IN CAMMINO PER LA PACE E LA NONVIOLENZA
SULLE ORME DI GIOACCHINO DA FIORE E FRANCESCO D’ASSISI

di Raffaello Saffioti

IN PREPARAZIONE DELLA MARCIA PER LA PACE A SAN GIOVANNI IN FIORE DA JURE VETERE ALL’ABBAZIA FLORENSE


Armi cambiate in falci e aratri
E in realtà, l’organizzazione ecclesiastica non è stata creata ad altro,
se non a pascolare e ad istruire quel popolo che si dice cristiano.
Dica dunque, anche ora, la Verità nelle Scritture alla Chiesa di Pietro
ciò che disse in persona allo stesso Apostolo Pietro:
Riponi la tua spada nel fodero”.
Se la Verità non volle difendere se stessa con le armi,
ritieni tu di poter difendere la tua libertà,
anche se giusta e in nome della fede, con una legione di armati?
Fa’, dunque, ciò che puoi, finché lo puoi, con le armi spirituali.
Se non puoi vincere con queste, mettiti da parte.
Dopo la caduta di questo Anticristo, vi sarà sulla terra giustizia e abbondanza di pace:
e dominerà il Signore da un mare all’altro, dal fiume fino ai confini del mondo.
Allora gli uomini trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci.
La gente non sguainerà la spada contro i propri simili,
e nessuno si addestrerà più alla battaglia.
Anche i Giudei e molti popoli infedeli si convertiranno al Signore,
e tutto il popolo gioirà nella bellezza della pace.
GIOACCHINO DA FIORE
PERCHE’ UNA MARCIA PER LA PACE
Nella città di Gioacchino da Fiore quest’anno si è visto rivivere lo spirito profetico della Calabria, dopo la manifestazione “La Scuola ripudia la guerra” che ha avuto luogo il 22 maggio scorso e alla quale hanno dato vita tre classi della Terza Media della Scuola “Gioacchino da Fiore” con l’insegnante di Religione, Maria Smeriglio, col ruolo di regista e conduttrice.
Nei mesi successivi si sono avute altre manifestazioni, dalla scuola alla città, seguendo le orme dell’Abate Gioacchino, documentate anche dagli articoli pubblicati dal giornale on line “il dialogo” (www.ildialogo.org).
Nel corso di quelle manifestazioni è stata concepita l’idea di una Marcia per la Pace da Jure Vetere all’Abbazia Florense di San Giovanni in Fiore, da realizzare alla fine dell’anno scolastico.
Sul “Perché le marce della Pace?”, ALDO CAPITINI (1899-1968) scrisse:
Perché le marce della Pace? Non basterebbe uno scambio di idee, un comizio, un giornale?
Le marce aggiungono altro: sono un accomunamento dal basso e nel modo più elementare, che perciò unisce tutti, nessuno escludendo: sono un’estrinsecazione fisica disciplinando il corpo ad un’idea che si serve pensando a tutti, non sono di combattimento ma di apertura, e non sono di costrizione o di evasione, perché intravvedono la terra e il paesaggio associarsi ad una salvezza universale imminente1.
Jure Vetere, cioè “Fiore antico”, è così detta la contrada “per indicare fuori dubbio il primo nucleo di vita florense, messo su da Gioacchino”, e in essa “rimangono tuttora le fondamenta e le mura perimetrali di un complesso monastico” (Francesco D’Elia, 1999).
RICORDANDO LA PRIMA MARCIA DELLA PACE PERUGIA-ASSISI DEL 24 SETTEMBRE 1961
Sono trascorsi 52 anni dalla prima Marcia della Pace Perugia-Assisi, inventata da Aldo Capitini.
Quella Marcia segna una tappa fondamentale della storia della pace e della nonviolenza moderna.
Aldo Capitini, che introdusse Gandhi in Italia negli anni Trenta del secolo scorso, a ragione viene considerato il padre della nonviolenza in Italia e annoverato tra i padri fondatori, appunto, della nonviolenza moderna.
