai mea-, le mormorò prima di uscire. Abbaccai non capì, ma non chiese. S’addormentò esausta, singhiozzando. Quella notte ebbe la sua prima mestruazione; a lavare la violenza, a lavare via la sua infanzia. Di don Cristoforo nulla più si seppe, ma i maiali di thia Annicca ebbero carne da mangiare ( e non la trovarono molto buona, mi raccontarono loro stessi) per una settimana di fila. Una vecchia megera del paese, già perpetua di don Cristoforo; mi disse in confidenza che tutte le volte in cui quella settimana passò davanti al recinto, i maiali le grugnirono dietro in latino. Nessuno le credette. Io si.
Ferruccio BrugnaroMestre, Venezia - 1936 Neve di primavera È sconvolgente Lalla Romano “Scrivere vuol dire scrivere di sé, Silenzi D’estate, nel silenzio dei meriggi, sopra la terra esausta ed assopita, incombe il peso d’una enorme assenza.
Ma dai grandi silenzi dell’inverno, sopra la terra rispogliata e nuda, infinita certezza si disserta.
Tutto perdemmo: fu sprecato il tempo Sì breve del fiorire, ma ora il cielo, non più velato dalle foglie, immenso,
di luce inonda gli orizzonti, e nulla fuorché il cielo è vivente sulla terra, una più vera vita è in questa morte. (Inedito di Lalla Romano, 1930) Graziella, (nome scelto dal padre dalla novella di Lamartine, in omaggio a Napoli) detta Lalla, Romano nacque a Demonte , in provincia di Cuneo, l’11 novembre del 1906, da una famiglia di antiche origini piemontesi. Cresciuta in un clima ricco di sollecitazioni culturali, dopo il liceo s'iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, dove i professori Ferdinando Neri e Lionello Venturi influirono profondamente sulla sua formazione. Su suggerimento di Venturi frequentò la scuola di pittura di Felice Casorati, e cominciò ad occuparsi di critica d’arte. Nel 1928 si laureò a pieni voti, all’Università di Torino, in letteratura romanza con una tesi sui poeti del “dolce stilnovo”. Dopo aver fatto la bibliotecaria a Cuneo, si trasferì a Torino con il marito Innocenzo Monti e con il figlio. Qui insegnò storia dell’arte in vari istituti, continuando a coltivare la sua passione per la poesia e per la pittura. Tra il 1925 e il 1928 frequentò lo studio del pittore Giovanni Guarlotti, compì numerosi viaggi a Parigi, conobbe i nuovi fermenti artistici ed entrò in contatto con Cesare Pavese (con cui era stata anche compagna di università e per il quale, durante la guerra, tradusse i Trois contes di Flaubert), Mario Soldati, Franco Antonicelli, Arnaldo Momigliano, e Carlo Dionisotti. Iscritta al Partito d’Azione, prese parte attiva alla Resistenza, esperienza i cui echi confluirono in molte sue opere. (ringraziamo la Fonte: http://www.letteratura.it ) Sibilla AleramoAlessandria (Piamonte) 1876 -1960 Pallore lucente Pallore lucente, nell’aria e su me, e stupore. Alberto Asero, Italia PASSACAGLIA Willy è nervoso. Ansima e gira su se stesso. Mi chino e gli tendo il riccio di peluche. Allora lui si ferma e mi guarda. Agito appena il peluche perché lui si avvicini. E in effetti dopo poco si avvicina, ma senza convinzione. Sfiora il giocattolo con il naso. Senza guardarlo, però, senza smettere di guardarmi. Ho appena il tempo di fargli una carezza. Da come scatta via pare che il riccio di peluche sia un riccio vero, che lo abbia punto. Di nuovo va e viene dalla scala al cancello, dal cancello alla scala. Si ferma solo quando capita che da dietro la tenda chiusa traspaia un qualche movimento; allora drizza il collo e tende le orecchie. Poi ricomincia ad ansimare e girare nervosamente su se stesso. Ansimare e girare su se stesso. “Vieni!”, disse Margaret. E improvvisamente parve le parole avessero riacquistato il privilegio di non poter venire che da sé, spontaneamente, com'era quando indietro non c'era nulla da difendere, né tanto meno da cui difendersi. “Dove?” “Oltre il promontorio. C'è un'insenatura, una piccola baia. Non c'è nulla, lì, salvo una chiesa che dà sul cielo”, e agitò la mano. “Dài, vieni, andiamo!” In un attimo lasciammo il sottile lembo di spiaggia a mezza luna fra due scogliere in cui ci eravamo ritrovati e ci inerpicammo in chilometri di curve su per il crinale scanditi solo da qualche indicazione di minuscoli borghi. Intanto stava facendosi buio; un po' anzitempo, considerata la stagione, non fosse per il temporale che si preannunciava. Forse per via della malcelata emozione, Margaret sbagliò strada due volte, e tutte e due le volte, accorgendosene, rise. Risi anch'io, e continuammo a ridere anche quando la strada, che nel frattempo aveva preso a scendere piuttosto rapidamente, bruscamente finì e i fari non illuminarono altro che un sentiero in mezzo agli eucalipti che si perdeva nel buio e un pannello dal fondo giallo butterato dalla ruggine che indicava, a relativamente poca distanza, una chiesa del XII secolo della quale a mala pena si leggeva il nome. Non era sicura, Margaret, perché ci era capitata di giorno e solo di sfuggita, ma le pareva proprio che il luogo fosse quello. Ci scambiammo uno sguardo complice per poi proseguire adagio, l'assestamento dei sassi sotto le ruote che risuonava in un frastuono fastidioso. La piccola baia si offrì improvvisa come una visione, appena dopo una curva fittamente difesa dagli alberi. E davvero c'era da chiedersi chi mai, e perché, avesse sentito il bisogno di posare quell'unico lampione nel bel mezzo di un deserto di sabbia, eucalipti e mare, appena ordinato dal breve tratto di selciato in ghiaia fine a ricordo del sagrato di un tempo. Fu per via del lampione che i ruderi dell'antica chiesa ci si presentarono in una tonalità giallognola amalgamante che a mala pena lasciava emergere dalla penombra i dettagli, voluti, dell'architettura e quelli, non voluti ma non per questo meno significativi, del lungo decadimento. Non so dire per quale ragione, ma mi parve che tutta la desolante solitudine del luogo, ma anche tutto il suo indicibile fascino, fossero riassunti