Notam

«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zc 8,16)


Notam

«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
Milano, 13 settembre 2010 - S. Giovanni Crisostomo - Anno XVIII - n. 357
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Giorgio Chiaffarino
Preparato da una sapiente strategia dell'attesa, che ha calamitato l'interesse trasversale nel paese alla fine di questa ennesima estate della chiacchiera e della rissa, Gianfranco Fini con il discorso di Mirabello ha spedito un missile che ha colpito nel segno. In Italia, in politica, gli esiti sono talvolta imprevedibili e l'esperienza ci chiede di essere molto prudenti, ma in questo caso non è azzardato dire che da ora in poi niente è e sarà più come prima. Le reazioni confuse e impraticabili -come la richiesta di dimissioni del presidente della camera da presentare addirittura direttamente al presidente della Repubblica- hanno dimostrato che, al di là di un numero probabilmente ancora vasto di fideisti, anche il popolo della destra si è reso conto che il re è nudo. Non fa certo problema la lista del fare che è stata snocciolata al popolo del partito del fare e dell'amore, ma tutto è cominciato da quel dito alzato che sotto il palco, in una delle rare pubbliche assemblee del Pdl, Fini ha indirizzato al padrone gridandogli: «Cosa fai, mi cacci?». Un gravissimo imperdonabile atto di lesa maestà, un vulnus che demolisce l'attuale applicazione -mutatis mutandis- del tristemente noto motto «tutto il potere a tutto il fascismo».
In precedenza l'opposizione -per certi versi inaspettatamente- aveva cercato di battere un buon colpo con una lettera indirizzata da Bersani a tutte le forze politiche che contrastano sì il capo del governo, ma soprattutto il berlusconismo, come degrado generale che sta producendo «una deformazione grave al paese» che sta per smettere di essere una democrazia per diventare un'altra cosa. La proposta del segretario del Pd era di «un nuovo ulivo con tutte le forze responsabili, anche quelle che in condizioni normali avrebbero una collocazione politica diversa per dare una alternativa al paese che si metta al servizio di una riscossa economica e civile». Ora tutto deve essere ripensato per abbandonare finalmente gli errori di un tatticismo che ha fallito, che non ha i toni giusti per scaldare i cuori e raccogliere il consenso della gente. Al momento anche i simpatizzanti capiscono poco su cosa dovrebbero simpatizzare.
Voltiamo pagina. Un bell'esempio invece ci viene dall'America. Per Obama l'obbiettivo non è durare, ma fare la cosa giusta, pazienza se poi non ti rinnovano il mandato. È questo il senso dell'accordo per la moschea a Ground Zero, la libertà religiosa è un must in Usa, oltre che il dettato del primo emendamento della costituzione. Il 65% dell'opinione pubblica è contrario, ma il presidente comunque sceglie la costituzione.
Ancora due notizie riconcilianti: l'annuncio -per l'iniziativa e la forte pressione Usa- del prossimo inizio dei colloqui ai massimi livelli tra israeliani e palestinesi, senza precondizioni. Una questione immane, epocale, dalla quale dipende anche molta della tensione in quell'area e nel mondo. La seconda è la partenza dell'ultimo contingente operativo Usa dall' Irak. È finalmente la fine, non di quella tragedia, ma di quella follia che non avrebbe mai dovuto neanche cominciare e i cui esiti erano scontati da (quasi) tutti i pensanti nel mondo.
in questo numero                              
U. Basso «C’È DEL MARCIO IN DANIMARCA» uM. Canaletti KÜNG: FEDELTÀ OLTRE LA DOGMATICAu abbiamo partecipato G. Chiaffarino DA EDIMBURGO A EDIMBURGO CENTO ANNI DI ECUMENISMO u il gioco di saper cosa si pensa TRE PROPOSTE ALLA CHIESA uR. Panikkar IL SENSO DELLA VITA u U. Basso DON PIERINO u film in giro e.b LE FORTUNE DELL’AMORE ROMANTICO – M. Canani BRIGHT STAR u segni di speranza s.f. I PUBBLICANI E LE PROSTITUTE VI PRECEDONO NEL REGNO DI DIO u schede per leggere m.c. u la cartella dei pretesti
«C’È DEL MARCIO IN DANIMARCA!»
Ugo Basso
Qualche settimana fa, mentre atterravo proveniente da Copenhagen, ho avuto la sensazione che l’aereo, toccando l’italico suolo, levasse alti schizzi di putridume: forse la sgradevole sensazione era sollecitata dai giornali italiani letti durante il volo. Nonostante il piacevole soggiorno, so poco del livello di corruzione del piccolo stato nordico: tuttavia la desolata constatazione, formulata nell’Amleto e divenuta proverbiale, mi è tornata alla mente molte volte fra castelli e boschi danesi. La corte di Danimarca rappresentata da Shakespeare sarà poco storica, ma vi sono rappresentati tutti i tempi, compreso il nostro, naturalmente.
Delitti per il potere; passioni che trascinano alla menzogna, dissolvono gli affetti, producono assassini; camere da letto che contano più dei luoghi della politica; intrighi internazionali; messaggi segreti; uomini politici in ruoli a cui sono del tutto inadeguati –davvero un topo quel Polonio infilzato dietro l’arazzo da cui spiava il principe- e i migliori soccombono, o sono costretti a fingersi pazzi per sopravvivere. Nulla di nuovo e in antichissimi racconti biblici possiamo trovare situazioni analoghe: tragico è che questo dejà vu non sia di aiuto a comprendere il presente, neppure da parte di cittadini che, non più sudditi, avrebbero qualche strumento per informarsi e per fare sentire la propria voce –non oso dire per esprimere quella sovranità solennemente riconosciuta dalla carta fondamentale dalle democrazie moderne.
Ricordiamo il più celebre brano del teatro di tutti i tempi: Sopportare, combattere o porre fine alla vita? si chiede il giovane principe di Danimarca. Come accettare ogni giorno l’arbitrio di chi comanda, l’incertezza della legge, l’insolenza dei potenti, il disprezzo che il merito patisce dagli indegni e Shakespeare ci aggiunge anche le sofferenze dell’amore non corrisposto? Non credo che sarebbe meglio non essere, e forse non è solo la paura del viaggio da cui nessuno è mai tornato a trattenere dal porre volontariamente fine alla vita. Vogliamo continuare a credere che una società migliore sia possibile, anche se la realtà è sconfortante e le armi per resistere secondo giustizia sembrano debolissime.
Ritroviamo la citazione del celebre marcio nella brillante farsa Settimo: ruba un po’ meno (1964), con la quale Dario Fo denuncia la corruzione della politica democristiana nei primi anni di governo in alleanza con i socialisti. «Che marcio che c’è in Danimarca!» commenta la becchina Enea –il padre non sapeva che fosse un nome maschile!- il discorso, riferito dai colleghi, con cui il sindaco ha annunciato lo spostamento del cimitero per farne un grande giardino che aumenterà il valore degli edifici, ovviamente privati, che vi si affacciano. Qualche decennio dopo non ci si preoccupa neppure di mascherare la speculazione con apparenze di pubblica utilità.
