Meditazione per il giorno di Pasqua

di Alessandro Esposito

Ed essendo giunta l’ora sesta, si fece tenebra su tutta la terra, sino all’ora nona. E all’ora nona Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì: lemà sabactani?» che tradotto significa: «Dio mio, Dio mio: perché mi hai abbandonato?». Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Vedi? Chiama Elia». Essendo dunque accorso qualcuno, inzuppata una spugna d’aceto e postala in cima a una canna, gli dava da bere dicendo: «Aspettate: vediamo se viene Elia a toglierlo». Allora Gesù, emesso un forte grido, spirò. E il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso. Allora il centurione presente di fronte a lui, visto che così era spirato, disse: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio» (Marco 15:33-39)

In questo tempo di passione abbiamo provato a sostare insieme con Gesù nel Getsemani, alle porte di Gerusalemme, tra gli ulivi secolari. Continuando a seguirlo in quello che, questa volta, è uno spostamento forzato, ci troviamo sul Golgota, il luogo in cui, sempre fuori delle mura che cingono la città antica, quel venerdì che precedeva la Pasqua ebraica furono innalzate tre croci. Marco avvolge la scena, drammatica, solitaria, nelle tenebre: tutto si svolge nell’oscurità, che è oscurità dei cuori assai prima che del cielo. Ed è buio fitto anche nell’anima di Gesù, che prorompe in un grido che, sino ad oggi, risuona a scuotere e a provocare la nostra fede: «Dio mio, Dio mio: perché mi hai abbandonato?». Quella che in apparenza parrebbe una domanda, cela in realtà un’affermazione fortissima, disarmante: Dio mi ha abbandonato, dice Gesù senza tentennamenti. Quel che si domanda, visto che non si aspettava quest’abbandono, è perché ciò sia avvenuto: sul fatto che Dio sia d’improvviso assente, latitante, Gesù, invece, non ha dubbi.

Sovente un’immagine divinizzata di un Gesù onnisciente che, padrone di sé e della vicenda che lo travolge, va incontro alla morte con serenità e consapevolezza, alieno da ogni turbamento, è quella che ci è stata propinata: di qui, inutile dirlo, discende quella mistica della morte, quell’esaltazione di un cristo sofferente che ha condotto buona parte delle tradizioni ecclesiastiche, in primis quella cattolica, all’«adorazione della croce». Eppure, stando al racconto di Marco, la sofferenza e la morte sono affrontate da Gesù con paura e rigetto: già nel Getsemani chiedeva al Padre: «Allontana da me questo calice». Si tratta di una richiesta esplicita, chiarissima: Gesù ama la vita, con i sensi e con le viscere; ed anche il Dio in cui crede è un Dio della vita, non della morte. La morte spaventa Gesù che, in tutti i modi, la rifugge, la allontana. Eppure Dio non gliela risparmierà. Qui ci troviamo di fronte all’abisso insondabile della fede, a quell’incomprensibilità che, davvero, non può che essere affrontata, sebbene non risolta, con la fede: Dio, quel Dio che un Gesù inchiodato al legno inchioda con la sua domanda, non interverrà, non toglierà Gesù dalla croce. Qui, davvero, si gioca tutta la nostra fede, perché qui la nostra fede e la nostra vita sperimentano, attonite, il silenzio di Dio ed il grido senza risposta dell’innocente. Anche chi stava sotto la croce, incredulo, attendeva un segno: perché se sul legno c’è un giusto, Dio stesso interverrà con potenza per salvarlo. Ma il Dio di Gesù e Dio nostro non è un Dio dell’evidenza ma un Dio del nascondimento, un Dio che, non visto, rimane insieme con noi, prostrato, trafitto, di fronte alla croce. Di più: Lui, solo, è Colui che, invisibile, sta con Gesù su quella stessa croce, il petto, come quello del figlio, dilaniato, il cuore straziato. E di fronte al figlio e di fronte a Sé chiama noi a restare.

Eppure noi, perfetti eredi di quei discepoli fuggiti in preda al panico e allo sconcerto, di fronte alla croce non sostiamo: vi passiamo davanti gettando appena uno sguardo, spettatori distratti che già conoscono il finale e che, pertanto, sanno di non doversi preoccupare più del dovuto. La croce? Un incidente di percorso: nell’ultima scena del film Dio interverrà a sancire il lieto fine. Questo, in fin dei conti, è il nostro atteggiamento: un sostanziale disinteresse alimentato dalla consuetudine ormai millenaria con cui ripetiamo credenze e atteggiamenti senza più riuscire a sentirli e, quindi, a comprenderli. Non siamo più capaci di avvertire l’abisso dell’abbandono o, se lo percepiamo un istante, tendiamo a spostarci il più in fretta possibile verso il sepolcro, per guardare, soddisfatti e rassicurati, la pietra rotolata via dall’ingresso. Invece, per afferrare il senso più profondo della resurrezione, di questo evento a cui, in verità, stentiamo a credere, dobbiamo sostare di fronte alla croce: non per adorarla, ma per avvertire il turbamento, che fu quello di Gesù, di un finale tragico, amaro, in cui Dio sembra indifferente di fronte alla sofferenza del giusto o, nella migliore delle ipotesi, impotente. Questo è lo sconcerto che deve coglierci prima di avviarci verso il sepolcro: questo il dubbio che deve attraversarci, a scuotere sin dalle fondamenta una fede altrimenti fragile, che oscilla non appena venga colpita, il che è inevitabile, dalla prima avversità. Col dubbio, se non vogliamo mentire a noi stessi, siamo chiamati a convivere: Gesù stesso lo esprime a gran voce, lo fa trapelare, lo porta sulla soglia di quel cielo dal quale il Padre sembra assistere inerte al supplizio di chi lo ha amato con la vita e con i gesti, affidandosi a Lui senza riserve. Gesù muore con il dubbio di aver riposto male la sua fiducia, di aver predicato e vissuto un’illusone, come tutte le illusioni amara, disarmante.