nell'informe essenzialità del cancelletto appena socchiuso che prendeva il posto del portale, probabilmente trafugato dopo il crollo dell'edificio. “È questa, sì!”, confermò Margaret. Poi scese dall'auto e si incamminò, senza attendermi, verso l'ingresso della chiesa. Restai indietro, compiaciuto nell'osservarla avanzare come assente fino al cancelletto, davanti al quale si fermò e sostò a lungo senza aprirlo. Nella visione di lei di spalle immobile davanti al cancelletto di una chiesa diroccata ritrovai la stanza d'albergo in cui, dodici anni addietro, ci eravamo amati per la prima volta; ed anche lo sguardo spaesato di lei quando, la mattina dopo, passeggiando in riva al mare, le avevo gettato addosso all'improvviso, non preannunciate da nulla, tutte quelle parole delicatamente false alle quali di certo non avrebbe creduto se solo io, qualche ora indietro, svegliandola nel cuore della notte, avessi fissato per primo quell'unica parola vera che reclamava d'esser posta e che invece soffocai in un silenzio stupido, leggero perfino nella sua disperata inconsistenza. Il fatto è che dodici anni sono decisamente troppi perché abbia senso riempire il vuoto che può esserci stato nella manciata di istanti racchiusa tra una porta che si apre a notte fonda e una mano che ti sveglia scompigliandoti i capelli abbandonati sul cuscino. Forse anche per questo Margaret non mi aveva creduto quando, appunto dodici anni dopo, interruppi la routine di un giorno qualunque ricomparendo sfacciatamente con una lettera surreale che parlava proprio di quegli istanti di cui lei non poteva sapere; che raccontava di come, chiusa delicatamente la porta dietro di me per non svegliarla, nella penombra dalla quale il suo viso spuntava contornato dal bianco delle lenzuola, mi parve di vederla davvero per la prima volta, e di innamorarmi lì, compiutamente e definitivamente, di lei, e insieme a lei della vita che era la mia ma che non avevo mai incontrato prima d'ora, e che ora finalmente vedevo scorrere davanti agli occhi in tutta l'inequivocabilità di un film il cui fondo era il viso di Margaret che dorme. No, non poteva credermi. E così mi aveva risposto freddamente che avevo avuto un bel coraggio a farmi vivo dopo tanto tempo e dopo che tanti cambiamenti erano avvenuti da quando, la mattina seguente, dopo la passeggiata sulla spiaggia, mi aveva accompagnato alla stazione con la consapevolezza lucida e straniante che tutto quell'amore che ci aveva portato lì, la notte prima, e che insieme avevamo cullato, gustato, vissuto, presagito, non sarebbe valso neppure a farmi tornare un'altra volta. E io le avevo risposto consegnandole la mia verità, confessandole di essere scappato da lei, sì, proprio scappato, precisamente quando scoprii che da quella notte l'avrei amata davvero e che lei mi avrebbe amato davvero, e che per questa sola, improbabile coincidenza di fatti nulla sarebbe più stato come anche solo il giorno prima, e poco importa che questo, in realtà, era proprio ciò che più desiderassi e che ciò a cui invece mi aggrappai per giustificare a me stesso la rinuncia era qualcosa la cui inconsistenza vedevo tanto chiaramente che dovetti dirti tutte quelle parole insensate per confondere le idee anzitutto a me stesso, perché il punto è che essere liberi non basta se non si è liberi di esserle liberi. E lei aveva concluso che tutto questo discorrere non aveva alcun senso, che la vita non si ferma certo davanti a un treno che non ritorna, e che in ogni caso era stata felice, anche senza di me, e questo era tutto. Solo quando, un giorno, le avevo finalmente e pateticamente chiesto di incontrarci, ti prego, concedimi di rivederti, le avevo scritto, lei trovò davvero irritante tutta quella conversazione. Per questo mi aveva risposto secca che dovevo esser pazzo a pensare che lei avrebbe speso anche solo un minuto del suo tempo per non si capisce neppure che cosa, e che davvero le sfuggiva il perché di quell'improvviso, insensato desiderio di rivangare un passato morto e sepolto. Perché è te che voglio, è te che ho sempre voluto, come hai fatto a non capirlo?, a non capire che me ne andai proprio quando mi fu chiaro tutto questo? Così le scrissi. Dopodiché non si era più fatta viva. C'erano voluti mesi prima che mi chiamasse, una sera, del tutto inaspettatamente, quando io pensavo ormai che non ci sarebbe più stata parola fra noi. C'era voluto quell'altro racconto, quello che riempiva il vuoto fra il saluto alla stazione e la lettera di dodici anni dopo, perché lei smettesse di odiarmi. Quando Margaret sentì la mia presenza dietro di sé, era chinata e stava sfilandosi le scarpe. Aveva bisogno di sentire sotto i piedi l'umido dell'erba e della terra, mi disse voltandosi appena e abbozzando un sorriso impercettibilmente nervoso. Poi raccolse le scarpe e si alzò. “Entriamo”, disse. E scostò con delicatezza l'anta del cancelletto. Entrammo accompagnati per un brevissimo tratto dalla scia giallognola del lampione dolcemente mossa dall'erba che cresceva, bassa ma fitta, al posto del pavimento. Camminammo in silenzio fra le mura spoglie e grige che, nell'immobilità assoluta della notte, parevano sopravvissute al solo, rassicurante scopo di dare un limite al cielo. Passammo di cappella in cappella, di nicchia in nicchia, senza mai parlare, indicandoci semplicemente con lo sguardo ora alcuni fiori secchi adagiati ai piedi di una statua, ora un mozzicone di candela lasciato ad illuminare un tabernacolo stranamente ben conservato, ora persino la carta sgualcita di una fotografia assicurata alla meno peggio con una pietra a quel che resta dell'altare maggiore. Ci fermammo davanti ad una di quelle nicchie vuote e ci lasciammo scivolare a terra, prima lei, poi io, fino a sentire con il dorso del collo l'umido dell'erba. E restammo così, sdraiati l'uno accanto all'altra, nel paradosso di una nicchia aperta sul cielo, forse per ore, sempre parlando con