In questi 52 anni l’Italia e il mondo sono profondamente cambiati.
Il ricordo della prima Marcia della Pace in Italia serve per la conoscenza storica.
Richiamando i tempi e le condizioni in cui si svolse quella Marcia, con gli scritti dello stesso Capitini, si comprendono i cambiamenti che sono avvenuti e il cammino fatto dall’idea della pace.
La conoscenza storica è la migliore premessa per proseguire quel cammino.
La Marcia tra LE TECNICHE DELLA NONVIOLENZA
Capitini concepì la prima Marcia e l’organizzò in collaborazione col “Centro di Perugia per la nonviolenza” e con l’aiuto di un Comitato.
Capitini scrisse:
Forse da secoli in Italia non era stato parlato così apertamente della ‘nonviolenza’ in modo popolare, dopo che i supremi insegnamenti di Gesù, dei primi cristiani, di San Francesco, sono stati avvolti, temperati o sottoposti a altri insegnamenti di legittima difesa, di grandezza della patria, di sottomissione all’autorità e perfino di guerra coloniale, enunciati dall’altare.
Nel 1221, in piazza dell’Arengo a Rimini, i terziari (laici) francescani opposero all’invito del podestà di prestare il giuramento di fedeltà, che implicava l’impegno d’impugnare le armi al comando degli organi dello stato, ‘di non potere né combattere né portare le armi, sia di offesa che di difesa; perché essi volevano la pace con gli uomini e con Dio, conquistandola con opere di bontà, trasformando il male che è nel mondo in bene’.
Cinque anni prima che morisse Francesco d’Assisi, ecco apparire modi di obiezione di coscienza.
Ci sono state critiche e rifiuti perché la meta era Assisi, come se noi facessimo concessioni al potere cattolico o compromessi con la religione tradizionale. Collegare San Francesco e Gandhi (avvicinamento che in Oriente si fa molto spesso) voleva dire sceverare l’orientamento nonviolento e popolare dei due dalle circostanze e dagli atteggiamenti particolari; ed era anche uno stimolo a far penetrare nella religione tradizionale italiana, come è sentita dal popolo e soprattutto dalle donne, l’idea che la ‘santità’ è anche fuori del crisma dell’autorità confessionale: la marcia doveva anche servire a questa ‘apertura’ (e difatti il nostro Centro ha diffuso il giorno della marcia tremila copie di un numero unico su Gandhi); quando tra il popolo più umile, e tanto importante, dell’Italia si arrivasse a mettere il ritratto di Gandhi in chiesa tra i santi, avremmo quella riforma religiosa che l’Italia aspetta dal Millecento, da Gioacchino da Fiore.
Il prefetto di Perugia aveva mandato alle amministrazioni comunali e provinciali una circolare proibendo di portare alla ‘Marcia della pace’ i gonfaloni della città.
Come le gerarchie ecclesiastiche avevano dato ordine al clero di non partecipare, e nelle chiese era stato detto che quella era una marcia comunista e paracomunista da evitare …
… Proprio settecento anni orsono da Perugia partirono quelle processioni religiose dei ‘Laudesi’ che, al sommo di una tensione religiosa, manifestavano un sentimento ‘dal basso’ che era maturato in decenni di alta spiritualità dalla predicazione francescana.
Realmente la Marcia è stata un’altra prova (e non sarà la sola) di quell’insieme di apertura religiosa umana e di esigenza di trasformazione sociale che fu così vivo in Umbria nel Duecento e Trecento, in grandi movimenti e in grandi lotte.
C’è stato chi ha scritto che si è sentito ‘qualche cosa di nuovo’ nella Marcia.
Io credo sia soprattutto questo insieme sociale religioso che ritorna per allargarsi nella nostra storia attuale.
Ecco che, a fatto avvenuto, si possono vedere le ragioni profonde della Marcia.
Essa è stata un atto importante, forse una svolta, nel nostro paese.
La Marcia è stata una manifestazione ‘dal basso’, che ne ha cominciate tante altre, per isolare i nuclei militaristici e reazionari.