Questo è il rischio a cui ci espone la fede in un messia sconfitto agli occhi del mondo, in un cristo sofferente, che sulla croce sperimenta, come accade anche a noi nella vita, l’abbandono di Dio che segue quello, non meno doloroso, degli amici. L’evangelo, che ci mette di fronte alla vita in tutta la sua irrisolta drammaticità, ci racconta di questo: non vende fumo, non propone la ricetta del superamento del dolore e della sua insensatezza, ma invita all’attraversamento, difficile, faticoso, della sofferenza che è la radice amara e non aggirabile dell’esistenza. Una sofferenza che non va esaltata, ma nemmeno ignorata fino al momento in cui, inevitabilmente, si affaccerà sulle nostre vite, a scuoterle, a lacerarle. Con questo passaggio obbligato, ci dice l’evangelo, è bene fare i conti, perché una fede che intenda eluderlo presentandosi come soluzione a ciò che, in verità, non affronta e non insegna ad affrontare, è illusoria, «oppio dei popoli» come, opportunamente, la definiva Marx e, quel che è peggio, oppio delle coscienze, maschera che occulta il volto d’ombra che ogni verità porta con sé. La croce è l’ombra gettata sulla nostra fede perché essa non diventi stanca abitudine, vuota ripetizione di atteggiamenti e di credenze. La croce è il luogo dove la fede in Gesù e nel Dio suo e Dio nostro viene esposta al dubbio radicale, al rischio del fallimento, al dramma dell’illusione: lì la fede viene messa a nudo e lì soltanto, più e prima che davanti al sepolcro, può nascere davvero. Marco ce lo fa comprendere attraverso le parole del centurione romano che, pur pagano, pronuncia quella confessione di fede che i discepoli, assenti, non possono compiere: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio». Sovente ci si sofferma su queste parole che, però, per essere comprese nella loro profondità, vanno lette alla luce di quelle che le precedono.

Il centurione, infatti, le pronuncia dopo aver visto che Gesù «era morto in quel modo»: abbandonato, attraversato dal dubbio, percosso, schernito, umiliato. In quest’immagine, dove più è difficile scorgere la traccia di un dio e la parvenza di un senso, qui e non altrove, il centurione compie il riconoscimento che è richiesto al discepolo e che noi discepoli siamo incapaci di compiere: confessa che Gesù è figlio di Dio non di fronte all’evidenza della resurrezione, ma davanti allo scandalo dell’abbandono e della sofferenza inflitta e subita. Lì, dove sembra impossibile scorgerlo, c’è Dio: e questa apparente assurdità non può essere confessata che dalla fede. Una fede che non è monopolio di quanti si dicono credenti, ma che, al contrario, si offre a quante e quanti sono disposti a sostare dinanzi alla croce perché vogliono credere che non sia lei l’ultima parola sulla vita dei giusti: perché vogliono vedere oltre senza poterlo fare, sperare senza quelle garanzie che, in verità, abolirebbero la fede, credere di fronte all’assenza di ragioni convincenti e in presenza soltanto del silenzio di Dio in risposta al grido dell’innocente. Qui nasce la fede, qui vacilla sin dalle radici e, in questo vacillare, diviene salda perché inquieta. Qui soltanto diventiamo capaci di affinare i sensi e di dare anche al silenzio di Dio quel senso nascosto di cui ci parla, in modo commovente, Luigi Pareyson:

«Lungi dal poter essere accusato del male del mondo, è Dio che piange per il male del mondo, e certo ne soffre e ne piange assai più di quanto non ne pianga o ne soffra l’uomo (…) E forse il silenzio di Dio, che è così terribile per l’uomo gettato nel baratro della sua angoscia, non è il silenzio di chi tace perché non c’è, o perché abbandona, ma di chi tace perché piange, e tace, appunto, per piangere»

(Tratto da: Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 221)

[Domenica 31 Marzo 2013 – Pasqua di resurrezione Alessandro Esposito]




Sabato 30 Marzo,2013 Ore: 19:50