un filo di voce, come chi temesse di rivelare chissà quali segreti compromettenti, e in realtà ricostruendo lettera dopo lettera, variazione dopo variazione, l'eterna passacaglia dell'amore che nasce, o che rinasce in questo caso, il cui soggetto è sempre così distante da ciò che di volta in volta, di epoca in epoca, affiora alle labbra degli attori, essendo lì, immutabilmente fisso sullo sfondo, in quell'ostinato tornare e ritornare e ritornare ancora a suggerirsi che sì, ti amerei, se solo anche tu..., finché non si giunga a quella variazione in cui c'è una mano che sfiora dei capelli, e a quell'altra in cui si vede la stessa mano che ne cerca un'altra ancora, che lentamente ne esplora gli spazi fra le dita che si concedono per poi subito stringersi in un preludio dell'abbraccio che seguirà, e poca differenza fa che ora tutte queste variazioni si svolgano gelosamente racchiuse in piccole mura che ricalcano quelle mura più grandi che ci ritagliano al mondo, ché tanto sempre la passacaglia guarda all'illusione dell'infinito, e non smette neppure quando, come ad un tratto avvenne, sulla scia giallognola del lampione si allungò una macchia nera, quando la macchia nera venne cautamente verso di noi, quando accese una lampada, quando ci disse che era il custode, ma possibile che questo luogo abbia un custode?, che era tardi, che doveva chiudere, e allora noi lo guardammo come se avesse detto una serie di assurdità, e in effetti che senso potrà mai avere darsi pena di chiudere il cancelletto di una chiesa che non ha neppure più una volta?, e se non scoppiammo a ridere fu solo per non perdere il filo di quella passacaglia che stavamo improvvisando da ore, complice il silenzio della notte, il cielo nero di nubi che correvano veloci da un'angolo all'altro dello schermo lasciando di quando in quanto intravedere qualche stella, complice perfino quel personaggio grottesco che si presentava nel bel mezzo di un sogno con una lampada e un mazzo di chiavi, e che alla fine comunque decise di lasciarci stare dov'eravamo, insegnandoci soltanto a scavalcare il muro in un punto ben preciso, casomai avessimo deciso di non far mattina contemplando una volta che non c'è, e che si godessero la loro notte, massì, guarda come sono belli, perché sono belli davvero, finché poi, chissà come, spenta la lampada, chiuso il cancelletto, strette di nuovo le dita delle mani in quel preludio d'abbraccio, Margaret si lasciò sfuggire una domanda innocua, ingenua persino, e ovvia, come la cadenza che ad un tratto giunge ad interrompere il fiorire altrimenti pericolosamente infinito delle variazioni. “Sei felice?” “Felice? Non lo so. Però ora, se non altro, credo di capire cos'è esser felici.” “Non avrei mai creduto, sai?” “Cosa?” “Che ci saremmo ritrovati, un giorno. Che mi avresti cercata, dopo tutto il tempo che è passato. Io non l'avrei mai fatto.” “Perdonami.” “Perdonarti... Non so più neanche per cosa. Ti ho odiato, sai?” “Ne hai tutte le ragioni. Io invece, senza rendermene conto, ti ho sempre amata.” “Lauro, non giocare con le parole. Il significato è tutto.” “So bene che quel che dico è al limite del comico dopo tutto il tempo che è passato, ma davvero la mia fuga da te è miseramente fallita nel momento stesso in cui la perpetrai. So anche che è difficile da credere, ma è proprio così: sono riuscito a liberarmi di te, ma non dell'amore che ormai provavo per te. Del resto, pensaci, che cosa può portare una persona a ricomparire dopo tanto tempo, ben sapendo peraltro che non avrebbe certo potuto sperare di trovare una porta aperta? E poi, vedi, per mentire ci vuole una ragione. Che io non ho.” “Per mentire ci vuole l'intenzione, per dire il falso basta credere in quel che non esiste, basta un momentaneo bisogno di credere in qualcosa. E poi c'è una cosa che non sai: io questa sera volevo vendicarmi. Per questo ti ho fatto venire fin qui. Volevo farti credere che ci fosse qualche speranza, magari anche giocare un po' con te come credevo tu avessi fatto con me, per poi... Per poi non so. Non potevo immaginare.” “Ricordi cosa ci siamo detti il giorno stesso in cui ci siamo conosciuti?” “Ci siamo detti tante cose.” “Ci siamo detti una cosa soltanto.” “La zattera in mezzo al mare.” “Te ne ricordi ancora.” “Ricordo tutto, Lauro.” “Tranne di quella notte che ci siamo rivisti, l'autunno dopo. Tu stavi già con quel tale.” “E tu con quell'altra. No, te l'ho detto: non ricordavo nulla di quella notte. Forse perché per me non c'è mai stata... L'amore è la burrasca che ti sorprende intanto che sopravvivi su di una zattera in mezzo al mare. Così dicevi allora.” “Sì. E proseguimmo più o meno così: l'amore non è mai una meta, è sempre un punto da cui occorre partire. Ricordi? Dall'amore non si può che partire. Partire o affondare. Partire senza sapere dove ci si troverà il giorno dopo e quello dopo ancora.” “E io che volevo proprio solo partire, non vedevo l'ora. Di perdermi, prima che la vita mi riacciuffasse. Volevo partire con te. E invece mi trovai a partire, sì, ma sola. Ma ti rendi conto? Ci eravamo appena incontrati.” “Come adesso.” “Sì, come adesso. Solo che...” Solo che l'umido che sento sulle labbra mi dice che Margaret è qui, finalmente. Dio, quanto ci hai messo? Apro le braccia e lei vi si lascia andare come cadendo in mare da uno scoglio altissimo. Non ci diciamo nulla; non abbiamo altro da dirci che non sia quest'abbraccio. Poco più in là, Willy non ansima più. Si è fermato, gli occhi lavati dall'angoscia di poco prima, ché per lui il mondo intero è ora nel suo ordine perfetto, con noi due abbracciati nell'abbraccio dello sguardo di lui. Stasera però non cerca di infilarsi fra noi spingendo insistentemente col muso, né ci salta intorno finché non raccogliamo il riccio di peluche che stringe in bocca. Siamo diventati grandi amici, lui ed io. E dire che fu davvero bravo a mascherare la gelosia da indifferenza quando ci venne stancamente