SULLE ORME DI GIOACCHINO DA FIORE SCOMODO PROFETA CALABRESE
A PADRE FELICE SCALIA, GESUITA SCOMODO, IL PREMIO SPECIALE “CALABRIA – SILA - GIOACCHINO DA FIORE”

di  Raffaello Saffioti  

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti,
che innalzate i sepolcri ai profeti e ornate le tombe dei giusti,
e dite: Se fossimo vissuti ai tempi dei nostri padri,
non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti;
e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti.
Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!”
Vangelo di Matteo 23, 29-32

Si può discutere un interpretare
ma fra le ginestre di Corazzo e i boschi di San Giovanni in Fiore
otto secoli fa è germinata una nuova ermeneutica del mondo,
che rischiamo ignorare, dissipare.
Tra quelle di Agostino e Bonaventura, non è ancora esaurita l’ermeneutica
del calabrese abate Gioacchino:
l’annunzio che inventa costruendo un nuovo comunicare.
Danilo Dolci, 1991

UN PREMIO CHE VALICA I CONFINI DELLA CALABRIA

Quello conferito a Padre Felice Scalia, gesuita, il 25 agosto 2013 a San Giovanni in Fiore dalla Giuria del Premio “Calabria - Sila - Gioacchino da Fiore” è veramente un “Premio speciale”.

Padre Scalia può essere considerato un “gesuita scomodo”, se consideriamo la sua vita, le sue opere, il suo pensiero. Il Premio che gli è stato conferito deve avere un’adeguata pubblicità, per il suo valore e significato che vanno al di là di San Giovanni in Fiore e della Calabria.

Questo “Premio speciale” serve anche a qualificare tutto il Premio, alla sua prima edizione, fortemente voluto dal Sindaco Antonio Barile.

La Motivazione

A Felice Scalia, un uomo che sa trasmettere vita, amore, calore umano a tutti coloro che incontra sulle strade e che cerca come sorelle e fratelli. Gesuita dal 1947, si è laureato in Filosofia, teologia e scienze dell’educazione ed ha insegnato alla facoltà teologica dell’Italia meridionale e all’Istituto Superiore di Scienze umane e religiose di Messina. È animatore dell’Associazione Piccola Comunità di Nuovi orizzonti nella città dove vive, Messina, ed è compagno spirituale di molti gruppi, a Catania, Siracusa, e anche in molte altre città sparse per tutta l’Italia. Del rapporto stretto di Felice Scalia con la Calabria e la Sila basti ricordare come, a partire dagli anni sessanta, ininterrottamente, migliaia di ragazzi, di giovani, di famiglie hanno fatto esperienza comunitaria nel campo “Langher”, nei pressi del lago Ampollino. In “Cristo degli uomini liberi” egli scrive: “Stare sempre dalla parte della vita (…); testimoniare è raccontare, prima di tutto (…) la storia di Dio che cerca l’uomo, lo “per-seguita”, lo assedia, fino a quando questi non accoglie lo splendore della sua dignità”.Felice è un uomo che si sorprende e si meraviglia delle bellezze del creato. Per questo la sua storia personale lo ha portato ad innamorarsi della Sila e di San Giovanni in Fiore che sono diventati la sua casa, dove si sente accolto, ospite discreto e custode di questi spazi, della sua armonia e dei suoi silenzi. E come un altro ospite di questa terra, Gioacchino da Fiore, di cui è profondo studioso, Egli sa intravedere e riconoscere come, al di là di ogni razionalità o legalismo canonico “c’è uno Spirito di Dio in azione nel mondo, che parla al singolo, a ciascuno di noi, come alla Chiesa intera … che trasmette parole che riscaldano il cuore, quasi nostro malgrado, scaraventandoci d’un colpo fuori da questa epoca di passioni fredde”. Felice scarta i potenti e sceglie gli umili e ci indica strade nuove, perché l’umanità possa ritrovare il sogno di Dio trinitario e far sì che si possa realizzare, qui e ora, nell’aspirazione e nella ricerca incessante e fiduciosa, come Regno d’Amore.