Anche chi non fa familiarità con il teatro forse sa della carneficina finale dell’Am-leto, con il palco ricoperto di sangue: spade e veleno non lasciano in vita nessuno dei personaggi principali sopravvissuti fino alla conclusione del quinto atto. Caratteristica della tragedia è rappresentare, attraverso gli avvenimenti narrati, metafore della vita e l’esito è sempre di morte: davvero non si esce senza il disastro che non risparmia né cattivi né buoni, posto che esistano dei buoni? «La colpa è tutta del re», esclama, con la consapevolezza del morente, Laerte che pure dagli intrighi non era stato estraneo. Shakespeare dunque riconosce la responsabilità dell’uomo: il male non è fatalità e personaggi positivi si affacciano sul palcoscenico della storia.
Compiuta la strage che ha trasformato la reggia di Elsinor in un campo di battaglia, compare infatti, fra fanfare e salve d’artiglieria, un personaggio nuovo, Fortebraccio, giovane principe di Norvegia. Si prepara a governare, immaginiamo in modo retto, rendendo onore al morto Amleto che, «messo alla prova del governo, avrebbe dimostrato tempra regale», cioè sarebbe stato meglio del corrotto re appena ucciso. Il sopravvissuto Orazio, il più prossimo e sincero amico di Amleto, chiude però con una considerazione che rende vana la speranza: «ora gli animi della gente stanno sospesi e sgomenti, temendo altri errori e intrighi che producano nuove sventure». La ricerca del bene comune prima di quello personale, la vigilanza, il rispetto della legge possono durare solo il tempo della generazione che ha fatto esperienza di tante sventure?
KÜNG: FEDELTÀ OLTRE LA DOGMATICA
Mariella Canaletti
Molti di noi conoscono Hans Küng, se non altro per averlo seguito attraverso articoli o interviste sui mass media; è comunque nota la sua storia e i difficili rapporti con la chiesa di Roma. Il teologo -così si definisce lui stesso- ha certamente una cultura immensa, interessi vastissimi, che si rispecchiano in tanti scritti, alcuni dei quali capaci di comunicare a chi non sa e ne ha interesse gli aspetti fondanti ed essenziali delle grandi religioni monoteistiche, il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Islam.
Il suo ultimo scritto, Ciò che credo (Rizzoli, 2010, pp. 352, euro 20,00), più di una professione di fede in senso tradizionale, è una lunga riflessione, «basata sull’espe-rienza e sulla conoscenza», che esprime «le convinzioni e gli atteggiamenti di fondo» che sono stati importanti nella sua vita, nella speranza che possano essere di aiuto, per trovare la propria strada, anche ad altri, essere cioè un «ausilio per orientarsi nella vita». Fra i molti spunti di stimolo, vorrei sottolineare quelli che mi hanno maggiormente coinvolto.
Anzitutto colpisce di Hans Küng il suo essereuomo autentico.Si presenta, infatti, come testimone non di astratti principi, ma calato nella realtà. Questo lo porta a cercare il senso della vita in quanto tale, come questione che riguarda tutti e da cui nessuno può essere escluso, così da ricercare i valori essenziali comuni, destinati a rimanere tali nel tempo. Sulla base di esperienze personali, confortato da una vasta conoscenza del pensiero filosofico e scientifico, mette fin dall’inizio l’accento sull’impor-tanza vitale di crescere in un clima di fiducia: se manca infatti questa dimensione essenziale, che non deve comunque trascurare i lati negativi della natura umana, difficilmente sarebbe possibile superare le crisi che l’esistenza riserva a ognuno.
Da questo atteggiamento positivo, che non è soltanto nel«patrimonio genetico o nell’inconscio, né è completamente condizionato dall’ambiente», nasce allora la consapevolezza della libertà, quella possibilità di scelta che forse non è teoricamente dimostrabile, ma che ognuno sente di vivere nella pratica quotidiana. Forte di questa convinzione profonda, Küng si batterà sempre per la definizione di una etica a cui tutto il mondo possa e debba ispirarsi (riceverà per questo nel 2008 anche un premio): sua è la frase «non c’è pace fra le nazioni senza la pace religiosa, non c’è pace religiosa senza dialogo fra le religioni».
Dal teologo ci viene, dunque, l’invito a non fermarsi mai; l’insegnamento, nato dalle battaglie sostenute, dalle mete raggiunte e anche dalle amare sconfitte, a lavorare su di sé per essere capaci di scegliere, accettarsi con i propri limiti e conoscere sempre meglio, ciascuno nel proprio ambito, il mondo e i suoi abitanti.
Hans Küng è dunque un cristiano aperto al mondo, senza paura: un esempio per chi voglia essere un credente consapevole, capace di rilevare i condizionamenti della dottrina, i legami con le culture dei tempi passati, per rimanere fedele al messaggio essenziale di Cristo così come tramandato dalle Scritture. Essere teologo, continuare a esserlo nonostante autorevolissime opposizioni, è davvero segno di una fede fondata, che riconosce e rispetta quella altrui, non rifiuta a priori il pensiero dei non credenti, fa proprie le domande scaturite dalla filosofia o dalla psicanalisi e dà conto senza arroganza di ciò che crede. Nel suo percorso che supera la dogmatica tradizionale, studia la Bibbia, tratta la storia della chiesa, dei concilii, dei papi in una prospettiva storica. Non rimuove i problemi posti frequentemente dalla scienza, cerca sempre di affrontare ogni interrogativo con lo strumento della ragione. Senza trascurare le domande poste dal male, vede l’abisso del mistero che nessuno riesce a spiegare fino in fondo; ma, fedele alla preghiera, sa che nella pratica è possibile affrontarlo e viverlo con la forza propulsiva spirituale che viene da Gesù Cristo, fonte di coraggio e fermezza, di serenità e di gioia. Gesù Cristo incarna in tutti i suoi insegnamenti e nel suo comportamento quell’amore che è essere per gli altri, fino al dono supremo di sé, vero modello da seguire nella vita.
Questo cammino, raccontato da Hans Küng con franchezza e passione, si trasforma in una prospettiva illuminante per il lettore, che viene preso per mano e accompagnato a interrogarsi sul senso della vita, a cercarlo e a sperimentarlo in tutte le circostanze. Per me, un faro per continuare a nuotare nel mare tempestoso di questo mondo, così difficile e povero di veri maestri.