incontro, quella notte di otto mesi fa. O meglio quella mattina, ché quando arrivammo qui, a casa di lei, i vestiti erano intrisi dell'odore dell'erba che era il pavimento della chiesa diroccata, e una fessura di cielo di un blu appena più chiaro suggeriva che la notte stava svanendo. E suggeriva anche che il mattino ci avrebbe sorpreso insieme, nudi e distratti in noi stessi, negli occhi nient'altro che l'incomunicabile meraviglia per quella zattera sperduta in mezzo al mare sulla quale avevamo finito chissà come per ritrovarci, piccolo il mare, al fondo di una notte durata dodici anni, senza neanche sapere come, né tanto meno dove andare, ma tuttavia felici di andare ovunque la corrente e il debole remare delle nostre volontà ci avrebbero portato. Prima però che tutto questo avvenisse, lei si chinò e strinse affettuosamente Willy a sé. “Willy, questo è Lauro. È stato tanto cattivo con me, sai? Ma io gli voglio un bene dell'anima.” Willy non si mosse. Come non si muove ora che, dal modo in cui ci fissa, sembra volerci far capire che il primo di noi che scioglierà l'abbraccio che ora siamo porterà in sé la colpa definitiva della distruzione, che solo ora siamo davvero al sicuro, ora che a parlare è soltanto il calore consistente del corpo, che semplicemente cerca il calore di un altro corpo oppure lo respinge, e basta, senza bisogno di tutte quelle ragioni che confondono, distanziano, raffreddano il calore. E difatti restiamo qui, fermi, stretti, zitti, rigidi, a guardare lo sguardo di Willy. Willy che la valigia l'ha sentita ben prima che fosse pronta. Che forse l'aveva sentita già quella notte, e allora magari l'indifferenza un po' troppo ostentata che a me era parsa mascherare la gelosia era in realtà il distacco ricercato di chi vorrebbe non affezionarsi a una presenza che sa irrimediabilmente transitoria. Poi ad un tratto abbassa gli occhi e va verso l'auto. Le gira intorno cercando col naso di penetrarne la verità e torna verso di noi, gli occhi però di nuovo carichi di quell'angoscia che ora neppure la vista di noi ancora abbracciati riesce a dissipare. È lui, Willy, nella frazione infinitesima di uno sguardo, a dirmi che la valigia c'è sempre stata, che l'ha sentita crescere nelle lunghe sere passate tutti insieme sotto l'ippocastano in compagnia di una candela, nelle notti ancora più lunghe in cui pareva l'amore non dovesse conoscere fine, nelle cene preparate insieme a partire da interminabili carezze, nelle frequenti fughe dello sguardo oltre la linea degli alberi, nell'entusiasmo vivace dei discorsi su di un futuro del quale però ultimamente era diventato imbarazzante parlare, nelle telefonate nel cuore della notte un po' troppo furtive per passare inosservate e delle quali tuttavia non si faceva mai menzione, nelle promesse di Margaret che presto tutto si sarebbe sistemato, nella consapevolezza che per chi non è nato cane dodici anni non bastano a perdersi come otto mesi non bastano a trovarsi, perché nulla è più labile del sentimento più forte. “Ma allora mi spieghi perché siamo qui, se perfino una valigia è più forte di noi?” Ci sono domande che sintetizzano tutto il non senso di una vita. Soprattutto se a porle sono un uomo e donna abbracciati davanti a un cane e se quell'uomo e quella donna, cosa che ancora non sanno, da lì a poco capiteranno di nuovo a far l'amore, esattamente come avvenne una notte di otto mesi prima, che seguiva un'altra notte di dodici anni prima, quando sempre, nell'un caso come nell'altro, era dovuta intervenire l'alba a ricordare loro che per dirsi una sola parola, che poi peraltro non seppero mai dirsi, basta la lucida serenità di un attimo soltanto. E meno male che avremmo dovuto ridere, stasera. Così mi hai detto al telefono, poco fa, mentre correvo per raggiungerti dopo quella telefonata agghiacciante. Sì, come ne La grande abbuffata, stavo per risponderti; e invece non ti ho detto nulla, se non che avevo mollato tutto per raggiungerti al più presto e che avrei mollato tutto per seguirti in capo al mondo, perché dodici anni fa ero maledettamente lucido mentre salivo su quel treno rinunciando a te per la promessa di una vita che poi finì in un cumulo di macerie, ed ora sono altrettanto lucido mentre ti dico che non ho paura di rinunciare a tutto per darci la possibilità di essere ciò che vogliamo e possiamo essere. E ciò che fa più male è che queste stesse cose potresti dirle tu a me, anzi me le hai dette davvero tanto tempo fa, perché io in verità le ho imparate da te, che ora invece sei stata a guardare mentre venivano divorate da quello stesso silenzio stupido, leggero persino nella sua desolante inconsistenza, e così laddove c'eravamo noi due insieme su di una zattera in mezzo al mare, ora resta la muta disperazione di noi due che ci teniamo per mano fra le sbarre del cancelletto di una chiesa diroccata, guardando ciascuno oltre le spalle dell'altro. No, nelle ore di bilico non c'è davvero spazio per ridere, salvo non si riesca a raggiungere quello stato di assoluta beatitudine che è il ridere di se stessi. E quindi sì, la domanda è proprio questa: ma allora che accidenti ci facciamo qui, che bisogno avevamo di dirci e di fare e di essere tutte quelle cose se poi la verità è che basta una insignificante valigia a far crollare il mondo? “Perché devi sempre cercare una ragione a tutto?”. La risposta di Margaret, più che nelle parole, è nel filo appena percettibile di fastidio di cui si colora la sua voce. “Perché senza una ragione anche le cose più belle possono codurre alla disperazione.” “Lauro, io sono già disperata.” Il resto, le parole che vengono dopo, sono un arrampicarsi sugli specchi dell'anima, un fare con la punta delle dita tutto l'opposto di quel che le parole, con uno sforzo sovrumano, negano. Racconti creati dagli allievi del VI Stage “Teatro al Castello”- Ass. “Art&Vita”, Castello di Govone, 11 luglio – 1 agosto 2010- Sezione di Tecniche di scrittura narrativa e scenica- Docenti: Giovanna Mulas, Alberto Asero, Lorenzo Rulfo - ( I parte )