GIOACCHINO SPIEGATO AL POPOLO, IN PIAZZA ABBAZIA

La semplicità da Gioacchino a Francesco d’Assisi

La sera della giornata del Premio, Padre Scalia ha spiegato al popolo, nella Piazza Abbazia, la spiritualità e il pensiero dell’Abate Gioacchino.

Gioacchino, teologo, pensatore, mistico, difficile e complesso, può essere spiegato al popolo in modo semplice, come il Vangelo?

Gli Scribi del nostro tempo dicono di NO.

Padre Scalia ci ha provato e ci è riuscito.

E’ stato, forse, un evento senza precedenti: Gioacchino è uscito dall’Accademia degli specialisti, teologi e filosofi, e il suo pensiero è stato portato al popolo, “in maniera semplice e in un modo diverso dal solito” (come ha scritto il Sindaco Barile sul suo sito), dopo oltre trent’anni dalla fondazione del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti[1].

Gioacchino da Fiore è famoso, ma il suo pensiero e la sua opera sono poco conosciuti dai cittadini sangiovannesi.

Il valore e l’importanza del discorso di Padre Scalia sono dati proprio dallo stile adottato per rispondere all’esigenza della divulgazione.

Un discorso semplice, ma non facile.

Elogio della semplicità

Cosa significa “semplice”?

Danilo Dolci scrive:

Semplice significa unitario, essenziale, puro, sincero, senza malizia, privo di ornamenti eccessivi e di affettazione. Mentre la ‘cultura’ del dominio, in sottile furbizia, reputa il semplice un inesperto, un non ‘graduato’, un ‘non superiore’.

Semplice è imparentato a semper: in cui per è il moltiplicativo di sem, la radice che esprime unità-identità.

Radicalmente, semplice significa sempre connesso, intercongiunto a tutto. Come rivela il sanscrito.

Qualcosa di simile avviene alla parola gente, dalla radice gene, famiglia, popolo (per Dante), nazione, l’intera umanità. Secondo la presunzione imperiale ed ecclesiastica le genti sono gli stranieri, i pagani. . Perfino eserciti, truppe. ‘Gente ha talvolta senso di spregio’ disse il Tommaseo.

Francesco d’Assisi ha meditato profondamente sulla semplicità. Raccomandava di ‘crescere nella purezza della semplicità’: ‘la sapienza è sorella della pura, santa, semplicità’. Il concetto di semplicità in Francesco, che si considerava illetterato, non corrisponde all’idea greca dell’essenzialmente immateriale, incorruttibile, immutabile; e matura anche la tradizione in cui semplice significa talora non sapiente, ingenuo come i bambini. ‘Siate forti’ esortava, ‘non vi faccia paura la mia e la vostra semplicità’. Dice di lui Tommaso da Celano: Quale estasi gli procurava la bellezza dei fiori … Le messi e le vigne, le pietre e le selve, le acque e i giardini, la terra e il fuoco, l’aria e il vento, con semplicità … chiamava fratello e sorella, intuendo i segreti in modo mirabile’.

… Dal semplice occorre certo decantare le ombre della superstizione, del pregiudizio ignorante. Ombre che non mancano, se osserviamo attentamente, e talora ben più gravi, anche negli impaludati tabernacoli della cultura più affermata, ufficiale, e nella poliforme cultura del virus del dominio.

… Sempre più necessario e più difficile ci è precisare il concetto di semplice ed i nessi fra il semplice e il complesso.

Nella struttura del comunicare, nell’ambito di quanto è creativo, occorre apprendere e valorizzare ogni-uno, sapere cooperare a convertire la vita delle persone nel mondo. E’ illuminante studio in cui i limiti tra maestri e discepoli scompaiono, al fine di suscitare alternative storie all’universo”. [2]

Il discorso di Padre Scalia, per la sua esemplare semplicità, merita di essere valorizzato, proponendolo come sussidio didattico, per promuovere la conoscenza di Gioacchino e del suo pensiero, anche nelle scuole della sua città.

GIOACCHINO E IL SUO TEMPO

Padre Scalia per spiegare Gioacchino ha esaminato la vita dell’ Abate attraverso i passaggi più importanti, collocandolo nel contesto del suo secolo. Dalle vicende della vita, vissuta con spirito inquieto in un’epoca difficile nella quale succedeva quello che succede anche oggi, sono emersi i temi fondamentali di tutto il discorso.