abbiamo partecipato
DA EDIMBURGO A EDIMBURGO
cento anni di ecumenismo
Giorgio Chiaffarino
Lo sanno bene i nostri amici lettori, il Sae -Segretariato Attività Ecumeniche- è quella specialità tutta italiana di una associazione di laici che pretende di avvicinare le chiese. Anche quest'anno, l'ultima settimana di luglio, è stata riservata alla sessione che, a cento anni da quella che si considera la data di inizio del movimento ecumenico, ha avuto un sapore, se possibile, ancora più ricco del solito.
Relatori importanti, articolazione di grande rilievo sotto il titolo generale di «Sognare la comunione costruire il dialogo». So che dirò troppo poco per chi considera l'ecumenismo il primo modo di essere per chi confessa che «Cristo è il Signore» (Fil 2,11) e ha pregato «che tutti siano uno perché il mondo creda che Tu mi hai mandato» (Gv 17,21) e forse troppo per tutti gli altri, ma non riesco a evitare di ripercorrere la relazione del pastore Paolo Ricca, che opportunamente è stata posta all'inizio della settimana e -a mio avviso- ha dato il giusto tono a tutto l'incontro.
A Edimburgo, appunto cent'anni fa, i missionari evangelici delegati dalle loro chiese si riunirono nella Conferenza Missionaria Mondiale per cercare di dare nei paesi non cristiani una testimonianza come unica chiesa del Signore guidata dal suo Spirito perché, in effetti, la divisione è la prima grande controtestimonianza delle chiese. In quella occasione si pose anche il problema di un coordinamento per il quale, al termine dei lavori, si formò un Comitato di continuazione. La chiesa cattolica è assente: è il momento, non mai del tutto superato neanche oggi, dell'attesa di un ritorno, ma c'è una importante eccezione: il messaggio che Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, indirizza alla Conferenza nel quale esprime la sua accorata partecipazione e il suo augurio di successo[1]. Quando il messaggio fu letto il presentatore lo definì la parola di «uno dei grandi predicatori evangelici… uno dei più grandi vescovi del mondo». Come non consentire? Bonomelli è il nome che troviamo sul cammino di coloro che noi consideriamo maestri nella fede, per tutti il grande papa Giovanni XXIII.
Edimburgo oggi: dal 1° al 6 giugno si sono ritrovati i rappresentanti delle chiese cristiane a ricordare quel grande evento di allora e questa volta ha partecipato anche una delegazione della chiesa cattolica.
Dopo Edimburgo 1910 due grandi guerre mondiali segnano una sosta a qualsiasi dialogo. In mezzo, da parte cattolica, l'enciclica Mortalium animos del 1928 nella quale papa Pio XI respinge per tutti i fedeli qualsiasi contatto con gli acattolici e chiede «il ritorno dei dissidenti a quella sola vera Chiesa di Cristo che per volontà del suo Fondatore deve restare sempre quale Egli stesso la istituì per la salvezza di tutti». Ma lo Spirito è come il vento e «soffia dove vuole» (Gv 3,8): pochi anni dopo a Lione Paul Couturier animava la preghiera per l'unità che doveva poi diventare la Settimana di preghiera così come noi oggi la conosciamo.
Nel 1948 a Amsterdam nasce il Cec, Consiglio Ecumenico delle Chiese, una comunione fraterna, non gerarchica, alla ricerca di messaggi condivisi. Grande animatore di quella assemblea e suo presidente per i primi venti anni, il pastore olandese Willem Visser't Hooft.
Nel gennaio 1959 papa Giovanni XXIII annuncia il Concilio che si terrà dal 1962 al 1965: è il momento in cui si modifica l'atteggiamento della chiesa cattolica verso le chiese evangeliche o della riforma.
Qualche nota a margine:
1.       la chiesa cattolica non rinuncia a comprendersi come sempre si è compresa;
2.       l'ecumenismo tuttavia non è una iniziativa umana, ma dello Spirito;
3.       le chiese non sono prive di senso nella storia della salvezza;
4.       la riforma delle chiese deve essere continua;  
5.       fondamentale il riconoscimento che esiste una gerarchia delle verità (Unitatis Redintegratio 11).
Ma a che punto è oggi la speranza? si è chiesto il pastore Ricca.
Vi sono segni positivi: salvo gruppi marginali, l'ecumenismo è generalmente accettato dai cristiani, è una condivisione dei doni degli altri e la fine dell'autosufficienza. Non possiamo più essere cristiani da soli: senza scomuniche dobbiamo essere uniti nelle diversità riconciliate che sono per tutti una ricchezza.
Ma esistono anche segni negativi: le chiese non hanno perso la mentalità del monologo, parlano e pensano come se le altre non ci fossero. In Italia la parola è pre-ecumenica, si forzano i caratteri identitari…
Ma ora, anche in forza delle valutazioni del rapporto Kasper (pubblicato da Il Regno), si va facendo chiara l'idea di un ecumenismo a due velocità: quello istituzionale, che sostanzialmente è fermo se non regressivo, per esempio da parte cattolica rispetto a quanto affermato dal Concilio; e quello praticato tra i cristiani, un fenomeno ormai inarrestabile, che vive di una unione fraterna nella carità, nella preghiera, nello studio delle Scritture… Si tratta di una grande positiva novità che Paolo Ricca ha definito come l'esistenza di una chiesa ecumenica trasversale, espressione di una reale comunione di fede e di una comune testimonianza di Cristo verso l'esterno. Cento anni di ecumenismo sono come quelli di Giovanni Battista ai tempi di Gesù: anni per preparare le vie del Signore. Parafrasando il titolo dell'incontro, ha concluso indicando a tutti l'impegno di affermare la comunione e concludere il dialogo.
 