Camillo Sbarbaro Taci, anima stanca di godere in: Pianissimo
Da Emergency sez. di Serrenti riceviamo e , con piacere, pubblichiamo: La pace costruita con le armi e quella costruita con l’eguaglianza… Il Sudan finanzierà la costruzione di un ospedale d'eccellenza in Ciad, Emergency si occuperà della sua costruzione, dell'equipaggiamento e della sua gestione. L'annuncio del Consigliere del presidente del Sudan Ahmed Bilal Osman è avvenuto durante la giornata conclusiva del seminario internazionale "Costruire medicina in Africa. Strategia di realizzazione della Rete sanitaria d'eccellenza" organizzato da Emergency in collaborazione con il Comune di Venezia. Sudan e Ciad, paesi che sono stati in conflitto tra loro, hanno trovato una ragione di collaborazione in un progetto sanitario che vuole garantire accesso a cure gratuite e di alta qualità anche agli abitanti dell'Africa. Il gesto di pace ha riavvicinato due Paesi in guerra tra loro fino a pochi anni fa. Un altro ospedale verrà donato al Sudan del Sud, nonostante i timori circa lo scoppio di un nuovo conflitto tra le due parti siano piuttosto fondati. Una strada percorribile che ha suscitato l'interesse dell'Organizzazione mondiale della Sanità, che ieri ha inviato due rappresentanti per seguire i lavori. ll ministro della Difesa in Senato: "Le bombe sugli aerei non servono a proteggere i nostri soldati, ma a non far sentire i nostri militari di serie B rispetto agli alleati". E annuncia che la decisione non verrà sottoposta a votazione parlamentare. Evidentemente EMERGENCY pensa e attua il suo pensiero in maniera diametralmente opposta a quello proposto da Ignazio La Russa, anche perché, parafrasando il Presidente Cecilia Strada, se venisse a visitare i nostri ospedali per vittime di guerra, primo fra tutti l’ospedale di Lashkargah, nel sud dell’Afganistan non riuscirebbe a vedere la differenza tra il bambino nel letto 4, colpito da un ordigno dei talebani, e quello nel letto 7, colpito da una bomba occidentale. Fonte: peacereporter e illazioni di alcuni governanti Giuseppe Romano, Italia MARIANNA La mosca che traccia traiettorie improvvise e senza un senso apparente m’infastidisce e rende pesante anche l’aria che respiro! Il caldo non dà tregua. Tutto appare immobile come se il tempo indugiasse all’interno di questa bottega. Da parecchio non entra più nessuno e le cose giacciono ammassate, come corpi abbandonati in un sonno perenne! Sono seduto dietro un bancone di polvere e tarli, in attesa che la porta a vetri si apra per chissà quale fausta circostanza. Già, Fausto. Come il mio nome che conta solo tre insignificanti vocali ed altrettante consonanti. Fausto, nome alquanto inappropriato! Ricordo mio padre ripetere spesso, forse anche per illudere se stesso, di avere avuto un figlio nato sotto la buona stella! Invece, prima è morto lui, colpito al fronte da una granata; poi mia madre, forse di crepacuore, o per i postumi della tubercolosi. Appoggio la testa al muro e accarezzo la barba incolta da giorni; vaghi presentimenti aleggiano intorno. Mi sento stanco, un senso di vuoto appiattisce i pensieri, anche se Marianna mi guarda e m’ammonisce. « Muoviti, sbrigati, non stare con le mani conserte! ». Sì, d’accordo! Hai ragione tu. Devo muovermi e fare qualcosa per uscire da questo torpore. Guardo e riguardo questi relitti ammucchiati. Mi pare roba amorfa che tento di riportare in vita. Del resto sono un rigattiere! Una vita a comprare e vendere cianfrusaglie, oggetti più o meno di valore, utili in passato e, chissà, magari lo saranno ancora. « Domani ricordati di andare a saldare il conto dal macellaio ». Marianna continua a fissarmi con i suoi occhi azzurro intenso. Marianna mia, mica sono uno stolto. Non dimentico gli impegni! Marianna, fedele ed instancabile compagna! Mi ha sempre seguito, consigliato, rimbrottato sovente, ma mai uno sgarbo, o un dispetto. Ha ragione lei. Devo onorare i conti in sospeso, ovviamente. Ma almeno entrasse un cliente! Mi basterebbe che lo colpisse quella sedia rococò, oppure quello scrittoio luigi XIV. Ecco fatto: quattro, cinquecento euro e l’impegno con il macellaio sarebbe assolto! Peccato che ne ho altri da onorare! « Voli con la fantasia! Resta con i piedi per terra! » Caspita, come mugugna in continuazione questa qui! Intanto l’aria si fa più pesante, il sole picchia. Con questo caldo ne ho di tempo da aspettare. Forse se mettessi un po’ d’ordine, qualche passante potrebbe trovarsi attratto dalla mia piccola vetrina. Mi guardo intorno. L’occhio cade su un’intricata ragnatela all’angolo del tetto. È la prima volta che la noto, eppure ha tutta l’aria di essere lì da un pezzo. Come non fosse una vita che dico a Marianna di fare le pulizie come Dio comanda! Mi scosto dal muro infastidito e comincio a spostare piccoli oggetti alla rinfusa. Il vecchio libro che a un tratto mi trovo in mano cattura la mia attenzione. Dallo spesso strato di polvere che reca ho conferma del fatto che non viene aperto da molti anni; e in effetti non ricordo di averlo mai sfogliato io stesso. Forse per via del caldo sempre più intenso, la mia mente scivola in pensieri contorti, dei quali fatico a cogliere il senso. La rilegatura è di quelle d’una volta, rigorosamente a mano. Sul frontespizio, in grandi caratteri dorati, si legge: Famiglie nobili di Govone. « Muoviti. Lavora sfaticato! » Uffa, non ne posso più. Marianna comincia davvero a innervosirmi. Mi alzo e mi fermo davanti a una specchiera chiazzata di ruggine. Comincio a sfogliare le prime pagine. Quando alzo gli occhi, lo specchio mi restituisce un’immagine di me deformata. Mi vedo invecchiato, gli occhi incavati nelle orbite e le mani che trasudano un groviglio di vene e arterie. Nel riflesso dello specchio vedo un uomo che arranca e si trascina in una grama vita, dove la