Padre Scalia, per spiegare il suo interesse per Gioacchino, ha detto: quando l’ho incontrato nei miei studi di storia, o di filosofia o di storia della Chiesa, mi sono detto: questa è una persona straordinaria. E’ una di quelle fonti di cui la società ha vissuto e vive anche oggi. La sua figura è stata centrale nella mia vita di Gesuita.

Parla Padre SCALIA

Padre Scalia ha proseguito facendo il discorso che segue, con un evidente stile colloquiale. Con la trascrizione [3], si è preferito rispettarlo, pur con le sue possibili imperfezioni.

PADRE SCALIA HA DETTO.

Se ancora abbiamo la parola “speranza”, lo si deve forse a quest’uomo che da questa città che lui stesso fondò, ancora emana odore di speranza, potremmo dire “odore di spirito”.

Noi Gesuiti siamo tra i pochi che accolgono Gioacchino da Fiore come beato. Nel 1600 un gruppo di Gesuiti Bollandisti esaminarono la storia e le leggende che riguardano i Santi e quando arrivarono a Gioacchino dissero: ciò che si dice di lui, della sua vita, della sua santità, e, soprattutto, dei miracoli, è autentico. Per cui, il 30 marzo di ogni anno è fissata la sua festa.

Sono stato ben lieto quando ho avuto occasione di conoscere l’Associazione Florense per lo Sviluppo Creativo, quando abbiamo celebrato insieme il 9 agosto la “Giornata della Pace” [4], alla quale ho partecipato. Il tema della pace è centrale nella visione di Gioacchino, poi ripreso da Francesco d’Assisi, ma inviso alla Chiesa di quel tempo. Non dobbiamo dimenticare che Innocenzo III scomunicò l’imperatore Federico II che aveva cercato di ottenere un po’ di pace con i mussulmani non attraverso una crociata o una guerra, ma attraverso un trattato.

Gioacchino ha avuto a che fare con la Sicilia. E’ stato alla Corte di Palermo, ma quando non ne ha potuto più si è rifugiato in alcuni degli eremi greco-bizantini che erano alle falde dell’Etna, prima di partire per la Terra Santa che vide il suo totale cambiamento.

Gioacchino abbandonò il suo lavoro nel Tribunale di Cosenza in mala maniera, abbandonò la Corte di Palermo pure in mala maniera e soprattutto abbandonò l’Arcivescovo di Palermo quando si accorse di quello che c’era in queste corti: allergico ad ogni arbitrio, conscio della corruzione che c’era, lontanissimo dall’essere cortigiano, ruppe con questa carriera che aveva iniziato in modo brillante, proprio al Tribunale di Cosenza, e inizia una nuova vita.

Gioacchino, lasciata Palermo, ruppe con suo padre, ed in questo c’è una specie di anticipazione di quello che farà Francesco d’Assisi, ruppe con la sua città e non si chiamò più Gioacchino da Celico, ma Gioacchino da Fiore. Da dove viene la parola “fiore”?

All’inizio credevo che dipendesse dall’essersi Gioacchino insediato in una collina piena di fiori. Ma quando mai!

Il viaggio di Gioacchino in Terra Santa

Gioacchino va a Gerusalemme, visita tutta la Terra Santa, ma, soprattutto due luoghi: il Giordano e Nazareth.

Dal Giordano si rende conto come Giovanni Battista era stato l’annunciatore di un nuovo mondo, di una nuova epoca, e s’innamora di questa figura che viveva proprio del futuro, guardava oltre quello che c’era.

Il significato di “fiore”

Quando va a Nazareth si accorge che lì era nato il fiore dell’umanità. Fiore non è, dunque, una collina di fiori, fiore è Cristo.

Quando lui parla di questo casale che chiamerà Fiore, pensa che da esso può nascere quel fiore nuovo che è l’epoca dello Spirito, che può dare alla società un nuovo avvenire. Gioacchino cambia il suo nome, da Gioacchino da Celico in Gioacchino da Fiore, rompendo del tutto con suo padre che non capiva come uno che addirittura era impiegato alla Zecca, impiegato con l’Arcivescovo di Palermo, avesse potuto cambiare del tutto nome e prospettiva.

