NEL 50° ANNIVERSARIO DELLA MORTE
RICORDARE MARTIN LUTHER KING MARTIRE DELLA PACE E DELLA NONVIOLENZA

LEGGENDO PASSI SCELTI DA SUOI SCRITTI


di Raffaello Saffioti

Questo 50° anniversario. La morte di un martire.
Come e perché ricordare Martin Luther King?
Il Sessantotto è oggetto di celebrazioni e viene prevalentemente ricordato per i movimenti di contestazione sorti in quell’anno, e il dibattito sulla sua interpretazione tra gli storici rimane aperto per la sua complessità e contraddittorietà.
Ma tra le varie ricorrenze assume un valore storico e profetico particolare la morte di Martin Luther King, come fu quella di Gandhi, di venti anni prima.
Al di là di ogni celebrazione retorica, la ricorrenza deve servire a promuovere la conoscenza del suo pensiero e della sua opera, soprattutto tra i giovani, considerando il contributo originale dato alla storia della nonviolenza del ventesimo secolo.
M. L. King, ucciso il 4 aprile 1968, a Memphis, era nato il 15 gennaio 1929 ad Atlanta, in Georgia.
Va ricordato per il suo martirio come testimone di fede nella nonviolenza sulle orme del Mahatma Gandhi. Va ricordato come leader del movimento per i diritti civili, per la strenua opposizione alla guerra, “oltre il Vietnam”, come Premio Nobel per la Pace, del 1964. Il suo messaggio è più che attuale.
Qual è il destino dei profeti?
Il destino dei profeti è di essere perseguitati da vivi, spesso uccisi, ed esaltati dopo la morte per disinnescare la carica rivoluzionaria dei loro messaggi. Viene in mente il passo del Vangelo sull’invettiva di Gesù contro gli Scribi e i Farisei (Matteo 23, 29-32):
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri”.
Ricordiamo il passo conclusivo del discorso col titolo “Sono stato sulla cima della montagna”, tenuto nel Tempio del Vescovo Charles J. Mason, a Memphis, Tennessee, il 3 aprile 1968, il giorno prima di essere ucciso. E’ l’ultimo, ispirato discorso.[1]
Ebbene, non so cosa accadrà d’ora in poi; ci aspettano giornate difficili. Ma davvero, per me non ha importanza, perché sono stato sulla cima della montagna. E non m’importa. Come chiunque, mi piacerebbe vivere a lungo; la longevità ha i suoi lati buoni. Ma adesso non mi curo di questo. Voglio fare soltanto la volontà di Dio. E Lui mi ha concesso di salire fino alla vetta. Ho guardato al di là, e ho visto la terra promessa. Forse non ci arriverò insieme a voi. Ma stasera voglio che sappiate che noi, come popolo, arriveremo come terra promessa. E stasera sono felice. Non c’è niente che mi preoccupi, non temo nessun uomo. I miei occhi hanno visto la gloria dell’avvento del Signore”.
Proposta di lettura di passi scelti da scritti di M. L. King
Prima lettura: da Pellegrinaggio alla nonviolenza[2]
Questo scritto autobiografico è di straordinaria importanza perché descrive il processo della formazione culturale, attraverso gli studi, di M. L. King e risponde alla domanda del suo “pellegrinaggio intellettuale verso la nonviolenza”.
Parte dalla prima adolescenza in Atlanta.
Leggiamo:
“Ero cresciuto aborrendo non solo la segregazione ma anche gli atti oppressivi e barbari che si sviluppavano da essa. Avevo attraversato luoghi in cui i neri erano stati selvaggiamente linciati, ed avevo assistito alle cavalcate notturne del Ku Klus Kan. Avevo visto con i miei occhi la brutalità della polizia e i neri ricevere la più tragica ingiustizia nei tribunali. Tutte queste cose avevano influito in qualche modo sulla mia personalità in formazione. Ero giunto pericolosamente vicino al rancore verso tutti i bianchi.