Ringraziamo sin d'ora gli amici che ci segnaleranno l'indirizzo di persone che potrebbero essere interessate a questa pubblicazione e anche quelli che la inoltrano attraverso la propria mailing list.

il gioco di saper cosa si pensa
TRE PROPOSTE ALLA CHIESA
Irritazione e nostalgia, tolleranza e rifiuto, fiducia e scandalo: riprendiamo a proporre i suggerimenti ( in poche righe) che gli amici lettori rivolgerebbero alla chiesa di Roma, o, ancor meglio, ai suoi dirigenti. L’invito è ancora aperto a chi volesse aggiungersi.
uMargherita Zanol si indirizza ai vertici del Vaticano, in particolare alla maggioranza dei suoi esponenti più visibili -quelli che intendono fare la linea-, tuttavia consapevole che ci sono tantissimi preti, sconosciuti o noti, testimoni di Gesù e impegnati sul territorio, come don Mazzolari, don Milani, don Ciotti o i vescovi Bregantini e Martini; talvolta fino a morire, come don Puglisi, don Santoro o il vescovo Padovese; tutti che ci aiutano nel nostro cammino. 
Coraggio: di chiamare le cose con il loro nome; di affrontare con chiarezza il dissenso dei potenti; di accomunarsi ai deboli, ai fanciulli, agli emarginati. Gesù ha fatto questo nella sua vita pubblica: ha pranzato da Zaccheo, ha parlato con la Samaritana e ha accettato la sua acqua, ha parlato ai Sacerdoti, ai Farisei, a Erode e a Ponzio Pilato. Le sue parole a questi ultimi, durante la passione, sono un esempio grande di che cosa significhi essere nel mondo, ma non del mondo.
Comprensione: nel senso di capire. Pare che il dolore e le istanze di tanti cristiani di Occidente che vogliono da loro comportamenti -non solo parole- conformi al vangelo non siano intesi; pare che le priorità non siano nelle parole di Gesù, ma in altro, più mondano. È lo stesso scollamento tra i potenti della terra e il resto del mondo. Ma perché si sono allineati con la loro ipocrisia?  
Coerenza: la chiesa discende da Pietro che, quando Gesù chiese: «Volete andarvene anche voi?», rispose: «Maestro, dove vuoi che andiamo? Tu solo hai parole di vita eterna». Questa risposta dovrebbe essere uno schierarsi, non un annidarsi. E allora perché non danno a Cesare quello che è di Cesare? Perché il non pagare le tasse non è un argomento di richiamo? Perché tanti privilegi sulla loro roba? Perché tanta intransigenza sui divorziati separati e tanto silenzio sugli immorali comportamenti delle banche (IOR incluso)? Perché infrangere il sesto comandamento è peccato grave, ma non quando lo infrangono i soliti noti (che peraltro se ne vantano)? Davvero bastano i finanziamenti alla scuola cattolica per accontentarli e tacitarli?
uMaria Pia Cavaliere rivolge le sue proposte alla chiesa tutta, non solo alle gerarchie
Ascolto: «Nutriti della Parola, ascoltare la vita». L’ascolto della Parola è fondamentale, perché permette di entrare in rapporto con Gesú, ma il Signore continua a parlarci nella vita ed è rileggendo la vita alla luce della Parola che possiamo tener viva la fede, senza paralizzarla in una dottrina.
Testimonianza: è il compito della Chiesa, ma testimonianza «della misericordia di Dio», non ritenendoci giusti (e coprendo disfunzioni e conflitti), ma riconoscendoci peccatori perdonati e quindi capaci di accogliere fraternamente ogni fragile creatura e di ricominciare assieme.
Speranza:occorre alimentarla in se stessi per renderne conto agli altri (1 Pietro 3,15) e per comunicarla. Per cambiare qualcosa occorre fondarsi su una speranza viva che permetta la fiducia in Dio e negli altri. Certe chiusure della gerarchia sembrano talora manifestare una mancanza di speranza.
uElena Milazzo Covini avvia i suoi suggerimenti dalla lettera A
A come ascolto. La Chiesa ascolti, ascolti la voce dei piccoli e dei poveri. Si spogli della sua erudizione e ascolti la sapienza rivelata ai piccoli.
A come accoglienza. La Chiesa accolga l'Altro e nell'altro cerchi e trovi i tratti del volto sconosciuto di Cristo. La Chiesa accolga, comprenda e condivida.
A come amore. La Chiesa porti nel mondo l'Amore di Dio. Un Dio paterno, misericordioso, più padre che giudice, che dona Colui che gli è più caro perché il mondo capisca l'immenso mistero del suo Amore.
Queste sono le cose fondamentali... poi nei particolari... ma non ci si starebbe in dieci righe.
uEd ecco le tre proposte di Giorgio Chiaffarino
Vorrei proporre alla mia chiesa, a tutti, ma in modo specialissimo ai pastori e al pastore dei pastori, di ritornare su alcune riflessioni a partire dal Vangelo che abbiamo ricevuto.
La misericordia. Dice il Signore: «Guai a voi, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi non li toccate nemmeno con un dito!» (Lc 11,46) e ci ricorda che «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!» (Mc 2,27). La chiesa, che è stata definita "Madre e maestra", non trascuri mai di essere prima "madre".
L'unità. E poi la speranza che la chiesa trascuri di forzare gli aspetti identitari per obbedire all'ultima preghiera di Gesù: «Perché tutti siano una sola cosa… perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).
L'ascolto dello Spirito. Quello che unisce i cristiani è largamente più grande di quello che li divide e Lui ci ha detto che «Tutte le colpe saranno perdonate ai figli degli uomini... ma le colpe contro lo Spirito santo, non avranno perdono in eterno» (Mc 3,28-29).
 
IL SENSO DELLA VITA
La vita è un dono; vivere la vita è una grazia. Il senso della vita è giungere a scoprire la pienezza dell’uomo, quindi la nostra pienezza. Questa pienezza è la realizzazione della persona nella sua triplice dimensione di corpo (cosmo), anima (umanità) e spirito (divinità), partecipando alla perichorésis (termine greco introdotto dai padri della chiesa e ripreso da alcuni teologi contemporanei con il significato di compenetrazione di essenza e compartecipazione di volontà fra le persone della Trinità, ndr) di tutta la realtà.
Il cammino è vivere questa spiritualità cosmoteandrica (aggettivo proprio della teologia di Panikkar che pensa alla vita come unità di naturale, umano e divino, ndr): amare il divino nel cosmo (nel creato e nelle creature e quindi riconoscerlo in noi stessi) senza limitarlo a esso, riconoscere il Padre nel Figlio, brahman nell’atman, nella loro relazione a-duale (advaita), grazie allo Spirito, facendone esperienza in noi stessi, icone della Realtà (Trinità).
L’esperienza di Dio non è impossibile; quella di un dio che non esiste, sì. Non l’esperienza di un altro; è l’esperienza della realtà della quale noi siamo uno specchio, e questa realtà che vediamo riflessa in noi è Amore. L’amore è relazione, e Dio è amore, e l’amore è Dio. Se Dio è relazione non è sostanza, è il polo della relazione di cui siamo l’altro polo.
RAIMON PANIKKAR (1918-2010): Pellegrinaggio al Kalilasa, Servitium 2006.
 