In Terra Santa Gioacchino fa un’altra scoperta, scopre che il Vangelo era destinato ai poveri, e che soltanto i poveri, cioè i destituiti di potere, di denaro, di speranza, quelli che erano messi ai margini della società, per loro il Vangelo esisteva. Cristo era venuto per stare dalla parte dei poveri, e perché fossero questi poveri il futuro dell’umanità.

I notabili, si rende conto, non capiranno mai il Vangelo, finché sono notabili, perché il Vangelo, allora e oggi, è da liberare. Il Vangelo in quel periodo di tempo era stato prigioniero dell’Impero e l’Impero era stato prigioniero della Chiesa. Tutto questo col Vangelo non aveva niente a che fare.

E allora diventa povero lui per primo, lui che non era nato povero (sappiamo che la cosa è controversa). Lui, per avere tutti questi agganci, non poteva essere un povero contadino: si fa povero, perché non poteva parlare ai poveri se non dal di dentro di una situazione di povertà; e non può parlare ai poveri se non presenta quelle caratteristiche che Cristo aveva, perché Cristo era un povero.

Gioacchino, mentre si trova in Terra Santa, riscopre la necessità di rileggere le Scritture in modo totalmente diverso. So come si leggevano le Scritture in quel periodo di tempo, perché fino al 1960 (quando ho concluso i miei studi teologici ufficiali, poi ho continuato per conto mio con altri metodi), la Scrittura era soltanto una specie di pozzo dove si attingevano frasi che giustificavano assoluti dogmatici e si diceva: questa è Parola di Dio, possiamo scrivere questo dogma.

No. Lui si accorse che la Scrittura era, per così dire, percorsa da una linea rossa di profetismo, che la Scrittura guardava sempre al futuro dell’uomo, e che la Scrittura doveva essere letta in modo da potersi rendere conto di che cosa volesse Dio per questi suoi figli che non aveva voluto lasciare soli, dato che aveva mandato il suo figlio Gesù.

Il ritorno di Gioacchino in Italia

Ritornato in Italia, si fa prima di tutto eremita laico. Peccato mortale, se questo eremita laico vuole parlare alla gente.

Il mio fondatore, Ignazio di Loyola, fu messo in carcere non so quante volte alcuni secoli dopo, perché dava gli esercizi spirituali mentre non era sacerdote.

Gioacchino, tuttavia, si mette a predicare ai poveri, come Giovanni Battista, sulle rive del torrente Surdo, presso Rende, ma poiché aveva sempre noie, pur non volendo essere sacerdote, si fa ordinare sacerdote a Catanzaro, per potere parlare alla gente.

E’ inquieto, lascia il torrente perché si sente chiamato a meditare nel silenzio e rileggere la Scrittura, tutta daccapo. Si fa monaco benedettino in un’abbazia, ormai distrutta, vicino a Soveria Mannelli.

Siamo attorno all’anno Mille e si preparava quella riforma gregoriana, di Gregorio VII, era in vista quello che avrebbe fatto Innocenzo III, ma Gioacchino sentiva un grande bisogno di solitudine.

Allora si sposta in questa Fara silana, cioè in questo luogo che era una sorta di presidio dell’esercito longobardo, solitario, che lui chiama Fiore. Da una Fara silana, che è un luogo di armi, Gioacchino prevede la venuta di una città che possa essere la città da cui nasce il fiore dello Spirito Santo, e non più un uomo, il Cristo, ma addirittura una popolazione.

Gioacchino fonda i Florensi

Gioacchino fonda i Florensi, chiamati ad essere gli annunciatori dell’epoca dello Spirito.

Mi ha incuriosito la sua reazione alla sua epoca, che era un’epoca difficile. Succedeva allora, quello che succede oggi. Gioacchino ebbe il coraggio di giudicare la sua epoca non pienamente cristiana.