compagnia di Marianna rimane la cosa più importante. Sempre presente, accorta ed oculata, lei mi arricchisce e mi segue come un’ombra. Ora la luce è più intensa, invade la bottega e dona di insoliti riflessi gli oggetti dimenticati al ricordo degli uomini. Appaiono improvvisamente vivi e si muovono venendomi addosso. Comincio ad avere paura. Lascio correre lo sguardo al di là del vetro, percorrendo la via ripida fino che porta al castello. Mi soffermo a immaginarlo luogo di oscure vicende e fantastiche storie. Fin da giovane amavo giocare nei suoi giardini con i compagni di scuola; fra loro c’era la mia amata Marianna. Fu lì che le diedi il primo bacio, forse il gioco inconsapevole di un amore puerile, maturato col tempo in un sentimento forte, cementato dall’amicizia e dalla complicità. « Ti ricordi quando ti sei perso nei sotterranei? » Marianna, certo che mi ricordo. Fu l’avventura più spaventosa della mia infanzia. Il buio m’avvolgeva, lontane giungevano le vostre voci, col freddo che mi era entrato nelle ossa e anche nell’anima. Mani invisibili mi sfioravano il corpo. « Tremavi come una foglia, quando ti ho trovato riverso nella ghiaia ». Ancora oggi, costeggiando il castello mi capita di sentire come un invito. È come se una presenza aleggiasse fra quelle mura. Improvvisamente uno scricchiolio mi distoglie da quei pensieri. Mi volto di scatto e vedo una sedia di noce antico riversa sul pavimento. Saranno stati i topi, maledetti, a rosicchiare tutto quel legno! Forse. Se non vendo questa roba accatastata i topi me la porteranno via! Marianna, dovrebbe esserci una trappola nel retrobottega. Vedi di sistemarla, altrimenti… « Qua ce ne vogliono mille, non una mio caro Fausto! ». Vado per rimettere a posto quella sedia e poi ritorno a sfogliare il vecchio libro. Inumidisco pagine ingiallite, dai bordi consumati. Quanti nobili a Govone, ciascuno con le sue storie ed i suoi emblemi. In lontananza, intanto, un riflesso dorato attraversa impetuoso il vetro della porta infrangendosi sul viso. Maledizione! Penso. C’è uno strano silenzio che risalta il lento scorrere dei pensieri. Riprendo la lettura. Un dolore improvviso alla tempia mi desta dal torpore. Strizzo gli occhi e casualmente mi soffermo sull’immagine illustrata tra tante pagine ingiallite. Un medaglione d’oro ritrae in un lato geometriche figure, una scritta latina nell’altro. Un sinuoso vagheggiare tra i miei ricordi serpeggia come un tarlo che lentamente scava lunghe caverne nelle viscere. Marianna, aiutami a ricordare! « Come faccio, mio caro? Sei tu l’esperto di questi oggetti ». Già, scusami. Eppure giuro d’averlo visto, forse fra le tante cianfrusaglie degli scaffali, accatastate negli anfratti dimenticati di questa bettola. Mi alzo nervosamente. Mi dirigo in fondo alla stanza e cerco, rovisto tra la roba più disparata, tra cappelli militari, casseruole di rame, coltelli dalle diverse misure, manichini, vestiti, maschere, candelabri e lumi a petrolio. Poi ancora a rovistare come un forsennato, più cerco e più la camicia è intrisa di sudore. Infine rinvengo un cesello, una bilancia di precisione, un misuratore di anelli. Si. Ecco ci sono, forse fra questi strumenti si trova il medaglione che ho visto illustrato nel libro. Se penso bene, quell’oggetto l’ho avuto fra le mani tanto tempo fa, ma non ricordo con precisione dove e quando. Continuo a rovistare, ancora di più, sembro un pazzo scatenato e gli occhi sono diventati di fuoco. Mille oggetti sparsi per terra. Uno scarabeo fugge via spaventato. Ahhhh, eccoti finalmente. Eri proprio introvabile! « Lo avevo detto che solo tu potevi trovarlo! ». Mia cara, sempre a dare sentenze! Lo prendo con delicatezza, tolgo con cura la polvere, lo rivolto per carpirne i segreti. È incantevole! Chissà quanto vale, forse una fortuna, forse. Rifletto. Inspiegabili aliti di vento soffiano nella bottega. Al diavolo tutti i creditori dietro la mia porta! Il barone, Franco il macellaio, il dottor Mencacci e Giulietta Orsini, quell’acida e antipatica vecchia della farmacia “Orsini e figli. Antica erboristeria”. Sbatterei loro in faccia le cambiali accumulate nel tempo! Ritorno sul libro e scruto avidamente l’immagine riportata. Sto un tempo imprecisato a soppesare le due cose, col respiro che si fa lieve, risaltando lo scorrere del sangue sulle tempie accaldate. Si, è quella del medaglione, non ci sono dubbi: è questa! Stessa scritta, stesse figure: la stella di Davide racchiude una piramide; la scritta invece riporta “Cum fide igne et ferro regnum meum inicio in perpetuum. Non ho mai studiato il latino. Tutto combacia perfettamente! Stavo ancora immerso nell’esame del pendente d’oro, quando un lampo improvviso, una coltellata agli occhi, mi colpisce in pieno viso. Proviene dal castello e stavolta una strana sensazione mi dice che non si tratta di un caso. Continuo, comunque, a leggere con interesse ciò che poco dopo mi accappona la pelle. “Il nobile casato degli Arbaudi conta fra i suoi illustri membri una certa donna Lucia, vissuta alla fine del ‘700 e circondata da un alone di mistero”. La lettura si fa più attenta. “Donna Lucia amava circondarsi di maghi e stregoni, fattucchiere e sette sataniche”. Cavolo d’un boia! “Le dicerie, col tempo, si trasformarono in leggenda e si dice, allora, che la sua anima vaghi per il castello a protezione dei suoi segreti e del tesoro nascosto nelle viscere della fortezza. Quel medaglione, sapientemente lavorato da un grande orafo romano di quel tempo, il Sinisgalli, si crede sia la chiave di volta per accedere al tesoro e scoperchiare lo scrigno dei segreti più impenetrabili della contessa”. Sono sconvolto, sudato. Mi alzo di scatto, afferro una brocca d’acqua e verso metà del contenuto sulla testa. Strizzo gli occhi e getto lo sguardo al castello. Un altro bagliore m’investe. Che sarà mai questa storia? Rimango un po’ a fissare il vuoto, scalando le rocce della memoria. Dopo