DON PIERINO
Ugo Basso
«Uomo di periferia, e quindi proletario, un po’ confuso nella nebbia padana» si definisce Pietro Cavagnaro, prete amico di Notam, scomparso a ottantatre anni lo scorso luglio, che forse pochi anche fra noi hanno conosciuto personalmente. E pochissimi lo avranno sentito al pianoforte –credo avesse anche qualche diploma di conservatorio- nello studio della sua parrocchia di campagna dove viveva con alcuni gatti a cui era molto affezionato. Nessuno credo abbia mai letto nulla di suo, salvo qualche lettera, perché nell’umiltà dell’affettuoso ironico diminutivo con cui era conosciuto, riteneva «banali e insignificanti» i suoi pensieri tanto da cestinarli sistematicamente le poche volte che arrivavano sulla carta, benché conoscesse l’arabo e l’ebraico, con una capacità di sintesi teologica originale.
L’avevo conosciuto insegnante di religione cattolica al “Virgilio”, a Milano, dove già negli anni ottanta sosteneva la necessità per i nostri studenti di un corso organico si storia delle religioni non confessionale, avviato proprio in quel periodo in forma sperimentale nell’istituto, come alternativa all’insegnamento confessionale. Anche per quello, insieme alle sue posizioni di rifiuto delle condanne plateali nelle grandi polemiche del tempo sul divorzio e l’uso degli anticoncezionali si era meritato una aggressiva emarginazione dal forte gruppo di CL: che altro dovrebbe fare un prete, si chiedeva, che comprendere e perdonare? Aperto il dissenso, ma senza polemiche, ironie, rivendicazioni. 
«L’era berlusconiana, e l’era woytiliana non sono mai stati il mio mondo. Ma sarà giusto vivere in un altro, oppure gettarsi a capofitto contro questo?», mi scrive il 12 dicembre 2003. Sente fortemente il suo ruolo di prete, non possessore di verità, ma presenza tra i fratelli e sente comunque di non poter tacere. L’11 luglio 2006 mi scrive: «Cerco di vivere secondo il dettame di Friedrich Bonhoeffer: “pregare e fare la giustizia” […] Pregare perché si realizzi in tutti coloro che amo e che ricordo la volontà di Dio, il loro bene, i loro sogni. Fare la giustizia, cioè adempiere ai propri compiti. Ma io sono sempre mancante in tutto […] Dovrò pentirmi per tutta la mia esistenza».
Con una grafia incerta, che rivela la salute ormai seriamente compromessa, accompagna gli auguri per questo 2010 con «la speranza che qualche ideale si mantenga sotto la cenere, sperando che serva a qualcuno». È la speranza che anima il nostro lavoro, che don Pierino aveva seguito fin dai primissimi anni, quando ancora si muoveva con facilità dalla sua parrocchietta nel basso Piemonte e partecipava regolarmente alle nostre riunioni domenicali sulla scrittura.
 
Film in giro
LE FORTUNE DELL’AMORE ROMANTICO
Romantico nella poesia e nella vita, melanconico, giovane morto giovane, di tisi come si usava all’epoca, John Keats (Londra 1795-Roma 1821) ha tutti i requisiti per varcare le soglie del mito ed espandere la sua ombra oltre la letteratura. Ecco allora tutto un fiorire di segnali di fama imperitura anche nei nostri tempi tecnologici: sito internet dedicato (john-keats.com), presenza negli scambi di social network, pubblicazione di una nuova biografia, un film, una sua poesia (When I have fears that I may cease to be – Quando la paura mi prende di morire) messa in musica –c’è anche una versione per suoneria di telefonino!- dagli Aesma Daeva, band made in USA, nome dell’antico demone persiano dell’ira e della vendetta, genere Symphonic metal dalle forti tinte malinconiche (in rete: www.youtube.com/watch?v=Eq0qX7X5vpY). Del resto –segno del destino?- Keats si ritirava a pensare e scrivere sull’isola di Wight dove più in là nel tempo (1969 e dintorni) si sarebbero consumati riti di musica rock con la presenza di altrettanto mitici personaggi, anche se di diversa gloria, come Bob Dylan e Jimi Hendrix. Non male per chi ha voluto concludere la scritta sulla propria lapide con un  «Here lies one whose name was writ in water - Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua». (e.b.)
 