Vide la sua epoca come un’epoca dove c’era un feto, ma non c’era ancora un bambino, come un’epoca che doveva ancora partorire il meglio di sé. Questa sua epoca aveva bisogno di ciò di cui aveva molto poco, aveva bisogno di amore, di povertà, di fraternità.

Questo mondo aveva avuto un annuncio del Cristo, che tutte queste cose le aveva dette, ma, a partire dal 313, ci fu un evento, l’Editto di Costantino, che mondanizzò la Chiesa e il messaggio cristiano. Il messaggio cristiano fu collegato col potere imperiale, col potere economico di allora, facendo sposare, per così dire, alla mentalità cristiana il sistema signorile che allora vigeva.

Gioacchino si rendeva conto che bisognava ripensare la storia. Non poteva accettare la teologia che poi sarà la cosiddetta teologia gregoriana, di Gregorio VII, dove si pensava che la Chiesa dovesse essere al culmine di tutto, e dovesse governare perfino i principi e gli imperatori.

Bisognava far capire ai poveri qual era il loro compito, perché, purtroppo, a poco a poco i poveri erano stati emarginati, non erano più soggetto di un annuncio, non erano più portatori di speranza, ma erano soltanto oggetto di elemosina. L’elemosina la Chiesa l’ha fatta sempre, i ricchi l’hanno fatta sempre ai poveri. Parlo in generale.

Gioacchino non rompe con nessuno, non condanna nessuno, non rompe neppure con i potenti del mondo, non esce dalla Chiesa. In quel periodo di tempo c’erano tanti che uscivano dalla Chiesa, ma lui dice: bisogna guardare oltre. Quella Chiesa si trova in una fase che non può non essere se non quella, ma deve venire la pienezza, deve sbocciare questo fiore nuovo che è l’epoca dello Spirito.

Ma parlare di epoca dello Spirito sotto una teologia accentratrice come quella di Gregorio VII, sotto una teologia dove, se si sgarrava un po’, e Gioacchino lo sa, da quelli che erano i mostri sacri del tempo (pensate Pietro Lombardo), si veniva definiti “eretici”, parlare di epoca dello Spirito significava parlare di libertà, parlare di superamento della legge, significava parlare della relativizzazione della Gerarchia, significava parlare del popolo di Dio come componente essenziale della Chiesa. Significava parlare di nuovo della non necessità né di soldi, né di poteri,né di eserciti,né di territori, significava riportare il Vangelo a ciò a cui Cristo lo aveva destinato, ed era molto, ma molto pericoloso.

Sorgono in quel periodo di tempo diversi che vengono subito emarginati. Pensate, per esempio, il movimento pauperistico. Per la ricerca, si può andare su Internet.

Non dirò nulla delle opere di Gioacchino. Su queste opere ve ne parlano quelli del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti.

La teologia della storia: i tre cerchi

Io vi dico soltanto che a noi basterebbe fermarci su quella che è la sua visione della teologia della storia. Qui ci sono i tre cerchi grandi che la descrivono.

Gioacchino parla del Padre che va da Abramo fino a Gesù, l’epoca della creazione, dove il mondo è insieme bello, ma anche corrotto e deve essere salvato da Cristo. Parla di quest’epoca di Gesù, dove esiste questa Chiesa, ma parla del superamento perfino della stessa opera di Gesù, con l’avvento dello Spirito.

Qui a voi può sembrare strano: come, l’opera di Gesù non è completa?

No, perché Gesù stesso disse: “Io non voglio che siate i discepoli di un libro e neppure discepoli miei. Dovete seguire non me, i miei esempi, ma il mio Spirito”.

Come si può seguire l’esempio di Gesù! Banalizzo un po’.

Lui visse 2000 anni fa ed era maschio. E le donne? Come potevano seguire il suo esempio?

Era ebreo ed aveva una sua cultura millenaria. E i non ebrei, quelli che, invece, venivano dall’Africa, dall’Asia?

Importante era per Gesù non che si facesse esattamente, pedissequamente, ciò che lui aveva fatto, e si ripetesse ciò che aveva detto. Importante per lui era che si avesse il suo Spirito.