un po’ mi torna in mente una vecchia leggenda che nessuno ha avuto mai il coraggio di sfatare. Da tempo immemorabile nessuno è sceso nelle viscere del castello, abbandonato alla fine della guerra. I tedeschi ne avevano fatto il loro quartier generale; poi la fuga, l’arrivo degli alleati e, infine, l’abbandono, il degrado, l’oblio. Per anni quella leggenda era seppellita tra le crepe dei ricordi. Anche tu Marianna, la ricordavi? Rivolgo lo sguardo al medaglione, luccica ed evoca nella mente storie fantastiche. Mi rituffo nella pagina del libro e cerco altri indizi. Solo altre storie, banali e scontate, nulla che desti la mia attenzione. Stranamente percepisco un fluido che mi percorre le ossa. All’unisono gli orologi a pendolo suonano lo scoccare dell’ora. Le cinque del pomeriggio. Non ho mangiato, lo stomaco si ribella, il sudore mi affligge, mentre la gente passa senza mai degnare uno sguardo alla bottega, del rigattiere Fausto. Mia moglie è di là, sempre nel retrobottega, nella penombra, a non darsi pace per la miseria che ci affligge. Che santa donna sei, dolce Marianna! Io non merito le tue attenzioni, tu non meriti un marito mediocre come me, incapace di darti un’esistenza dignitosa! Era incinta. L’avremmo chiamato Michele, come mio padre! Poi, quel giorno ritornai da un viaggio in città, due giorni appena, e la ritrovai a letto; piangeva, sporca di sangue. Michele non c’era più! « Margherita! Come la regina. Era femmina! ». Sarebbe stato maschio! Non insistere mia cara. Mi siedo e tengo stretto il medaglione d’oro. Di fronte a me, oltre la vetrata, domina il castello dall’alto della collina. Rimango a fissare l’antica fortezza, quasi a cogliere un segnale premonitore. La lancetta corre, risparmiandomi l’estenuante attesa. Quando apro gli occhi il buio è padrone e la fioca luce dei lampioni rischiara di poco l’interno della bottega. Avverto qualcuno spiarmi nell’oscurità della notte. Mi sento intontito e l’arsura provoca un intenso solletico alla gola, quando un’inaspettata folata di vento apre la porta del negozio. Mi precipito a chiuderla. Tornando indietro, però, mi accorgo che il vecchio testo non è più sul bancone. Lo cerco con lo sguardo, frenetico; poi lo vedo nello scaffale dove era sempre stato. Non ricordo d’averlo posato, era lì ancora aperto, quando mi sono appisolato. Non soffro di allucinazioni, non sono pazzo; forse è la fame, può darsi! Nelle mani il medaglione scotta. Un fremito affiora dai polmoni e l’ansietà annega i miei pensieri. Allora decido, non posso più aspettare e consumarmi nell’indecisione; il castello mi aspetta, forse da una vita, da tanto e troppo tempo, fin da quando mi ero perso da fanciullo nei suoi più inaccessibili meandri. « Stai attento, non cacciarti nei guai ». Marianna so quello che faccio. Voglio vincere le mie paure e ritornare in quei luoghi per scoprire quel tesoro che potrebbe cambiare la nostra vita! Suona il campanile: ventitré in punto. Prima di chiudere bottega saluto mia moglie, che mi osserva ansiosa. Le mando un bacio e le dono un sorriso rassicurante. Intraprendo la faticosa salita su per la collina. Il cielo è stellato, le ombre della notte inghiottono anche le mie paure; dinnanzi il castello s’avvicina lentamente. Ne distinguo i contorni, riconosco i torrioni, il corpo centrale. Le sue ali, come due navate, sprofondano nel ventre della terra. Il giardino è un nugolo di braccia ramificate protendersi verso me. Tentano di afferrarmi. Al centro un’enorme quercia m’invita ad addentrarmi senza esitazioni. Mi fermo lì, col cuore che pulsa in gola, col respiro sempre più asmatico. Il medaglione è in tasca. Alzo gli occhi e osservo l’imponenza della struttura e avverto un senso di dolce abbandono a se stesso. Qua e là rumori di allocchi, pipistrelli, insetti, voraci zanzare, un mondo che di giorno è difficile osservare. Un alone di presenze aleggia intorno. Sento la terra fremere sotto i piedi, impaziente di accogliermi nella sua pancia. Accetto l’invito e riprendo il cammino. Strane esistenze attorno a me, ma non riesco a distinguerne nel buio la consistenza. Cammino, fino ad arrivare ai piedi dell’edificio, davanti a una finestra senz’ante, priva di vetri, dove giungeva un puzzo nauseabondo. Scavalco come allora, ma con più fatica, quanto basta per accedervi dentro. Ecco, sono all’interno di una grande sala, spoglia, priva di qualsiasi identità, forse teatro di antichi fasti; il luogo appare immensamente grande, disadorno, la sensazione però è che occhi invisibili mi osservano nell’incerto procedere. Cammino a tentoni, sforzando la memoria, aiutato da una vecchia torcia. Attraverso un lungo corridoio, ai lati del quale si diramano molteplici stanze, tutte vuote, al buio, esposte al vento, tra grovigli di ragnatele ed insetti. Stridono le scarpe su vetro in frantumi e inciampo in mattoni sollevati da terra. Un gatto mi sfiora, veloce, spaventato; subito dopo un sollevarsi di miagolii e mille altri rumori che non riesco a decifrare. Un alito di vento come un sussurro mi sfiora il collo. Mi volto di scatto, vedo un luccichio in fondo ad una stanza. Con gli occhi seguo la sua scia, prima ancora di seguirla con il corpo; la vedo scomparire verso il basso. Mi addentro in quel luogo e percepisco il velluto delle pareti, dalla tinta forte. Una sedia trasandata si frappone al mio passaggio. Il tremore delle mani non m’impedisce di andare avanti, allora cammino e giungo fin dove quel luccichio è svanito. C’è una scala a chiocciola, un imbuto di pece, che scende in basso, dove proviene una ventata di forti odori. Con la torcia illumino le strette pedate della scala, con circospezione m’inabisso verso il buio ancora più fitto e lentamente intuisco d’avere imboccato il percorso giusto per giungere nei sotterranei. La lunga discesa è interminabile, forse due, o tre piani sotto; ma più scendo, maggiore è la sensazione di umido, il freddo che penetra le