Avevo anche imparato che l’inseparabile gemella dell’ingiustizia razziale era l’ingiustizia economica. Sebbene provenissi da una famiglia economicamente sicura e relativamente benestante, non ho mai potuto togliermi di mente l’insicurezza economica di molti miei compagni e la tragica povertà di coloro che mi vivevano intorno. Durante gli ultimi anni dell’adolescenza lavorai per due estati, contro la volontà di mio padre (egli non ha mai voluto che mio fratello ed io lavorassimo tra gente bianca a causa delle condizioni oppressive), in una fabbrica che assumeva neri e bianchi. Qui vidi di prima mano l’ingiustizia economica e capii che i bianchi poveri erano sfruttati come i neri. Attraverso queste precoci esperienze crebbi profondamente conscio della verità delle ingiustizie nella nostra società.
Così quando nel 1944 entrai come matricola al Collegio Morehouse di Atlanta, il mio interesse per l’ingiustizia razziale ed economica era già consistente. Durante gli studi al Morehouse lessi per la prima volta il Saggio sulla disobbedienza civile di Thoreau. Affascinato dall’idea del rifiuto di cooperare con un sistema ingiusto, fui colpito così profondamente che rilessi l’opera diverse volte. Questo fu il mio primo contatto intellettuale con la teoria della resistenza nonviolenta”.
La filosofia sociale.
Successivamente, nonostante il suo interesse maggiore fosse nel campo della teologia e della filosofia, trascorse molto tempo a leggere le opere dei grandi filosofi sociali.
Scrisse:
“Comunque, finché non entrai al Seminario teologico Crozer, nel 1948, non cominciai una seria ricerca intellettuale di un metodo per eliminare il male sociale.
Dopo aver letto Rauschenbusch, mi volsi a un serio studio delle teorie sociali ed etiche dei grandi filosofi, da Platone e Aristotele fino a Rousseau, Hobbes, Bentham, Mill e Locke. Tutti questi maestri stimolarono il mio pensiero – quale che fosse – e, mentre trovavo affermazioni da discutere in ciascuno di essi, nondimeno imparai moltissimo dal loro studio”.
Segue lo studio del marxismo.
Leggiamo:
“Durante le vacanze di Natale del 1949 decisi di impiegare il mio tempo libero leggendo Marx per tentare di comprendere l’attrazione del comunismo su molte persone. Per la prima volta esaminai attentamente Il Capitale e il Manifesto dei comunisti. Lessi anche alcuni saggi critici sul pensiero di Marx e Lenin. Durante la lettura di questi scritti di comunisti, tracciai certe conclusioni che sono rimaste in me fino ad oggi come convinzioni”.
Critica del comunismo e del capitalismo.
“La lettura di Marx mi convinse anche che la verità non si trova né nel marxismo né nel capitalismo tradizionale. Ciascuno rappresenta una verità parziale”.
Segue, quindi, lo studio di Nietzsche e di Gandhi.
King iniziò lo studio serio di Gandhi dopo che andò a Philadelphia per ascoltare un sermone del Dr. Mordecal Johson, tornato da un viaggio in India.
“Il suo messaggio era così profondo ed elettrizzante che lasciai la riunione e acquistai una mezza dozzina di libri sulla vita e le opere di Gandhi. Come la maggior parte delle persone, avevo sentito parlare di Gandhi, ma non lo avevo mai studiato seriamente. Come procedetti nella lettura, fui profondamente affascinato dalle sue campagne di resistenza nonviolenta. Fui particolarmente commosso dalla ‘marcia del sale’ verso il mare e dai suoi numerosi digiuni. Tutto il concetto di Satyagraha (Satya è verità che equivale ad amore e agraha è forza, Satyagraha, perciò, significa forza della verità o forza dell’amore) era profondamente significativo per me. Via via che studiavo più profondamente la filosofia di Gandhi, il mio scetticismo riguardo la potenza dell’amore gradualmente diminuì e giunsi, per la prima volta, a capire la sua efficacia nel campo della riforma sociale. Prima di leggere Gandhi, avevo quasi concluso che l’etica di Gesù fosse efficace soltanto nei rapporti individuali. La filosofia del ‘porgi l’altra guancia’ e dell’‘amate i vostri nemici’ sentivo che era valida solo quando gli individui erano in conflitto con altri individui, quando invece erano in conflitto gruppi razziali e nazioni, sembrava necessario un comportamento più realistico. Ma dopo aver letto Gandhi, vidi che ero completamente in errore.
