L nonviolenza in Italia
LA NONVIOLENZA TRA NATURA E CULTURA
ESPERIENZA E RIFLESSIONE

di Raffaello Saffioti

Ringaziamo Raffaello Saffiotti per averci inviato il testo della sua risposta ad una intervista sulla nonviolenza in Italia promossa dal Centro di Ricerca per la pace di Viterbo.
Una sola risposta a settanta domande
Il questionario con settanta domande proposto da Paolo Arena e Marco Graziotti sul tema “La nonviolenza oggi in Italia” è oggetto di una mia libera interpretazione e viene da me colto come occasione per riflettere sulla esperienza della mia vita.
Cercherò di elaborare una sola, organica risposta, unendo pensiero e vita, per non essere schematico e frammentario.
Ho già varcato la soglia dei settant’anni  che sono più di due terzi di un secolo e mi viene in mente lo scritto autobiografico di Aldo Capitini, “Attraverso due terzi del secolo”, che considero un esempio utile per tentare un bilancio consuntivo della vita finora vissuta.
Essendo nato nell’anno dello scoppio della seconda guerra mondiale, la mia prima infanzia è stata segnata da una esperienza allucinante, quella dei bombardamenti alleati del settembre del 1943 che hanno colpito anche la piccola stazione ferroviaria delle Ferrovie Calabro-Lucane di Sinopoli, dove mi trovavo, in provincia di Reggio Calabria. Sono vivo per miracolo e posso dire di aver visto la guerra in faccia. La mia avversione alla guerra è nata sicuramente anche da quella drammatica esperienza.
Quando ho letto per la prima volta il saggio di Erasmo da Rotterdam “Dulce bellum inexpertis” (“Chi ama la guerra, non l’ha vista in faccia”), in Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi (Einaudi, 1980), ho pensato che quelle parole valevano anche per me.
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Dalla Calabria al mondo
Pur essendo nato in una terra, quella calabrese, segnata profondamente dalla violenza della mafia, crescendo ho avvertito come fosse innato in me un senso di avversione verso ogni forma di violenza.
E studiando, mentre crescevo, ho imparato che l’uomo non è violento per natura.
Erasmo, nel saggio già citato, scrisse:
“… anche chi si limita a considerare la conformazione esteriore del corpo umano, capirà subito che la natura (o meglio Iddio) ha creato questo essere non per la guerra ma per l’amore, non per lo sterminio ma per la salvezza, non per fare il male ma per fare il bene” (p. 201).
E’ antica la questione se gli uomini siano violenti per natura. Ora, moderni studi interdisciplinari spiegano come “il nostro comportamento sociale non possa essere definito prima della nascita e quindi la violenza non possa essere nei nostri geni” (dalla quarta di copertina di Piero P. Giorgi, La violenza inevitabile: una menzogna moderna. Origini culturali della violenza e della guerra, Jaca Book, 2008).
Fin dagli anni della mia prima formazione culturale ho anche avvertito un fortissimo bisogno di nutrirmi della tradizione culturale più profonda della mia terra. Cercando l’anima profonda della Calabria ho appreso quanto fosse ricca e antica questa tradizione.
E’ una tradizione di ben venticinque secoli che si può fare risalire all’età della Magna Grecia e, in particolare, alla scuola di Pitagora, fiorita a Crotone nel VI secolo a.C. Di Pitagora è scritto che “rifuggiva dall’assassinio e dagli assassini che non solo si asteneva dal mangiare esseri viventi, ma non frequentava mai né macellai né cacciatori” (Porfirio).
Nell’età medievale l’anima utopica e profetica della Calabria si incarnò tipicamente in Gioacchino da Fiore, vissuto nel XII secolo, ricordato da Dante nel canto XII del Paradiso.
Per l’età umanistica e rinascimentale ricordo il contributo dato dai monaci calabresi e dai filosofi Bernardino Telesio e Tommaso Campanella.
Pitagora, Gioacchino da Fiore, Campanella possono essere considerati le pietre miliari di questa storia. 