ossa. Investo ragnatele che al passaggio si sfilacciano sul viso. Inciampo sull’ultimo gradino, quasi a cadere a terra. Una fitta dolorosa alla caviglia. Mi ritrovo in un angusto atrio, odore di urina irrita le narici. Antiche torce spente, fissate alle pareti, scoprono un altro passaggio. Ancora un rumore misterioso richiama la mia attenzione; a destra scopro una grande porta di legno, due leoni di pietra sono a guardia dell’apertura e varie incisioni sono poste a decoro della stessa. I contorni del posto sono indefiniti. Noto una scritta all’interno di un rilievo sul legno, parole che avevo visto da qualche parte. Con frenesia estraggo il medaglione e confronto le incisioni: sono uguali. Ci sono! ho intrapreso la via che mi porta a chissà quali segreti, chissà quale tesoro! Mariannina mia, vedrai che stavolta non ti deluderò! Appoggio il pendente sulla scritta e tutto combacia. D’incanto la porta si apre stridendo sui cardini, stridendo forse anche nell’anima. Una sensazione indicibile m’attraversa il corpo come mille aghi infilzati sulla pelle! Con la mano allontano le numerose ragnatele e mi ritrovo in una grande stanza, buia, senza aperture, muri spessi e umidi. Lacrime di rugiada gocciolano dal tetto fino al pavimento, la brina scivola via dalle pareti, quasi volesse baciarne le levigate superfici. Mi sento dentro un enorme sarcofago, imprigionato e prigioniero di chissà quale maleficio; tutto è così fitto che anche il buio appare come un lembo dipinto su una tela invisibile e amorfa. A malapena la torcia rischiara l’ambiente e così un fascio di luce scopre una struttura simile ad un monumento funebre, un’antica tomba, luogo in cui i nobili amavano deporre i loro morti e compiangerli lontano dal popolo. La sepoltura è posta al centro, circondata da sette cani alati e altrettanti esseri immondi, putti spaventosamente storpiati e in pose aggressive. Mi sento le braccia pesanti, la schiena infilzata da infinite lame, i piedi fondersi col pavimento, la testa assumere sinuose protuberanze, quasi fossi una palla di creta da plasmare. Fatico a percepire lo spazio, a distinguere il labile confine fra me e l’ambiente. Affogante! A fatica mi chino, rischiarando una scritta incisa su marmo: Lucia Arbaudi delle Grazie- 1768/1798. In basso un’altra scritta riporta: Cum fide igne et ferro regnum meum inicio in perpetuum. Sempre quella. Non so cosa vuol dire! A quel punto il corpo appare un’accozzaglia di organi a sé stanti, uniti appena da una logica impenetrabile. Il tremore si fa più intenso, la paura m’annebbia le idee. Improvviso si elevano voci echeggianti nella grancassa della stanza e tonfi dal cupo presagio scuotono il pavimento. Folate di vento mi travolgono come colpi di mazza, improvvisi bagliori simili a saette illuminano il locale. Ora non so più cosa fare, la presenza di entità tenebrose è palesa e minacciosa. Mi sento toccare da mani infinite, sfiorato da aliti freddi come il ghiaccio, accarezzato da spine d’acciaio e unghie affilate come artigli. Provo a rimettere il medaglione in tasca, preservarlo alla furia di forze occulte; ma una mano invisibile, fredda come il gelo e calda come una fornace, mi blocca il braccio pietrificandolo. Allora il corpo comincia a indurirsi, poi a creparsi in mille anfratti, infine a sfiorire della sua linfa vitale. Sento lentamente perdere coscienza, entrare nel torpore dell’eclissi. Morire. Solo il pensiero di Marianna combatte questo stato fisico, lei mi torna alla mente e alimenta la fiammella della vita. Ti avessi ascoltato! Per che cosa avrei dovuto cercare il tesoro? Per soldi, avidità, sete di potere? O solamente per dimostrarti che non sono un incapace? Che sciocco! Ho paura, non so come salvarmi. Cade una lacrima, allora, fino a toccare la mano che trattiene forte il medaglione. È colma di disperazione e angoscia. Avverto le dita muoversi lentamente, di quel tanto che lasciano cadere giù il pendente d’oro. Come un vortice infernale sento un tonfo più forte di prima, un risucchio nel terreno quasi a lambirmi, una spirale di suoni e sensazioni che convergono all’interno del sepolcro, risucchiando il medaglione d’oro, per poi, alla fine, richiudersi ermeticamente. Dopo il silenzio assoluto. Di colpo mi sento libero di riaffiorare dal bordo di un precipizio, per riabbracciare la mia Marianna, riassaporare la grama vita di sempre, lontano da illusioni, inganni e apparenze. Scappo. Fuggo via lontano dal castello, lontano dalla stoltezza che si era presa gioco di me. Con passo svelto quel luogo è sempre più distante, rimpicciolisce alle mie spalle. Non mi giro neanche a guardarlo. Avvolto da presenze ombrose, nei miei occhi è dipinto il terrore della morte! Ora sono qui, davanti a te Mariannina mia, nella pace di questo retrobottega. La tua immagine è sempre stata uguale negli anni, intimamente umile ed accorata, saggia e ribelle. La mia vita non avrebbe senso senza te, anche dopo la lunga malattia che ti ha portato via, gettandomi nella solitudine. Sono sempre stato un debole, mentre tu sei il faro che mi conduci tra i flutti. Ma questa notte no. Ho avuto coraggio e ho sconfitto i miei fantasmi! Continuerai a guidarmi da lassù cara Marianna, anche se non ho un tesoro da donarti. Ma sì, al diavolo ori e ricchezze! Buona notte dolcezza mia. « Buona notte, Faustino! ». Racconti creati dagli allievi del VI Stage “Teatro al Castello”- Ass. “Art&Vita”, Castello di Govone, 11 luglio – 1 agosto 2010- Sezione di Tecniche di scrittura narrativa e scenica- Docenti: Giovanna Mulas, Alberto Asero, Lorenzo Rulfo - ( I parte )
Rodolfo AlonsoBuenos Aires, Argentina – 1934
Per vivere qui io parlo dell'amore una cosa possibile del tuo amore del mio amore per strada nel vento nel mondo dentro la parola Versione di Carlos Sánchez Attilio BertolucciSan Lazzaro, Parma, Italia - 1911 – 2000 La neve
Come pesa la neve su questi rami
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