BRIGHT STAR
di Jane Campion, Regno Unito/Australia/Francia, 2009, drammatico/storico, colore, 119 min.
Marco Canani
Perdonami se divago un poco stasera, è perché sono stato tutto il giorno impegnato a scrivere un Poema molto astratto e sono assolutamente innamorato di te, due cose che devono servire a scusarmi.
Così scriveva nel 1819 il poeta inglese John Keats alla sua amata, Fanny Brawne, delineando quelle due grandi passioni che la regista neozelandese Campion ha saputo fondere nel film sugli schermi a pochi mesi dalla pubblicazione di un’omoni-ma biografia romanzata del poeta (Elido Fazi, Bright Star: la vita autentica di John Keats, Fazi editore, 2010).
Nei sobborghi londinesi del 1820, all’indomani delle critiche che hanno accolto con scarso favore il suo Endimione, Keats divide le sue giornate tra il febbricitante impegno artistico e l’amore che lo avvicina alla determinata figlia dei coinquilini. Poesia e passione si intrecciano lungo l’asse di un’esistenza precaria, minata, oltre che dalle condizioni economiche, da quelle di salute, che portano il poeta in un ultimo viaggio verso quella stanza sulla scalinata di Trinità dei Monti (oggi un museo) da cui non farà più ritorno.
Keats, romantico nel senso letterario oltre che sentimentale del termine, vorrebbe persino troncare i rapporti con Fanny prima del tempo, così da lasciarle un motivo a cui attribuire il suo dolore prima che il fato faccia il suo corso. L’immagine più adatta a riassumere la loro storia sembra quella di «amanti segnati dal destino» di cui aveva parlato, un paio di secoli prima, quello che probabilmente fu il terzo amore del poeta, Shakespeare: Keats, che vediamo assistere il fratello stroncato dalla tisi che lui stesso contrae, è da subito consapevole della sua sorte. Forse è anche per questo che la testimonianza più profonda della sua vita, privata e artistica, ci viene dalle sue lettere che, nel film, compaiono più volte a vari destinatari. Una corrispondenza che si contraddistingue per una sensibilità anche letteraria tale da essere considerata opera artistica, come riconoscono anche le recensioni di alcuni degli utenti di aNobii, il social network dedicato alla letteratura. Le lettere di Keats, giunte fino a noi (John Keats, Lettere sulla poesia, Universale Economica Feltrinelli), oltre a essere una piacevole lettura testimoniano anche della fedeltà della trasposizione filmica che Jane Campion ha saputo rendere degli ultimi anni della vita del poeta.
Oltre alle figure che si muovono in primo piano, fra salotti ottocenteschi e prati – che tra il candore invernale e la colorata vivacità primaverile scandiscono con precisione il trascorrere del tempo – l’altra vera protagonista del film è la poesia: quella che Keats tenta di comporre in attimi di «indolenza creativa» insieme all’amico Brown, quella che giace sugli scaffali polverosi delle librerie e quella che viene recitata su richiesta, magari durante una cena o un ciclo di lezioni pomeridiane. È la poesia, che si respira dalla prima all’ultima scena, la vera ragione della breve ma intensa esistenza del protagonista morto venticinquenne. Un poeta destinato a entrare nella storia, eppure spentosi nella convinzione, ricordata prima dei titoli di coda, di avere fallito. Bright Star, la «fulgida stella» del sonetto che Keats scrisse proprio per Fanny, è interessante perché è anche e anzitutto una storia poetica, e il merito del film sta nella sua doppia lettura: è la storia di un amore romantico che rivela la creazione di versi raffinati attraverso la biografia del suo autore. Un’opera che Keats custodiva gelosamente, nella speranza che gli uomini «non toccassero» ciò che scriveva, come leggiamo in una sua lettera. Probabilmente, l’altro merito del film sarà proprio quello di avvicinare una parte del pubblico alla poesia del suo protagonista. Chissà se questo all’autore avrebbe fatto piacere.
segni di speranza                                                                     s.f.  
I PUBLICANI E LE PROSTITUTE VI PRECEDONO NEL REGNO DI DIO
Matteo 21, 28-32
Vi precedono nel Regno, quindi forse nella conoscenza, nella familiarità, nella pace del Signore, perché hanno creduto. Questa è la sintesi del messaggio evangelico: nessun catechismo può dire di più. È il credere che qualifica la vita cristiana, ovviamente. Questa «non consiste nella eliminazione dei difetti e del peccato, ma nel continuo rapporto con Dio» (Carlo Molari: Per una spiritualità adulta, Cittadella Editrice). I precetti, le norme morali, i comportamenti appropriati, e cosi via non colgono il cuore del messaggio.