Questa tradizione arriva fino ai nostri giorni, rinnovata dal pensiero e dall’opera del filosofo Domenico Antonio Cardone (Palmi, 1902-1986). Cardone fu candidato al Premio Nobel per la Pace nel 1963, per il suo impegno per la pace “con una serie ininterrotta di scritti ed iniziative”. Tenace fu la sua iniziativa con cui cercò di realizzare una “intesa etica tra i filosofi di tutto il mondo”, quali che fossero le metafisiche di ciascuno. Fondò la Società Filosofica Calabrese (1948-1979), riconosciuta fra le 39 Società fondatrici ad Amsterdam della Fédération Internationale des Societés de Philosophie. Fu cofondatore e direttore della rivista “Ricerche Filosofiche” che durò trentacinque anni (1931-1967). Ebbe con Capitini un rapporto di amicizia, documentato anche dalle lettere conservate nell’Archivio Capitini presso l’Archivio di Stato di Perugia. Può essere inserito, per il suo pensiero e per le sue opere, nella corrente della “filosofia profetica” e merita il titolo di “filosofo della pace e della nonviolenza”.
E’ stato uno dei miei grandi maestri.
Lo scrittore Leonida Répaci, altro illustre figlio della Calabria, ha scritto dei grandi calabresi:
“Sono gli uomini universali, gli uomini necessari, gli uomini chiave, nel cui genio, nella cui fede, nella cui opera si riconosce un secolo e, a volte, un’ èra; sono i vertici della piramide della civiltà; sono i fiori più rari della pianta umana…” (Calabria grande e amara, Rubbettino, 2002, p. 78).
Da questa storia ho imparato che sono falsi tanti pregiudizi e tanti luoghi comuni che colpiscono la regione calabrese. Ma ho imparato anche che la terra è una sola, come una sola è la famiglia umana e siamo tutti cittadini del mondo.
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Il periodo giovanile
Gli anni che vanno dal ’60 al ’70, che corrispondono al periodo giovanile, sono quelli che considero determinanti nel percorso di formazione della mia personalità. Sono anche anni densi di avvenimenti e movimenti storici.
Avendo avvertito i gravi limiti del corso di studi, anche universitari, mi sono aperto ad esperienze associative, prima tra tutte quella nella FUCI. Facendo leva sull’impegno personale di autoeducazione, negli anni del Concilio e del post-Concilio, ho scoperto i più grandi maestri della nonviolenza, maturando la mia formazione attraverso la lettura di testi che possono ormai essere considerati classici della nonviolenza.
Dopo la laurea, intorno alla metà degli anni ’60 è maturata la mia vocazione professionale con la scelta dell’impegno educativo, come scelta di vita, prima che uscisse Lettera a una professoressa, della Scuola di Barbiana. Una particolare citazione merita la Lettera ai giudici, di don Milani, del 1965, per una sottolineatura: “Ho evitato apposta di parlare da non-violento. Personalmente lo sono. (…) Ma la non-violenza non è ancora la dottrina ufficiale di tutta la Chiesa”. Nella lettura di un altro testo, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana  (Mondadori, 1970), avevo dedicato una particolare attenzione alle due lettere a Aldo Capitini.
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La scelta educativa
Aldo Capitini è uno dei maestri che più hanno influito sulla mia formazione culturale.
Tra le sue opere, i due volumi di Educazione aperta (La Nuova Italia, 1967, 1968) hanno suscitato il mio interesse fin dai primissimi anni del lavoro nella scuola.
Ma la lettura di tante altre sue opere è servita alla mia crescita e alla conoscenza del suo pensiero.
A questo punto mi viene opportuna la citazione di due opere: Discuto la religione di Pio XII (Parenti, 1957) e Severità religiosa per il Concilio (De Donato, 1966).
In questo mio itinerario culturale è maturata una visione del mondo e della vita nella quale c’è un nesso tra religione, politica ed educazione, nella loro reciproca autonomia.
Gli anni del Concilio Ecumenico Vaticano II avevano alimentato in me la speranza della riforma religiosa. Ma i documenti approvati dal Concilio hanno parzialmente deluso quella speranza, in particolare la costituzione dogmatica Lumen gentium e la costituzione pastorale Gaudium et spes.
Deludenti furono i risultati del Concilio in ordine ai temi della pace e della nonviolenza. La nonviolenza risultò incompresa e innominata.