Gandhi fu probabilmente la prima persona della storia ad elevare l’etica dell’amore di Gesù al di sopra dei rapporti individuali e a trasformarla in una forza sociale su larga scala, potente ed efficace. L’amore, per Gandhi, era uno strumento potente per operare un mutamento sociale collettivo. Fu in questa insistenza gandhiana sull’amore e la nonviolenza che scoprii il metodo per la riforma sociale, del quale ero andato alla ricerca per tanti mesi. La soddisfazione intellettuale e morale che non avevo saputo ricavare dall’utilitarismo di Bentham e Mill, dai metodi rivoluzionari di Marx e Lenin, dalla teoria del contratto sociale di Hobbes, dall’ottimismo del ritorno alla natura di Rousseau e dalla filosofia del superuomo di Nietzsche, la trovai nella filosofia della resistenza nonviolenta di Gandhi. Giunsi a sentire che questo era l’unico metodo, moralmente e praticamente valido, a disposizione delle persone oppresse nella loro lotta per la libertà”.
Quella che King chiama la sua “odissea intellettuale verso la nonviolenza” è proseguita con lo studio di Reinhold Niebuhr.
All’università di Boston.
“Lo stadio successivo del mio pellegrinaggio intellettuale alla nonviolenza venne durante i miei studi per il dottorato all’Università di Boston.
Studiai filosofia e teologia all’Università di Boston sotto la guida di Edgar S. Brighman e L. Harold De Wolf. Entrambi stimolarono moltissimo il mio pensiero. Fu principalmente sotto questi insegnanti che studiai la filosofia personalistica – la teoria che la soluzione del significato della realtà ultima si trova nella personalità. Questo idealismo personale rimane tuttora la mia fondamentale posizione filosofica. L’insistenza del personalismo che soltanto la personalità – finita e infinita – è in definitiva reale rafforzò in me due convinzioni: mi diede un fondamento metafisico e filosofico per l’idea di un Dio personale, e mi diede una base metafisica per affermare la dignità e il valore di ogni personalità umana”.
La filosofia di Hegel e conclusione degli studi.
“Nel 1954 terminai la mia educazione formale con tutte queste forze intellettuali relativamente divergenti, orientandomi verso una positiva filosofia sociale. Uno degli aspetti principali di questa filosofia era la convinzione che la resistenza nonviolenta era uno dei mezzi più potenti accessibili alla gente oppressa nella sua ricerca di giustizia sociale”.
Ultima parte. Aspetti fondamentali della nonviolenza.
Quando mi recai a Montgomery come pastore, non avevo la minima idea che più tardi mi sarei trovato coinvolto in una crisi in cui la resistenza nonviolenta sarebbe stata applicabile. Non fui io ad iniziare la protesta né a suggerirla. Semplicemente risposi alla richiesta di un portavoce della popolazione. Quando la protesta cominciò, la mia mente, consciamente o inconsciamente, fu ricondotta al Discorso della Montagna, con i suoi sublimi insegnamenti sull’amore, e al metodo gandhiano della resistenza nonviolenta. Col passare dei giorni, giunsi a vedere sempre più chiaramente il potere della nonviolenza. Vivendo attraverso la reale esperienza della protesta, la nonviolenza divenne più di un metodo a cui davo il mio assenso intellettualmente; essa divenne dedizione ad una forma di vita. Molte questioni che non avevo chiarito intellettualmente riguardo alla nonviolenza furono risolte nella sfera dell’azione pratica.