Con l’unione stabilita tra i pacifisti e le moltitudini popolari, si è presentato un metodo di lavoro non più minaccioso di violenza, e nello stesso tempo si è avviata un’unità che è la massima che si può stabilire in Italia: quella nel nome della pace.
Si è avviato un moto degli strati più profondi e dei sentimenti fondamentali del popolo italiano, un moto che non è senz’altro politico o di classe, ma è la premessa e l’addentellato per ogni lotta ed ogni educazione che voglia svolgersi in Italia per contrastare il patriottismo scolastico diffuso dai nuclei nazional-militari, e, insieme il borghesismo edonistico che si ritrae da ogni lotta civile e sociale per la fruizione del benessere promesso dal neocapitalismo.
La lotta per la difesa e lo sviluppo della pace porta preziosi elementi di coesione dal basso contro l’individualismo e il conformismo e per di più associa di colpo le donne, le famiglie, prima delle lotte politiche.
E con l’accento posto sul superamento dei metodi violenti, sull’apertura e sul dialogo, non solo sollecita la nostra democrazia, e qualsiasi altra, ma preme sulle religioni esistenti, e particolarmente su quella tradizionale, perché sia messo in primo piano il rapporto nonviolento con tutti gli esseri.
Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle non collaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia, durante la quale abbiamo distribuito tremila copie di un pieghevole di quattro pagine sulle idee e il lavoro del Centro per la nonviolenza.
Tanto più dopo gravissime denunce del pericolo di una distruzione atomica, l’impostazione di un altro metodo di lotta, quello nonviolento che mantiene il dialogo, la libertà di informazione e di critica e non distrugge gli avversari, diventa urgente; ed io credo che anche nelle scuole bisognerà insegnare il valore e le tecniche del metodo nonviolento.
La resistenza alla guerra diventa oggi tema dominante, perfino con riferimenti teorici, filosofici, religiosi2.
GIOACCHINO DA FIORE (c. 1130 – 1202) E FRANCESCO D’ASSISI (1181/1182 – 1226):
QUALE COLLEGAMENTO?
Qual è il collegamento tra Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi?
Su questo “complesso problema” serve richiamare l’opera di Ernesto Buonaiuti, Gioacchino da Fiore. I tempi, la vita, il messaggio (Lionello Giordano Editore, Cosenza, 1984), considerata, nella “Introduzione” di Antonio Crocco, “un momento fondamentale nella storiografia gioachimita del nostro secolo”.
Buonaiuti scrisse:
La catena appenninica non è soltanto fisicamente la spina dorsale della penisola. Dalla Sila al Subasio è corsa, nella maturità del Medio Evo italiano, una stupenda continuità spirituale.
… Aveva annunciato Gioacchino: ‘il primo stato del mondo fu stato di schiavi, il secondo di liberi; il terzo sarà comunità di amici’. Quando il poeta che aveva sciolto l’inno alato alla veniente risurrezione del regno di Dio si spegneva nella solitudine della sua Sila, Francesco subiva in una prigione di Perugia la sua prima delusione politica.
… Ma non era ancora suonato l’istante della conversione. Questa sopravvenne, brusca e inattesa, quel giorno in cui a Spoleto, sul punto di arruolarsi ai servizi di Gualtiero di Brienne, Francesco preferì, secondo la consegna di Gioacchino, all’armatura, la cetra.
Gli era giunto agli orecchi il prognostico sconcertante del veggente di Fiore? Impossibile rispondere.
… E noi non sapremo mai per quali vie sotterranee il messaggio profetico di Gioacchino da Fiore si insinuò nell’organismo precoce del francescanesimo primitivo. Sta di fatto però che le corrispondenze fra la visione del terzo stato gioachimita e il programma minoritico sono copiose e precise: dalla consegna assoluta della povertà e della rinuncia, al proselitismo laico, dall’indifferenza e dall’autonomia di fronte ai privilegi curiali, alla concezione della crociata puramente pacifica ed evangelica.