Questo Spirito faceva dire a Gesù: guardate che siete figli dell’amore, della misericordia, e voi non siete schiavi di nessuno, siete creature libere, non avete bisogno di schiavi, né avete bisogno di padroni.

Vos autem fratres estis”. Voi siete fratelli, e come tali dovete trattarvi.


L’EPOCA DELLO SPIRITO

L’epoca dello Spirito, secondo Gioacchino, dovrebbe partire dal 1260 fino alla fine del cosiddetto anno sabbatico. Guardando solo le Scritture, Gioacchino rivendica sempre il suo compito di studioso e non di profeta, questo glielo appiccicò Dante, non perché Gioacchino non lo fosse profeta: se profeta significa colui che parla in nome di Dio, Gioacchino lo fece. Se profeta significa colui che giudica la storia alla luce della Parola di Dio, Gioacchino lo fece. Come studioso della Scrittura afferma che non può non esserci una tale era dello Spirito.

Ci sarà un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo attraverso uomini che hanno raggiunto la loro intimità con Dio perché ne posseggono non le tracce soltanto (l’epoca del Padre, in cui noi abbiamo una qualche somiglianza con Dio), neppure gli esempi di vita vera, dell’uomo vero (che è l’epoca del Figlio), ma lo stesso Spirito, che è lo stesso Spirito di Dio.

Non siamo arrivati alla pienezza.

Si può meravigliare una donna se ci ha i calcetti che il bambino dà nel suo grembo? La pienezza della formazione di questo bambino si avrà quando uscirà dal suo grembo e lei se lo vedrà davanti.

Così non possiamo meravigliarci di queste sofferenze che abbiamo, di queste contraddizioni in cui viviamo. E’ importante, al contrario, rendersi conto che deve nascere ancora questo fiore, e quando nascerà allora non avremo più, ci sarà tolto, un diritto che oggi abbiamo, temo, il diritto alla disperazione, di guardare al futuro come al peggio. Questa è disperazione.

Dice Gesù: ma guardate oltre, se il senso della storia è sotto il dominio della Trinità.

Non dobbiamo allora tanto lamentarci delle nostre contraddizioni e neppure delle contraddizioni della Chiesa, ma dobbiamo soltanto comprendere che siamo in un’epoca e ne aspettiamo un’altra.

A chi le diceva queste cose Gioacchino da Fiore, agli intellettuali del posto? Ma dov’erano?

Quando nasce il Casale, quando nasce poi San Giovanni in Fiore, dov’erano gli intellettuali?

Ma la cosa straordinaria è che questo centro sperduto sulle montagne della Sila, diventa per il mondo intero, per la cultura del tempo, sia laica che religiosa, diventa un faro di luce.

Troveremo la verità della dottrina evangelica, sembra dire Gioacchino, se viviamo nell’amore insegnato da Gesù.

Io non so se questa ventata di ottimismo che c’è nell’animo di Gioacchino anima la popolazione nostra.

Noi meridionali

Noi meridionali passiamo per accattoni delle amministrazioni centrali, accattoni di tutte le provvidenze che hanno fatto, come se noi fossimo capaci di vivere solo di assistenzialismo.

Noi storicamente depredati di tutto ciò che avevamo, a partire dalla cosiddetta liberazione dell’Italia, dal 1870, noi che abbiamo sempre avuto fonti inesauribili non soltanto di civiltà, ma anche di grande pensiero, noi ci dovremmo ribellare al pensiero che dobbiamo vivere da accattoni.

Forse, abbiamo in mano la possibilità di comprendere dove può andare il futuro.

Oggi un’epoca finisce, perché non si può andare avanti così. Se ancora c’è la preminenza delle cose e c’è la preminenza non del denaro, ma della finanza, l’uomo sparisce. Ma questo stesso sistema implode su se stesso, tanto è vero che le crisi si succedono alle crisi.

Non è forse il tempo di mettere in auge la parte più bella dell’uomo che è il suo spirito, la sua capacità di creatura umana di crescere nella sua umanità? Non è forse il tempo di mettere in moto quella capacità di sviluppo creativo? Un’associazione non basta perché questo diventi popolo, io mi rendo perfettamente conto, ma intanto è un seme.