Dal momento che la filosofia della nonviolenza ha avuto un tale ruolo positivo nel movimento di Montgomery, può essere saggio volgersi ad una breve discussione di alcuni aspetti fondamentali di questa filosofia.
In primo luogo, si deve sottolineare che la resistenza nonviolenta non è un metodo per codardi; essa è autentica resistenza. Se uno usa questo metodo perché ha paura o semplicemente è privo degli strumenti di violenza, costui non è un vero nonviolento. Questa è la ragione per cui Gandhi spesso diceva che se la viltà è l’unica alternativa alla violenza, è meglio combattere. Egli fece questa affermazione conscio del fatto che c’è sempre un’altra alternativa: non è necessario che un individuo o un gruppo si sottomettano a qualche ingiustizia, né che usino la violenza per riparare tale ingiustizia; c’è la via della resistenza nonviolenta. Questa è in definitiva la via dell’uomo forte. Non è un metodo di stagnante passività. La frase ‘resistenza passiva’ offre spesso la falsa impressione che questo è una sorta di ‘metodo del far niente’, in cui il resistente accetta il male quietamente e passivamente. Ma nessuna affermazione è più lontana di questa dalla verità. Perché, mentre il resistente nonviolento è passivo nel senso che non è fisicamente aggressivo verso il suo avversario, la sua mente e le sue emozioni sono sempre attive, costantemente cercando di persuadere l’avversario che egli è nel torto. Questo metodo è passivo fisicamente, ma fortemente attivo spiritualmente. Non è non-resistenza passiva al male, è invece attiva resistenza nonviolenta al male.
Un secondo fatto fondamentale che caratterizza la nonviolenza è che essa non cerca di sconfiggere o umiliare l’avversario, ma di conquistare la sua amicizia e comprensione. Il resistente nonviolento deve spesso esprimere la sua protesta attraverso la non-cooperazione o il boicottaggio, ma egli comprende che questi non sono fini in se stessi; essi sono semplicemente mezzi per svegliare un senso di vergogna morale nell’avversario. Il fine è la redenzione e la riconciliazione. La conseguenza della nonviolenza è la creazione della comunità nell’amore, mentre la conseguenza della violenza è la tragica amarezza.
Una terza caratteristica di questo metodo è che l’attacco è diretto contro le forze del male piuttosto che contro le persone alle quali succede di stare facendo il male. E’ il male che il resistente nonviolento cerca di sconfiggere, non le persone ingannate dal male. Se sta combattendo l’ingiustizia razziale, il resistente nonviolento ha l’intuito di capire che la tensione fondamentale non è fra le razze. Come mi piace dire alla gente di Montgomery: ‘La tensione in questa città non è fra la gente bianca e quella nera. La tensione è, in fondo, tra giustizia e ingiustizia, fra le forze della luce e le forze delle tenebre. E se ci sarà una vittoria, sarà una vittoria non semplicemente per cinquantamila neri, ma una vittoria per la giustizia e le forze della luce. Noi siamo fuori per sconfiggere l’ingiustizia e non uomini bianchi che eventualmente sono ingiusti’.
Un quarto punto che caratterizza la resistenza nonviolenta è una disponibilità ad accettare la sofferenza senza vendetta, ad accettare le percosse dell’avversario senza restituirle. ‘Fiumi di sangue devono forse scorrere prima che conquistiamo la libertà, ma deve essere sangue nostro’, diceva Gandhi ai suoi compatrioti. Il resistente nonviolento è disposto ad accettare la violenza se necessario, ma mai ad infliggerla. Non cerca di evitare il carcere. Se andare in prigione è necessario, egli entra in prigione ‘come uno sposo entra nella camera della sposa’.