… Come la vita di Gesù tradiva conformità prodigiose al vaticinio dei profeti, allo stesso modo l’opera di Francesco si uniformava ai presagi del profeta calabrese.
E solo la fiammata di sogno accesa dalle resine delle pinete silane poteva apprestare, propagandosi su per le balze dell’Appennino, la temperie acconcia allo sbocciare del canto delle Creature. (pp. 4-6)
GIOACCHINO E FRANCESCO, “PENSATORI D’URTO”?
Pensatori d’urto3, è il titolo di un saggio del tedesco FRANZ WIEDMANN, storico della filosofia, che comprende Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi tra i dodici autori presentati nel libro.
Perché questi autori vengono chiamati “pensatori d’urto” (anstossige Denker)?
Dal risvolto della quarta pagina di copertina:
Il termine tedesco Anstoss evoca l’urto e lo scandalo, ma anche la spinta e l’impulso vitale, e se finora solo alcuni dei dodici protagonisti di quest’opera singolare hanno avuto diritto di cittadinanza nella ‘storia della filosofia’, la filosofia deve a loro, segretamente o in modo scoperto, gli impulsi più vitali e fecondi. Perché gli anstossige Denker, che possono essere definiti anche pensatori ‘controcorrente’, outsiders della filosofia, ‘hanno scosso il modo di pensare e di vivere dei loro contemporanei, hanno provocato scandalo, si sono affaticati dietro alla realtà’, non hanno accettato la funesta scissione tra pensiero e vita, tra parole e fatti; per questo l’onda d’urto che hanno provocato ci raggiunge e ci interpella. La loro appartenenza, in un ampio arco di tempo, alla geografia culturale e spirituale dell’Occidente non riduce, anzi esalta la portata universale di un multiforme ma sempre dirompente messaggio. Ognuno di loro è, ante litteram, un autentico ‘uomo planetario’.
Wiedmann scrive nell’Introduzione:
Perché dai seminari accademici provengono difficilmente spinte a pensare e ad agire? Che non dipenda ciò anche dal fatto che la filosofia da noi sia stata esercitata così bene da essere diventata visibilmente una filosofia da professori per professori di filosofia? (p. 16)
E nel capitolo dedicato a Gioacchino da Fiore, Wiedmann scrive:
Quando Hegel, seicento anni dopo l’esperienza-illuminazione di Gioacchino, nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia berlinesi formulò l’inconcepibile enunciato secondo cui ai cristiani era stata data la chiave per comprendere la storia universale ed era giunto il tempo di rendersi conto del piano della provvidenza perché ora non sapevano soltanto che Dio fosse, ma cosa fosse, e precisamente un Dio trino, egli riprese direttamente il modello metodico dell’abate calabrese. Entrambi, Gioacchino ed Hegel, applicarono un costrutto teologico al decorso storico, che doveva conseguentemente svilupparsi in modo trinitario. Indirettamente Hegel si collegò ad una tradizione gioachimita che dal XIII secolo non si era ancora logorata ed era viva specialmente nel pietismo svevo, con il quale lo Hegel studente nello Stift evangelico di Tubinga aveva familiarità. Che questo insegnamento fosse “filosofia” e non teologia subdola, era ovvio per Hegel, dato che egli riconosceva la filosofia come l’elemento in cui Dio si solleva da sé alla sua propria conoscenza. (p. 55)
Gioacchino è ritenuto un profeta, ma questa definizione potrebbe venir fraintesa nel senso di intenderlo come un oracolo che vedeva avvicinarsi gli avvenimenti futuri. Il che non è esatto; egli è un “esegeta tipologico”, cioè interpreta gli scritti della rivelazione, qui in particolare Apocalisse, attribuendo le singole persone, le figure, gli animali, le immagini e i simboli a determinati avvenimenti della storia della salvezza. Questo era per così dire il suo mestiere e nel tentativo di coordinare in un’ampia comprensione la Bibbia e gli avvenimenti mondiali e di condurre la storia non solo fino ai propri tempi, ma oltre, egli diventa “profeta”, proclamatore di una nuova era. Solo che per me egli ha meno somiglianza con i profeti di Israele che non con uno gnostico il quale esige per sé un “sapere più alto”. E, in quanto gnostico, anche Hegel si riconosce in lui.