L’esperienza che andavo facendo negli anni del post-Concilio nelle comunità cristiane di base mi ha fatto comprendere la contraddizione tra la costituzione gerarchica della Chiesa e il messaggio evangelico.
L’esperienza di miei contrasti personali con l’autorità ecclesiastica ha messo progressivamente in crisi il mio rapporto con la Chiesa-istituzione. Progressivamente la mia posizione è divenuta quella di Aldo Capitini, espressa nelle parole conclusive dell’opera già citata, Severità religiosa per il Concilio:
“Severità religiosa per il Concilio;
rispetto per la Chiesa;
affetto per i cattolici” (p. 136).
E la mia fede religiosa divenne sempre più laica.
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La mia esperienza educativa nella scuola superiore è stata ispirata ai principi e ai valori della Costituzione: la democrazia, la pace, la giustizia, la libertà. Ma, paradossalmente, il rispetto di questi principi e valori mi ha messo talvolta in conflitto con l’autorità scolastica.
Ho sperimentato come la scuola reale spesso calpesta quei principi e valori, pur professati formalmente. Progressivamente ho sperimentato che la scuola è un’istituzione violenta e criminale quando adotta metodi didattici che violano diritti fondamentali degli studenti, come la libertà di apprendimento, la libertà di pensiero, la libertà di coscienza, e castrano la loro creatività. E’ violenta la scuola del plagio, del conformismo, della competitività, la scuola che uccide lo spirito critico.
Una volta una ragazza ha scritto: “Ove manca il vero educatore, il dominio c’è anche a scuola: la penna dell’insegnante è una lupara, non fa sangue, ma domina la mente e noi nemmeno ce ne accorgiamo. La scuola diventa una droga. Chi non si esercita a pensare, a dire la sua, si addormenta”.
Ho cercato di mettere in pratica la lezione di don Milani:
“La scuola siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi… E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i ‘segni dei tempi’, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso” (Lettera ai giudici).
Ho dovuto fare un continuo lavoro di autoformazione e autoaggiornamento professionale. Avendo fatte mie le acquisizioni della moderna scienza dell’educazione, per essere all’altezza del compito, ho trasformato, nella pratica scolastica quotidiana,  l’aula-auditorio in aula-laboratorio.
La mia esperienza educativa è stata variamente documentata.
Nel 1991 una testimonianza di questa esperienza è stata data da me con una rappresentanza studentesca e col Preside dell’Istituto Magistrale “Corrado Alvaro” di Palmi, dopo un invito, nella Scuola di Pace di Boves. Documento qualificante di quella testimonianza è il Quaderno n. 5, “Testimonianze”, della Scuola di Pace di Boves, dell’anno scolastico 1990-91. Il Quaderno è poi stato riportato nel volume Verso la Pace. 5-Tutela e promozione dei diritti umani (Editrice Elle Di Ci, 1992), col titolo “Un laboratorio di educazione alla nonviolenza in Calabria”.
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Nel 1986 a Barbiana con Danilo Dolci
L’impegno educativo mi ha portato a incontrare la prima volta Danilo Dolci in un seminario di educatori amici della nonviolenza a Barbiana, nel 1986, nei locali che furono della scuola di don Milani. Quell’incontro ha segnato la mia esperienza in modo decisivo, e il rapporto con Dolci è proseguito quasi fino alla sua morte (1997). Molte tracce di questo rapporto sono sparse in varie sue opere. Sono stato fortunato a conoscere quest’uomo che ormai è considerato uno dei più grandi maestri della nonviolenza e ho ancora un certo pudore, come ho detto altrove, a parlare del cammino che ho fatto con lui sulla strada della nonviolenza.
Non dico qui quanto io abbia imparato da lui.
Il lavoro nella scuola è durato fino al 1998, interrompendosi bruscamente con le mie dimissioni per protesta contro le autorità scolastiche, per motivi di coscienza, dopo aver inutilmente denunciato gravi atti di ingiustizia commessi dalle stesse autorità nei miei confronti.