Da dove deve venire questo, dal mondo capitalistico che ha interesse a darci sempre cose nuove, a farci riempire sempre più di debiti, per poter lavorare sempre per pagare questi debiti? O deve venire al contrario da chi dice: non ho bisogno di tutto ciò, ho bisogno soltanto di vivere in una città umana, dove i miei figli possano giocare tranquillamente alla luce di un lampione più o meno luminoso?

Io ho bisogno che i miei vicini non mi guardino come un nemico, come uno che vuole le loro cose, un possibile predone delle loro cose. Io ti voglio vedere fratello, perché io voglio vedere in te e tu devi vedere in me colui che nelle difficoltà darà una mano, non colui che mi darà ancora una volta un calcio per affossarmi ancora di più dal punto dove io sono.

Gioacchino finisce la sua vita deluso. Il suo Ordine, sperava, diventa come l’Ordine benedettino, piuttosto ricco. Quel suo ideale di povertà, di gente povera e di gente che vivesse della Scrittura, non ha quella pienezza che lui sperava potesse sorgere.

Sperava che l’Ordine mendicante che doveva nascere potesse riparare quella Chiesa che andava in rovina. Ricordate il sogno di Francesco? Ma anche Francesco d’Assisi muore disperato. I suoi colloqui ultimi sono con un solo frate, con Frate Leone, e poi si accorge che la Chiesa stessa che da principio lo aveva accolto per poter riformare questa casa che andava in rovina elude il suo desiderio di profonda povertà.

Francesco d’Assisi diceva: i monaci non devono possedere la propria casa dove stanno, niente, devono essere mendicanti per essere segno che i poveri sono la voce di Dio su questa terra.

Chi piglierà il testimone di Gioacchino da Fiore?

Lungo questi 800 anni Gioacchino non ha mai cessato di essere una persona che turba. Forse lo studioso più rinomato di Gioacchino è il gesuita cardinale Henri De Lubac che ha scritto due grossi volumi di circa mille pagine su Gioacchino da Fiore. Il pensiero di Gioacchino, il suo desiderio di pace, di povertà, si infila perfino nell’aula conciliare al Vaticano II e tutti quelli che come Yves Congar auspicano un cambiamento della Chiesa, un nuovo atteggiamento della Chiesa verso il mondo, una Chiesa che faccia proprie le gioie, le speranze, il cammino arduo dell’umanità di questo mondo, tutti costoro attingevano a Gioacchino da Fiore.

E Spinoza, e Erich Fromm, per parlare di un laico, e Campanella, persone tutte che, ogni volta che hanno voluto parlare di speranza, non potevano non riferirsi che a lui.

Io non so oggi se siamo pronti a prendere noi il testimone.

Quando si parla della necessità di spiritualità, non so cosa s’intende: che le chiese si riempiano? Ma già, forse, sono piene. Che si dicano più rosari? Ma quanta gente, anziana e non anziana, oggi prega! Non è questa la spiritualità o, meglio, non si tratta di aumento di cose spirituali, perché se una cosa è importante oggi è smetterla con questa dicotomia di una vita ordinaria, là dove io vivo secondo il mondo, e poi una vita in chiesa, dove io ascolto la parola del Signore e dico: ma quanto è bello!

Peccato che non lo posso dire. E’ importante che le due cose vadano insieme. La spiritualità di cui si parla è un modo di vivere la mia vita quotidiana, vivere tutto secondo questo Spirito di Dio: cioè, l’altro è mio fratello, né da depredare, né da ingannare, ma da amare e servire.

Quando tutto questo non sarà oggetto di un battimani, ma sarà esperienza, allora, forse, potremo dire che siamo degni di essere cittadini di una città come San Giovanni in Fiore.

FIN QUI IL DISCORSO DI PADRE SCALIA.

UN PREMIO MERITATO A UN GESUITA SCOMODO

Il discorso in piazza per parlare della spiritualità di Gioacchino è stato sicuramente un evento singolare. Il giorno dopo, Padre Scalia ha scritto in un messaggio ad uno dei componenti dell’Associazione Florense per lo Sviluppo Creativo:

“E’ andata! Per me era una scommessa dire cose molto serie e complesse in modo semplice. Ma l’ho sempre creduto possibile. La gente è stata molto attenta e spero di aver soffiato un poco su un fuoco inconsciamente acceso in tanti”.