«Credi tu nel Figlio dell’uomo?» chiede Gesù al cieco nato, dopo la sua guarigione. «Credo, Signore» e si prostrò ai suoi piedi. Come sappiamo molti altri episodi del vangelo sono centrati sulla fede dei protagonisti. In tutti il credere nel Signore vuol dire ascoltare, accogliere, fidarsi, affidarsi. Un lungo processo per noi, suscitato e sollecitato dal Signore. Negli episodi ricordati prima talvolta la fede è presentata come una conversione istantanea, forse anche per il fascino della figura di Gesù presente. Per noi è un cammino arduo, forse ancor più oggi distratti e frastornati come siamo da tanto rumore intorno a noi. La vita di fede, cioè «mettere Dio al centro del vissuto quotidiano» (Carlo Molari, idem) ci sfugge. Dovremmo forse essere più consapevoli di una presenza e di una azione continua di Dio su di noi.
La vigna dove il Signore invia il figlio, che non vi andrà (come noi), è presumibilmente la comunità universale, il mondo, inclusa quindi anche la chiesa, intesa come comunità degli uomini convocati dal Signore, che vivono con Lui ed emigrano verso tutti gli altri uomini. Vanno agli uomini per avvertirli che Egli li ama e li serve. Il lavoro nel campo è quindi quello di celebrare e servire la sua Parola, cioè: annunciarla dai tetti e nella piazze, radunarsi nella mensa per essere nutriti, lavare i piedi agli uomini per renderla viva nella carità.
La liturgia ci propone periodicamente i passaggi essenziali del messaggio evangelico, come quello odierno; noi ci ritroviamo a commentarli più o meno con le stesse parole di sempre. Speriamo almeno che a ogni passaggio qualche frammento di conoscenza rimanga nel nostro intimo e contribuisca alla nostra maturazione.
Seconda domenica ambrosiana dopo il martirio di Giovanni il Precursore
schede per  leggere                                             m.c.   
Ancora tra i libri di evasione che, divertendo, hanno anche aspetti interessanti, si può ricordare il legal-triller di Richard North Patterson, Giudizio finale (TEA, 2007, pagg. 478, euro 8,90).
Protagonista è una donna, Caroline Masters, brillante avvocato in attesa di una probabile nomina a giudice federale della Corte di Appello degli Stati Uniti. Da più di venti anni in California, dopo aver rotto ogni rapporto con la famiglia di origine, capeggiata dal potente padre Channing, Caroline sarà costretta a tornare alla sua terra di origine, il New Hampshire, per tutelare la giovane nipote Brett, accusata di avere ucciso il fidanzato.
La storia si dipana fra dolorosi ricordi e impegno nel presente, alla ricerca di una intelligente e efficace difesa: due filoni che si intrecciano e ricostruiscono un doloroso passato, così traumatico da non consentire perdono.
Avvincente, con un ritmo incalzante, il testo ha il pregio di scavare nella profondità dei sentimenti e di svelare come i rapporti più intimi e stretti possano celare, in una apparente normalità, pesanti condizionamenti e verità inquietanti.
Un testo di Irène Némirovsky, più volte ricordata sul nostro foglio (ultimo sul n. 343 del 2009) merita sempre di essere segnalato. Due (Adelphi, 2010, pagg. 237, euro 18,50) è un racconto che potrebbe essere considerato banale: amori che si intrecciano nell’ambiente della buona borghesia francese, appena uscita dalla prima guerra mondiale; giovani che, finalmente liberi dalla paura e sfuggiti al massacro, sono alla ricerca spasmodica di evasione e di piaceri. Ma la Nemirovskyi riesce sempre a stupire per la lungimiranza dello sguardo: giovane, e vissuta in tempi ormai lontani, riesce in questo scritto a anticipare, in una vicenda legata a un mondo pressoché scomparso, temi di grande modernità. In una società che va perdendo l’orientamento, si intravede infatti l’oggi, dove si alimentano il vuoto e la solitudine, si ricercano amori assoluti, privi di ogni limite, si arriva al completo annullamento di sé.
Ma la scrittrice, ignara della sorte che le riserverà l’umana spietatezza, riesce anche ad aprire il cuore alla speranza, e mostra un possibile approdo in rapporti più rassicuranti, fatti di solidarietà, di compagnia e di amicizia.
Il 4 settembre scorso il premio Campiello è stato assegnato al romanzo Accabadora di Michela Murgia (Einaudi 2009, pagg. 164, 18 €). Ricordiamo che è possibile trovare la recensione in questa stessa rubrica del 25 gennaio 2010, Notam 344.
 