Il sapere pieno di misteri che gli si rivelò quale improvvisa visione era la trina essenza di Dio con il suo dispiegarsi nella storia della salvezza. Detto diversamente, egli aveva intuito come il rapporto interno delle tre persone divine, Padre, Figlio e Spirito Santo corrispondesse a tre epoche della storia: l’età del Padre all’Antico Testamento, quella del Figlio al Nuovo Testamento e alla Chiesa cristiana contemporanea e quella dello Spirito a ciò che ancora non è sorto, ma che tuttavia è imminente.
… Uno stadio ne fa seguire un altro e deriva da uno precedente: dalla scienza la saggezza della conoscenza, alla schiavitù segue la figliolanza e nel terzo stadio la libertà. La prima epoca portò il timore, la seconda la fede, la terza l’amore. Dallo schiavo si solleva il liberto e infine l’amico.
… Di che cosa si tratta? Di un processo di successione secondo il principio dello sviluppo. … “Il nuovo nasce dal vecchio, nel grembo e al riparo del vecchio finché esso non ha la forza propria di uscirne come una forma propria e particolare e di liberarsene”, così descrive Ernst Benz lo svolgimento. Che cos’è chiaro in tutto ciò? Che non ci sono più, com’era dato fin qui, due parti del calcolo del tempo, ante e post Christum natum, ma tre. L’ultima epoca prima del ritorno di Cristo, che viene immaginata insieme alla fine del mondo, non è con ciò l’ultima epoca di questo mondo. Ne seguirà un’altra, il “Terzo Regno” e questo non sarà, come annunciava ovviamente la tradizione, in un aldilà, ma qui, molto al di qua, e sorgerà presto. In quanto teorico di uno schema evolutivo, Gioacchino sarebbe un sublime pensatore d’urto, sebbene i potenti non abbiano mai udito volentieri che il tempo del loro dominio, prima o poi, e forse prima di quanto non desiderino, terminerà.
In quanto filosofo, egli introduce un pensiero che farà storia e che renderà possibile un significato completamente diverso della sua profezia. E’ il concetto della separazione di designazione (designatio) e compimento (consummatio) o, come lo conosciamo meglio dopo che Hegel lo ha così utilizzato determinandolo in una triplice dimensione: a) il cessare di avere vigore, b) il portare ad un livello più alto e c) il soddisfare i piani precedenti integrandoli. Diventa così evidente la struttura del progresso rispetto al semplice sviluppo e, al tempo stesso, è palese l’urto.
La Chiesa spirituale quindi non è soltanto la realizzazione e il compimento della Chiesa del papa, ma la fine e l’annientamento dello stato clericale che si sorregge insieme ai sacramenti e alla predicazione. I sacramenti in fondo non significano altro se non che lo spirito al tempo del dominio della seconda èra deve manifestarsi sotto l’involucro della carne, degli elementi e dei beni naturali. Queste immagini della seconda èra dovranno poi esser superate: lo spirito nella terza èra non sarà più destinato all’involucro dell’abito, della lettera.
Tra le categorie più importanti della storiografia filosofica Hegel adduce il “mutamento” e il “ringiovanimento”. Anche quest’ultimo concetto egli lo prende dalla tipologia di Gioacchino. Come David successe a Saul e Giovanni Evangelista a Pietro, così i nuovi ordini della Chiesa spirituale alla successione dei vescovi. Il che presuppone però sempre lo scomparire della costellazione precedente. Come Pietro morì da martire e Giovanni gli sopravvisse a lungo, così la Chiesa dei papi morirà, la Chiesa evangelica però, quella dello spirito e dell’amore, durerà fino alla fine del mondo.
Gioacchino contraddistingue la metamorfosi con l’espressione transire. … Ma resta inteso (e non è da trascurare) che nel transire non segue semplicemente il nuovo al vecchio, ma che il vecchio muoia, benché possa ancora sussistere ripreso in forma nuova. E’ una questione di posizione dell’accento e al tempo stesso di interpretazione storica della figura dell’abate Gioacchino.