Qualcuno potrebbe chiedere giustamente: ‘Qual è la giustificazione del resistente nonviolento per questa prova alla quale invita gli uomini, per questa applicazione politica di massa dell’antica dottrina di offrire l’altra guancia?’. La risposta si trova nel riconoscimento che la sofferenza non meritata è capace di redimere. La sofferenza (lo capisce il resistente nonviolento) ha tremende possibilità di educare e trasformare. ‘Le cose di fondamentale importanza per il popolo non sono assicurate dalla sola ragione, ma devono essere acquistate con la sua sofferenza’, affermava Gandhi. Egli aggiunge: ‘la sofferenza è infinitamente più potente della legge della giungla per convertire l’avversario e aprire le sue orecchie, che altrimenti sono chiuse alla voce della ragione’.
Il quinto punto riguardante la resistenza nonviolenta è che essa evita non solo la violenza fisica esterna, ma anche la violenza interiore dello spirito. Il resistente nonviolento non solo rifiuta di sparare all’avversario, ma rifiuta anche di odiarlo. Al centro della nonviolenza sta il principio dell’amore. Il resistente nonviolento sostiene che, nella lotta per la dignità umana, i popoli oppressi del mondo non devono soccombere alla tentazione di divenire pieni di rabbia o di indulgere a campagne di odio. Reagire nella stessa maniera non farebbe altro che intensificare l’esistenza dell’odio nell’universo. Lungo il corso della vita, qualcuno deve avere giudizio e moralità sufficienti per troncare la catena dell’odio. Questo può essere fatto soltanto proiettando l’etica dell’amore al centro delle nostre vite.
Parlando di amore, a questo punto, non ci stiamo riferendo a qualche emozione sentimentale o affettiva. Sarebbe privo di senso esortare gli uomini ad amare i loro oppressori in un senso affettivo. Amore in questo contesto significa comprensione, buona volontà redentrice. Qui la lingua greca viene in nostro aiuto. Ci sono tre parole per esprimere amore nel Nuovo Testamento in greco. La prima è eros. Nella filosofia di Platone eros significa l’aspirazione dell’anima al regno del divino. Essa è giunta oggi ad esprimere una specie di amore estetico o romantico. La seconda parola è philia che significa affetto intimo tra amici personali. Philia denota una specie di amore reciproco; la persona ama perché è amata. Quando diciamo di amare i nostri oppositori non ci riferiamo né ad eros né a philia; parliamo di un amore che è espresso dal termine greco agape. Agape significa comprensione, buona volontà redentrice per tutti gli uomini. E’ un amore traboccante, puramente spontaneo, non motivato, ingiustificato e creativo. Non è messo in moto da qualche utilità o funzione del suo oggetto. E’ l’amore di Dio operante nel cuore umano.
Agape è amore disinteressato. E’ amore nel quale l’individuo non cerca il proprio bene, ma il bene del prossimo (1 Cor. 10, 24). Agape non comincia col discriminare fra persone degne o indegne, o le qualità che le persone possiedono. Comincia con l’amare gli altri per il loro bene. E’ un ‘interesse completamente altruistico per gli altri’, che scopre il prossimo in ogni uomo che incontra. Perciò, agape non fa nessuna distinzione fra amico e nemico; si dirige verso entrambi. Se uno ama un individuo semplicemente a causa della benevolenza che riceve, lo ama per i benefici da guadagnare attraverso l’amicizia, piuttosto che per il bene dell’amico. Di conseguenza, il miglior modo di assicurarvi che l’Amore è disinteressato è di provare amore per il prossimo-nemico, dal quale non potete attendervi nessun bene in cambio ma solo ostilità e persecuzione.
