IN NOME DI VIRGILIO

di Sebastiano Saglimbeni

Mostra a Mantova fino al 8 gennaio 2012


Il prossimo 8 gennaio si concluderà la mostra che Mantova ha dedicato nelle sale del Palazzo Te al suo (e di tanti) poeta Virgilio. La gente, non molta, che dalla città e da fuori ha usufruito della singolare silloge iconografica non pare sia rimasta più di tanto rifatta. Chissà che cosa si sarebbe atteso. La mostra, a parte questa considerazione, un’ occasione per la memoria di uno dei più grandi poeti della latinità che il tempo, di oltre duemila anni, non ha ancora offuscato. Vale, pertanto, ricordare, a chi vorrà cercare ogni giorno nella lettura un amico, le mirabili traduzioni nella nostra lingua della scrittura virgiliana, ad iniziare dal remoto Annibal Caro sino ai contemporanei Luca Canali e Rosa Calzecchi Onesti. La mostra, ripeto, un’occasione, che mi motiva (non vorrei sembrare in cattedra) a ricordare, in breve, l’opera di Virgilio. Le Bucoliche, il suo primo atto poetico, costituirono in Roma un genere nuovo, che proverà, secoli dopo, fra altri, a scrivere in latino, con tanta raffinatezza, Dante Alighieri. Le Bucoliche sono dieci egloghe(“poesie scelte”) che vennero composte tra il 41 e il 39 a. C. e divulgate nel 37. Di una poeticità lirica alta la IX egloga. Racconta dei due pastori, Licida e Meri, che si incontrano sulla strada di Mantova. Si lamentano che i nuovi proprietari, stranieri, abbiano cacciato i vecchi contadini. Fra l’altro, Licida invita Meri a cantare vicino al sepolcro di Bianore, il fondatore di Mantova, troppo vicino alla misera Cremona (miserae nimium Cremonae), le cui terre vennero divise tra i veterani. La città era stata dalla parte di Bruto e Cassio. Il poeta trentenne, subito dopo, si dedicò, per sette anni, alla composizione delle Georgiche, opera in quattro libri, conclusa nel 30 a. C. Era il tempo della campagna militare di Cesare Ottaviano in oriente, che il poeta esalta nel IV libro, negli ultimi esametri che recitano: “Haec super arvorum cultu pecorumque canebam/et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum/ fulminat Euphratem bello…” (Questo mettevo in poesia sulla cura dei campi, del bestiame/ e degli alberi, mentre il grande Cesare nel profondo Eufrate fulmina in guerra...). Nelle Bucoliche autobiografia, le tristi esperienze del poeta per la confisca del suo podere che poi riottenne, grazie alla sua nascente fama di poeta e alla protezione che Augusto gli accordò per intercessione di Asinio Pollione, Cornelio Gallo e Alfeno Varo, ricompensati con versi nel componimento. Protagonisti i pastori, che suonano e si innamorano, si sfidano con il canto, quindi le stagioni, gli astri, i venti, il sorgere e il tramonto del sole, le piante, i corsi d’acqua, gli animali, la vita vegetale, nutrimento dell’uomo. Mario Geymonat ricorda in un suo scritto, un’introduzione ad una delle tante traduzioni delle Bucoliche, a firma di altri, che la tempestiva popolarità del componimento è “attestata da un curioso aneddoto raccontato da Tacito (Dialoghi degli Oratori, 13): il popolo, dopo aver ascoltato in teatro la recitazione di un’egloga (forse la sesta), si alzò in piedi davanti al poeta, che era casualmente presente, e gli tributò una vera ovazione, come fosse l’imperatore”. Le Georgiche è un canto arduo, di superamento delle Bucoliche, sollecitato da Mecenate, il consigliere di Ottaviano, per celebrare, dopo le terribili guerre, l’agricoltura, fonte di vita economica. Il poeta sviluppò liberamente il tema, mentre soggiornava in Campania, ad Atella, dove s’era recato Ottaviano per curarsi un mal di gola. Durante quattro giorni, il principe si fece recitare l’intero poema, e ogni qualvolta che la voce del poeta si affievoliva veniva sostituita da quella di Mecenate. Virgilio per la composizione dell’opera si era aggiornato sui trattati di agricoltura scritti in Grecia e in Roma. Nelle Georgiche, la coltivazione della terra, durante le stagioni, la coltivazione delle viti , che sono piante delicate e richiedono cura, non quanto l’ulivo, l’allevamento del bestiame e delle api, produttrici del sublime miele. Da questo secondo atto poetico emergono l’intero cuore e l’intera mente di Virgilio, cuore e mente meno intesi per le Bucoliche e l’Eneide. Le Georgiche , una sorta di tributo di affetto ai contadini vessati delle terre mantovane e del resto della nostra penisola. Si parlò delle Georgiche comprendenti l’ italica terra unificata e il mondo intero unificato. Qui la grandezza e la lungimiranza, che non si addicevano ad un “cortigiano”, ma ad un poeta. L’ Eneide, scritta dal 29 a. C. al 19, in dodici libri, prima in prosa e , dopo, verseggiata, venne esaltata, prima che fosse divulgata, da Properzio, altro poeta, fertile di pura sensibilità elegiaca, con le parole che recitano: “Cedite, Romani scriptores, cedite Grai:/ nescio quid maius nascitur Iliade”( Indietro, Romani scrittori, indietro Greci scrittori:/ una cosa sta per nascere più grande dell’Iliade). Secondo la tradizione, Augusto avrebbe proposto al poeta, che aveva tanto protetto, il poema con il fine di celebrare la gens Iulia, discendente da Iulio, il figlio dell’eroe troiano Enea. Non si contano gli studi su questo poema, di cui allora, come nel nostro tempo, erano prediletti il secondo, il quarto e il sesto libro, dai quali emergono l’inganno umano, la fine tragica di una civiltà, le tante morti, l’esilio, la passione bruciante di una donna, la sua fine disgraziata, e la fine di ogni mortale, debole e potente, vecchio e giovane, nel regno dei morti. Virgilio, che prediligeva i giovinetti, vi colloca le ombre di costoro, che “ abstulit atra dies et funere mersit acerbo( un nero giorno portò via e sommerse in una morte immatura), e l’ombra suggestiva di Didone che tiene gli occhi fissi al suolo al cospetto di Enea sceso nell’Averno. Per inciso, quel “funere mersit acerbo” venne ripreso da Giosue Carducci per intitolare un suo testo poetico che parla della morte del figlioletto. Virgilio sul letto di morte aveva chiesto che fosse distrutta questa sua fatica perché la riteneva imperfetta e di un tema bellico che non gli si addiceva, perché in guerra, gli uomini “uccidevano alla pari e soccombevano alla pari, / vincitori e vinti (caedebant pariterque ruebant/ victores victique). La scrittura di Virgilio, infine, soavissima e di inimitabili accenti, di cui ho fatto cenno, complice la mostra a Mantova, oggi, se riletta, in luogo di consumazioni verbali vacue e venefiche, ci ridà il valore della parola autentica, che è stata soffocata dal vaniloquio presuntuoso che ci propinano spesso i mezzi di comunicazione e che accetta, vuole tanto pubblico dalle forti crisi mentali.



Mercoledì 28 Dicembre,2011 Ore: 17:28