Tra quanti hanno ascoltato il discorso di Padre Scalia, c’è stato chi l’ha giudicato un discorso alternativo, senza precedenti.

Comunque può essere considerato un documento che contribuisce a legittimare il “Premio speciale”.

Avrà un seguito questo discorso nella comunità civile e in quella ecclesiale di San Giovanni in Fiore?

Avrà un’eco al di là di San Giovanni in Fiore e della Calabria?

Padre Scalia è Gesuita come Papa Francesco. Oggi si respira un clima nuovo nella Chiesa che fa bene sperare nel processo della sua riforma. Lo si è avvertito anche ieri sera con la Veglia per la Pace, in Piazza San Pietro.

Padre Scalia, “gesuita scomodo”

Padre Scalia ha curato il libro “La teologia scomoda. Il ‘caso Sobrino’” (edizioni la meridiana, Molfetta, 2008).

“Si può dire che Sobrino sia uno degli ultimi pilastri della teologia della liberazione. Unico scampato all’eccidio dei sei gesuiti dell’Università del Centro America (UCA – San Salvador) avvenuto su mandato di gruppi politici e paramilitari, su di lui continua a concentrarsi l’attenzione della Congregazione per la Dottrina della Fede” (dal risvolto della prima di copertina).

Padre Scalia dissente per quanto è possibile, “da un ritorno a quella cristologia astratta che nutre la mente dei dotti ma non cambia la vita dei cristiani” e s’inserisce “nel rinnovato interesse per la figura, la persona e il messaggio di Cristo che da alcuni anni a questa parte esce dal dominio dei teologi di professione per ritornare a essere oggetto di dibattito e motivo di speranza per credenti e non credenti”.

“Forse stiamo riscoprendo, come popolo di Dio, che il discorso su Gesù di Nazareth non si riduce alla sua straordinaria persona, alla sua particolarissima misteriosa natura di uomo Dio, ma include il nostro destino di uomini, il motivo e l’appello della nostra adesione a Lui, il senso da dare al nostro passaggio nella storia. Da una rivisitazione più evangelica di Gesù, dal guardarlo, ancora una volta, dalla parte dei poveri cui si rivolse e che Lui dichiarò ‘beati’ e ‘luce del mondo’, può venire quel rinnovamento della Chiesa che ritrova così la sua intima essenza di lumen gentium, di luce per il mondo” [5].

Palmi, 8 settembre 2013

Raffaello Saffioti

Centro Gandhi

raffaello.saffioti@gmail.com


NOTE

[1] Il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti fu istituito nel 1982 ed ha come primo fine, “la promozione e lo svolgimento di attività di studio e di ricerca attinenti alla vita, all’opera ed ai tempi di Gioacchino da Fiore”.

Come si legge sul sito internet, “nel corso dell’ultimo ventennio si è verificata una straordinaria fioritura di ricerche e pubblicazioni sulla figura e sul messaggio di Gioacchino da Fiore”.

E il Centro è stato “punto di riferimento, di coordinamento e di propulsione di questa straordinaria ripresa d’interesse verso l’Abate di Fiore”.

Padre Scalia ha riconosciuto il Centro come “una delle cose belle di San Giovanni in Fiore, da custodire e favorire.

[2] Danilo Dolci, Gente semplice, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze), 1998, pp. VII-IX.

[3] Per riportare il discorso, è stato utilizzato il filmato di Sila Tv.

[4] L’articolo “Il ripudio della guerra nella città di Gioacchino da Fiore” sul giornale on line “il dialogo” (www.ildialogo.org) del 21 agosto 2013 e sulla rivista “mosaico di pace” on line (www.mosaicodipace.it) del 22 agosto 2013 riferisce su quella Giornata.

[5] Felice Scalia (a cura di), La teologia scomoda. Il “caso Sobrino”, edizioni la meridiana, Molfetta (BA), 2008, pp. 11-12.




Lunedì 09 Settembre,2013 Ore: 08:04