Un altro punto fondamentale riguardante l’agape è che nasce dal bisogno dell’altra persona – il suo bisogno di appartenere alla parte migliore della famiglia umana. Il samaritano che aiutò l’ebreo sulla strada di Gerico fu ‘buono’ perché rispose al bisogno umano che gli fu presentato. L’amore di Dio è eterno e non viene meno, perché l’uomo ha bisogno di questo amore. S. Paolo ci assicura che l’atto di amore della redenzione fu compiuto ‘mentre eravamo ancora peccatori’ – cioè nel momento del nostro più grande bisogno di amore. Poiché la personalità dell’uomo bianco è grandemente distorta dalla segregazione, e la sua anima è grandemente sfregiata, egli ha bisogno dell’amore del nero. Il nero deve amare il bianco, perché il bianco ha bisogno del suo amore per rimuovere le proprie tensioni, insicurezze e paure.
Agape non è amore debole, passivo. E’ amore in azione. Agape è amore che cerca di preservare e creare comunione. E’ insistenza sulla comunione anche quando qualcuno cerca di romperla. Agape è disposizione a percorrere qualunque distanza per restaurare la comunione. Non si ferma al primo miglio, ma fa anche il secondo per restaurare la comunione. E’ disposizione a perdonare, non sette volte, ma settanta volte sette per restaurare la comunione. La croce è l’eterna espressione della distanza alla quale Dio andrà allo scopo di restaurare la comunione infranta. La resurrezione è un simbolo del trionfo di Dio su tutte le forze che cercano di ostacolare la comunione. Lo Spirito Santo è la comunione continua, creante la realtà, che si muove attraverso la storia. Colui che opera contro la comunione, sta operando contro l’intera creazione. Perciò, se rispondo di ricambiare l’odio, non faccio altro che intensificare la spaccatura nella comunione infranta. Posso soltanto sanare la rottura della comunione affrontando l’odio con l’amore. Se affronto l’odio con l’odio, divengo privo di personalità, perché la creazione è così concepita che la mia personalità può realizzarsi soltanto nel contesto della comunione. Booker T. Washington aveva ragione: ‘Non lasciatevi spingere da nessuno così in basso da giungere al punto di odiarlo’. Quando vi spinge così in basso, vi porta ad operare contro la comunione; vi trascina fino al punto di sfidare la creazione e così diventare privi di personalità.
In conclusione, agape significa il riconoscimento del fatto che tutta la vita è in correlazione. Tutta l’umanità è coinvolta in un singolo processo, e tutti gli uomini sono fratelli. Nella misura in cui faccio del male al mio fratello non importa cosa egli mi stia facendo – faccio del male a me stesso. Per esempio, i bianchi spesso rifiutano il sussidio federale all’educazione allo scopo di non concedere ai neri i loro diritti; ma poiché tutti gli uomini sono fratelli, essi non possono escludere i bambini dei neri senza far del male ai propri. Finiscono per danneggiare se stessi, nonostante tutti gli sforzi in senso contrario. Perché accade questo? Perché gli uomini sono fratelli. Se mi fai del male, lo fai a te stesso. L’amore, agape, è l’unico che può ripristinare la comunione, quando è spezzata. Quando mi si comanda di amare, mi si comanda di restaurare la comunione, di resistere all’ingiustizia, e di andare incontro ai bisogni dei miei fratelli.
Un sesto fatto fondamentale riguardo alla resistenza nonviolenta è che essa si basa sulla convinzione che l’universo è dalla parte della giustizia. Di conseguenza, il credente nella nonviolenza ha profonda fede nel futuro. Questa fede è un’altra ragione per cui il resistente nonviolento può accettare la sofferenza senza vendicarsi. Poiché egli sa che nella sua lotta per la giustizia ha un alleato cosmico. E’ vero che ci sono devoti credenti nella nonviolenza che trovano difficile credere in un Dio personale. Ma anche queste persone credono nell’esistenza di qualche forza creativa che lavora per la totalità universale. Sia che la chiamiamo processo inconscio, impersonale Brahmam, o Essere personale di impareggiabile potenza e infinito amore, c’è una forza creativa in questo universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realtà in un tutto armonioso”.