… Secondo Karl August Fink, in lui il lato sovversivo delle sue interpretazioni non sarebbe stato mai pienamente consapevole. … Come si può supporre che un uomo così intelligente ed erudito come Gioacchino non fosse consapevole di quel che diceva?
Il convento di Floris, fondato un tempo da Gioacchino in un paesaggio di selvaggia bellezza, sorgeva su un altopiano quasi inaccessibile. La separatezza del convento, la solitudine dei monaci, la regola ferrea ed il carattere contemplativo-meditativo della esposizione scritta dell’abate fondatore sono, tra l’altro, espressioni esteriori ma anche elementi su cui riflettere, del fatto che il materiale esplosivo soggiacente nella dottrina esoterica gioachimita, non si infiammò subito. Dopo la sua morte gli scritti di Gioacchino, altamente onorato quale beatus spiritu dotatus prophetico, vennero custoditi come tesoro esoterico e tramandati soltanto all’interno di quelle comunità conventuali.
… Le grandi aspettative non si sono realizzate, la grandiosa dottrina dei Tre Regni (o Ere) fallì già per il fatto che la fine annunciata del secondo non avvenne. E l’inizio del nuovo “regno dello spirito” al posto delle istituzioni della Chiesa e dello Stato si fa attendere ancora oggi.
L’edificio dell’ordinamento medioevale era stato sgretolato dalla dottrina di Gioacchino dell’ evangelium aeternum, in maniera radicale e irreparabile. Era semplicemente una teoria … Anche il pensiero di una philosophia perennis, di una verità eterna, trascendente, di cui avranno consapevolezza tanti filosofi in diverse epoche, era soltanto una teoria. … Questa immagine chiusa del mondo è stata scossa secoli prima di Copernico e di Galileo da Gioacchino, solo che quasi nessuno vi ha prestato attenzione. Il terremoto che egli innescò non fu registrato, sebbene la scossa interiore rimane percepibile fino ad oggi nelle coscienze di coloro i quali non possono accontentarsi delle idee quando queste si irrigidiscono in istituzioni.
Questi sono i due lati dell’effetto delle teorie: la forza della loro possibilità sempre attualizzabile, per così dire di una potenza passiva, e l’impotenza del pensiero in sé ragionevole di fronte ad una realtà politicamente stabilita.
L’abate, per quanto contemplativo, non era sicuramente un sognatore: egli non ha messo per iscritto in modo involontario e inconsapevole dei sogni su possibili conseguenze politico-ecclesiastiche. Ha visto le condizioni del suo tempo così com’erano, non come avrebbero potuto essere. A buon diritto lo si potrebbe definire un acuto analizzatore della realtà storica. Inoltre il suo interesse si volge principalmente al presente, non al futuro, alla “Chiesa futura” (E. Benz). Il corso della sua vita conosciuto nei dettagli, i suoi spostamenti relativamente frequenti, l’abbandono di un convento per la fondazione di nuove comunità, il progetto di una regola dell’ordine migliorata, tutto questo mostra un uomo che agisce concretamente determinato e che sa dare al tempo la sua impronta e ai contemporanei la sua guida. (pp. 56-59, 61-62, 64, 66)
DOMENICO ANTONIO CARDONE, FILOSOFO DELLA PACE, SU FRANCESCO D’ASSISI
Il filosofo Domenico Antonio Cardone (Palmi, 1902-1986), candidato al Premio Nobel della Pace, del 1963, amico di Aldo Capitini, con la sua “filosofia profetica” rinverdì la grande tradizione filosofica della Calabria, risalente all’epoca magnogreca.
Per Cardone,“fuori da ogni ottimismo o pessimismo, l’utopia è la nostra vera realtà permanente” 4.