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Studi e iniziative per la nonviolenza
Uscito dalla scuola, l’attività che ho svolto in questi anni si è caratterizzata per l’impegno a promuovere la cultura della pace e della nonviolenza, in forma organizzata a livello sociale, coniugando cultura e politica, studi e iniziative, secondo la lezione dolciana.
Il centenario della nascita del filosofo Cardone, nel 2002, è stata occasione per impegnarmi con altri amici nella costituzione nella mia città di una associazione a lui intitolata, con lo scopo di promuovere la conoscenza del suo pensiero e della sua opera, in particolare, e la cultura della pace e della nonviolenza, in generale.
Questa associazione si è impegnata per la realizzazione di un progetto di Casa per la Pace in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Palmi, assumendo la denominazione di Associazione Casa per la Pace “D. A. Cardone”.
Sono nati rapporti molteplici con le altre Case per la Pace esistenti in Italia, con il Movimento Nonviolento, con i vari centri di studi e di ricerca italiani.
Il mio rapporto principale è con il Centro Gandhi di Pisa e la rivista “Quaderni Satyagraha”.
Vado sempre più rinsaldando il rapporto con il “Centro di ricerca per la pace” di Viterbo, collaborando con il suo notiziario telematico, diretto da Peppe Sini.
L’ultimo periodo della mia vita è stato quello più ricco di esperienza associativa, conseguenza dei rapporti creati dal lavoro con Dolci, non solo a Palmi e in Calabria ma anche in varie parti d’Italia. Nei vari incontri, molti dei quali nelle scuole, e negli annuali seminari nazionali, da lui organizzati, veniva sperimentato il funzionamento della struttura maieutica.
Per anni abbiamo lavorato su una Bozza di Manifesto sul “Comunicare” da lui proposta, che si è via via arricchita con i contributi di singoli e di gruppi, di edizione in edizione, fino all’ultima contenuta in Comunicare, legge della vita (La Nuova Italia Editrice, 1997).
Da citare, infine, una delle sue ultime opere, pubblicata l’anno prima della morte, La struttura maieutica e l’evolverci (La Nuova Italia Editrice, 1996), il frutto più maturo del suo pensiero.
“Il processo di comunicazione, in cui ognuno risulta educatore-educando, richiede che ognuno comprenda questo processo permettendo a ognuno di crescere insieme a ognuno, formando gruppi e sistemi diversi ma condividenti l’unità. Affinché questa necessità si esaudisca, occorre si diffondano strutture nella cui maieutica reciproca – come operano i vari gruppi con Danilo Dolci – i punti di vista e le intuizioni si trasformino in una nuova esperienza. Questi laboratori possono arricchire la mente e l’anima delle prossime generazioni dal basso generando la spinta evolutiva. Creando quanto prima una cosciente e complessamente determinata unitarietà in questo piccolo pianeta” (Ervin Laszlo, nella quarta di copertina di Danilo Dolci, La struttura maieutica e l’evolverci).
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Memoria e futuro
Prima di elaborare questa risposta al Questionario, in questi ultimi mesi mi sono molto impegnato nella riflessione sullo stato della nonviolenza, in occasione delle varie ricorrenze, cercando nel tesoro della tradizione della nonviolenza stessa “nova et vetera”, come lo scriba della parabola evangelica (Mt 13, 52). L’ultimo studio è stato per il centenario della morte di Tolstoj, come contributo al prossimo convegno che avrà luogo a Pisa, organizzato dal Centro Gandhi.
La mia ultima riflessione: il cammino della nonviolenza rimane arduo, irto di difficoltà.
I collegamenti con la rete della nonviolenza divengono sempre più necessari, per lo scambio delle esperienze e per l’aiuto reciproco.
Il nostro tempo ha bisogno non solo di profeti, ma anche, forse soprattutto, di testimoni capaci di inventare il futuro con la loro esperienza.
La mia ultima idea progettuale è la donazione del mio patrimonio bibliografico per:
1)      la costituzione di un Centro di Documentazione da intitolare a Danilo Dolci, con il ricco materiale da me raccolto prima e dopo la sua morte;
2)      la fondazione di una Biblioteca della Pace e della Nonviolenza, con annessa Emeroteca.
Palmi, 28 ottobre 2010
Raffaello Saffioti
rsaffi@libero.it
 


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