la cartella dei pretesti 
Qualunque sia il tuo stile di vita,qualunque sia il tuo lavoro, qualunque sia il tuo pensiero, se ti poni contro certi poteri questi risponderanno sempre con un’unica strategia: delegittimare: delegittimare il rivale agli occhi della pubblica opinione, cercare di renderlo nudo raccontando storie su di lui, descrivere comportamenti intimi per metterlo in difficoltà, così che le persone quando lo vedono comparire in pubblico possano tenere in mente le immagini raccontate e non considerarlo credibile.
ROBERTO SAVIANO, Dossier, calunnie e voti comprati così Berlusconi seguiva la macchina del fango di Cosentino, la Repubblica, 17 luglio 2010.
Per il credente, e solo per lui, si apre una specie di alternativa in virtù della quale ci si chiede se sia la «parola eterna» a risuonare come storica o se sia quest’ultima a trasmettere risonanze dell’Eterno. Se prevale la seconda ipotesi il senso della presenza di Dio si scopre unicamente attraverso l’atto dell’interpretazione. La rivelazione sta non nella Scrittura presa in se stessa ma nel modo di porsi di fronte a essa accogliendola come parola che ci interpella pur provenendo da un tempo che non è più il nostro. In questo caso la dimensione del circolo ermeneutico può dirsi nei seguenti termini: ci si inchina davanti a un testo perché è sacro, mentre esso diviene tale anche in virtù del fatto che ci si inchina di fronte a lui.
PIERO STEFANI, lettera 1 maggio 2010
Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei beni comuni. Questo ossimoro […] rivela un compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l’acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, […]
Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben può essere quello di "un’erosione delle basi morali della società".
STEFANO RODOTÀ, Se il mondo perde il senso del bene comune, la Repubblica, 10 agosto 2010
Sarebbe per primo Cavour —di cui il 10 agosto ricorre il duecentesimo anniversario della nascita— a non gradire di essere ricordato con elogi di maniera, con inutili apologie […] Peraltro in Italia Cavour non è per nulla popolare […] perché la sua azione non rientra nelle due categorie con le quali, invece, la più parte dei suoi connazionali è abituata a pensare alla politica: quella del vuoto moralismo da un lato, ovvero quella della scaltrezza da magliari dall’altro. Unite entrambe da un’invincibile propensione alla faziosità.
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, L'idea della politica che manca all'Italia, Corriere della sera, 10 agosto 2010
Un pessimismo politico totale fa dunque sospettare una mancanza di interesse per i progressi realizzabili e una difesa sorniona dei propri privilegi. Per questo la mia viva sensibilità a tutto ciò che è raffinato cede il posto da più di trent’anni a una scelta in favore della famiglia di spirito che si dice di sinistra –con l’aiuto di un’opzione paradossalmente teologica in favore della laicità- senza che io abbia molta più fiducia negli uomini politici di questo ambiente che negli altri.
JEAN PIERRE JOSSUA, Aprirsi al collettivo, Il gallo, luglio settembre 2010.
Hanno siglato: Enrica Brunetti, Giorgio Chiaffarino, Mariella Canaletti, Sandro Fazi
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
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Pro manuscripto
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L’invio del prossimo numero 358 è previsto per LUNEDÌ 27 settembre 2010


1.         In altra occasione Bonomelli riconobbe nella chiesa romana «il maggior ostacolo a quell'unità di cui è così profondamente sentita l'esigenza»


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13 settembre 2010 - S. Giovanni Crisostomo - Anno XVIII - n. 357


 

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Martedì 14 Settembre,2010 Ore: 12:42