Su Francesco d’Assisi, Cardone scrisse:
Mi piace rifarmi all’intramontabile rivoluzione francescana, che ripropose – per liberare pienamente l’uomo dal suo fardello passionale, con la conseguente pretesa potenzialistica rispetto a tutto il Creato – la rivoluzione gesuista, approfondendola con la dimensione estetica ed allargandola a quello spazio cosmico oggi minacciato dalla frenesia attivistica, la quale non si accorge che pone le basi dell’autodistruzione.
Nessuna, forse, delle personalità religiose del Cristianesimo ha tuttora tanta risonanza mondiale, anche al di là dell’ambito delle varie religioni che si rifanno al messaggio evangelico, quanto quella di Francesco d’Assisi. Le convergenze ecumeniche che hanno luogo periodicamente in questa Città ne sono una prova. La ragione sta, a mio avviso, non solo nel fatto che vari aspetti del suo pensiero si ritrovano anche in religioni non cristiane, ma, e soprattutto, nel fatto che quel pensiero costituisce proprio l’antitesi dialettica del mondo moderno, ne è quindi la contestazione più radicale rispetto alle tante false o inadeguate contestazioni di moda.
Francesco, infatti, come giullare di Dio, nega la triste serietà oppressiva. Come fratello di tutti gli esseri e fenomeni del creato nega la solitudine che affligge l’uomo moderno, anche perché di tutto il creato quest’uomo ha fatto solo un mezzo di una sua irraggiungibile “felicità”, così prevalentemente schiavizzando, inquinando, distruggendo, con l’ausilio, sovente, di quella Scienza che, nella sua universalità, avrebbe dovuto avere, invece, solo una funzione salvatrice.
Come amante della povertà nega alla radice il germe corruttore dell’idolatria del benessere consumistico. Con il suo elogio della pazienza nega tutte le forme aberranti della frenesia lato sensu politica che, guardando solo all’immediato, inquina l’anelito proprio di un radicale rinnovamento etico della vita sociale. Con il suo operare per la pace nello spirito sopravanza e contesta il labile ideale della pace esteriore, che vive di compromessi e di più o meno lunghe tregue tra molteplici guerre. Con la sua umiltà e con la conseguente prudenza di giudizio si pone come l’opposto del razionalismo predicatorio, arrogante e presuntuoso, tipico di molti capi religiosi e politici.
… la radice della “perversione” contestata è in quel potenzialismo umanistico che, almeno in Occidente (poi diffondendosi altrove), si è rafforzato dinamicamente dopo l’avvento della teologia che pose la Terra e l’Uomo al centro dell’universo e della storia di Dio. Tale potenzialismo cominciò ad esplicarsi con il dominio da parte dell’uomo su tutti gli altri esseri del creato, per poi esercitarsi anche su i simili (…).
… Anche quella versione potenzialista che sembra più “innocente”, come mito del benessere, schiavizza, indurisce e conflittualizza gli individui e le nazioni tra loro, avvelena pure i giovani un tempo ad essa indifferenti e si sposa – oggi come mai prima – nella sua logica con il disprezzo della natura, sfruttata fino al limite dell’impoverimento di ciò che ci è necessario per sopravvivere.
Non mi riferisco solo allo sfruttamento – fino alla crudeltà della vivisezione – del mondo animale, mondo che Francesco rispettava ed amava particolarmente (…), ma anche a quello del cosiddetto mondo inanimato: vegetali, aria, fiumi, mare.
… Eppure gli esseri del creato diversi dall’uomo hanno pure … sia pure in scala ridotta, tutte quelle capacità (…) che si ritengono “esclusiva” dell’uomo. … Da questo punto di vista l’animismo universale di Francesco ha una conferma molto valida e allarga l’implicita intuizione di Gesù che, nel punire un albero, gli attribuiva anima e scacciando i demoni attribuiva carattere sociale alla persona vivente. Ora, quando oggi si parla di “salvare la natura” ci si riferisce al nostro egoismo, non alla nostra fraternità.
Comunque, pur indipendentemente dall’animismo francescano e da ogni ipotesi sulle intenzioni divine, oggi l’uomo dovrebbe avvertire il rischio, per la sua stessa attualità, di perire assieme a ciò del mondo circostante che esso sfrutta, inquina ed uccide e così parimenti nei rapporti individuali.
Francesco ammansì il lupo, il lupo che è in ognuno di noi, con metodo nonviolento. Nel campo internazionale oggi, dopo la mondialità ormai assunta dalla guerra, si parla come giammai di pace, ma sempre come sistemazione esteriore, non come conversione interiore ad un nuovo rapporto interumano. Si è che ogni Nazione, come ogni individuo, hanno il sottinteso o dichiarato tarlo della pretesa di avere sempre ragione e cedono alla ragione altrui sempre a malincuore. Mancano di umiltà, di prudenza e moderazione nell’uso delle proprie facoltà e possibilità.
E “la loro sapienza è divorata “, come dice Francesco nella lettera a tutti gli abitanti della Terra. Quale diverso atteggiamento il suo quando, di ritorno dal Medio Oriente, scoraggiato per l’infruttuosità della sua predicazione tra gente dal cuore impuro, attaccata egoisticamente alle proprie opinioni, con un profondo gusto del male, ritenne che quel fallimento fosse un indice della sua mancanza di vocazione, e, dopo l’esortazione di Chiara, nel recarsi a Bevagna affidò agli uccelli la sua parola, sicuro di essere meglio compreso da essi che dagli uomini 5.
PER CONCLUDERE CON LA POESIA
CHI INVENTO’ LA PACE?
Il guardiano della pace”, di D. A. Cardone6
Chi inventò la pace?
Dovunque nell’universo è guerra
nel corpo e nel cuore dell’uomo
è guerra
Ma pur l’uomo inventò la pace
Quando un giorno
in un giardino di Benares
un illuminato scoprì la Rinuncia
Quando un giorno
sul lago di Genezareth
un illuminato scoprì la Carità
Quando un giorno
nei boschi di Bevagna
un illuminato scoprì la Pazienza
e agli uccelli affidò i tre messaggi
ed essi volarono a croce
e dovunque li portarono
e dalla steppa d’Oriente
un canto rispose
Il mondo è come l’oceano
tutto scorre e tutto è collegato
e se tu percuoti in un punto
un rombo si ripercuote
all’altro capo della Terra …
Chiedi perdono della tua violenza
a tutti i bambini agli uccelli”
Lungo tempo rimase
la pace inventata
sogno d’anime solitarie
Come nell’universo
fu ancora guerra
nel corpo e nel cuore degli uomini
Oggi la paura la stana e l’insegue
Paura non amore
Ma sia benedetta
se spaccherà la muraglia
onde nel valico
i tre sermoni passino
dal deserto delle lontananze
portando echi nel cuore degli uomini
chiamandolo guardiano di pace
ché se non è pace di dentro
pace di brama di risentimento d’orgoglio
non sarà pace al di fuori
mai pace nel mondo
***
Palmi, 8 ottobre 2013
Raffaello Saffioti
Centro Gandhi
raffaello.saffioti@gmail.com

NOTE
1 ALDO CAPITINI, La nonviolenza oggi, Edizioni di Comunità, Milano, 1962, p. 23.
2 ALDO CAPITINI, In cammino per la pace, Einaudi, Torino, 1962; ora in: Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia, 1992.
3 FRANZ WIEDMANN, Pensatori d’urto, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (FI), 1990.
4 DOMENICO ANTONIO CARDONE, Recensione del libro di Arrigo Colombo, Il destino del filosofo, del 1971, nella rivista “La Cultura”, X (1972), p. 466.
5 Da “Libertà secondo Francesco”, in DOMENICO ANTONIO CARDONE, Meditazioni libertarie, Editrice MIT, Cosenza, 1978 (pp. 15-21).
6 “Il guardiano della pace”, in DOMENICO ANTONIO CARDONE, Ritmi del silenzio, N.E.U. – Editrice “La Nuova Europa”, Firenze, 1970, pp. 80-81.



Martedì 08 Ottobre,2013 Ore: 17:56