Seconda lettura: da Oltre il Vietnam[3]
Perché fu ucciso M. L. King?
E’ da considerare una “fatale coincidenza” l’assassinio avvenuto a un anno esatto dal discorso del 4 aprile 1967, tenuto nella chiesa di Riverside, New York?
E’ un discorso di straordinaria importanza, per la sua attualità, passato alla storia col titolo “Oltre il Vietnam: è tempo di rompere il silenzio”.
E’ un discorso non solo contro la guerra in Vietnam, ma contro tutte le guerre, passato sotto silenzio.
Anche nel sermone “Un tamburo maggiore per la rettitudine” disse:
“Dio non ha chiamato l’America a fare quello che sta facendo ora nel mondo. Dio non ha chiamato l’America ad impegnarsi in una guerra senza senso in Vietnam. E siamo come criminali in quella guerra. Abbiamo commesso più crimini di guerra di ogni altra nazione al mondo e continuerò a sostenerlo. E non vogliamo fermarla a causa del nostro orgoglio e della nostra arroganza come nazione”.
Riprendiamo il discorso “Oltre il Vietnam” riportando passi scelti. Servì a far nascere una coscienza nuova non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e nel mondo.
*
I
E così ci siamo trovati più volte di fronte alla crudele ironia di vedere sugli schermi televisivi ragazzi neri e bianchi che uccidono e muoiono insieme, per un paese incapace di farli sedere insieme nei banchi delle stesse scuole.
E così li vediamo affiancati e solidali nella brutalità, mentre incendiano le capanne di un povero villaggio, ma ci rendiamo conto che a Chicago difficilmente potrebbero abitare nello stesso isolato.
Io non potevo restare in silenzio di fronte a una così crudele manipolazione dei poveri.
Mentre camminavo circondato di giovani arrabbiati, disperati, rifiutati, dicevo loro che i fucili e le bombe molotov non avrebbero risolto i loro problemi.
Ho cercato di far sentire loro la mia più profonda compassione, insieme sostenendo la convinzione che i mutamenti sociali si producono nel modo più significativo attraverso l’azione nonviolenta.
II
Come se non bastasse il peso di un simile impegno in nome della vita e della salvezza dell’America, nel 1964 mi è stato imposto un nuovo fardello di responsabilità; e non posso dimenticare che il premio Nobel per la pace era anche un incarico, l’incarico di lavorare con più impegno che mai per la fratellanza degli uomini.
Questa vocazione mi porta a superare i doveri della fedeltà nazionale.
Ma anche in mancanza di questo, dovrei pur sempre vivere con il senso del mio impegno di ministro di Gesù Cristo.
Per me è talmente evidente il rapporto che lega questo ministero al dovere di costruire la pace, che talvolta mi stupisco che mi si domandi come mai parlo contro la guerra.
III
Come è possibile che i miei interlocutori non sappiano che la Buona Novella si rivolge a tutti gli uomini: ai comunisti e ai capitalisti, ai loro figli e ai nostri, ai neri e ai bianchi, ai rivoluzionari e ai conservatori? Hanno dimenticato che il mio ministero è istituito in obbedienza a Colui che ha amato i suoi nemici al punto di morire per loro? E allora, che cosa posso dire ai vietcong, o a Castro, o a Mao, in qualità di ministro fedele di Costui? Posso minacciarli di morte, o non dovrò invece condividere con loro la mia vita? Infine, mentre cerco di spiegare a voi e a me stesso il percorso che da Montgomery conduce a questo luogo, darei la spiegazione più valida se dicessi semplicemente che devo restare fedele alla mia convinzione di condividere con tutti gli uomini la vocazione a essere figlio del Dio vivente.
Al di là del richiamo della razza o della nazione o del credo religioso, vale questa vocazione filiale e fraterna. Proprio perché credo che il Padre si prende cura in modo particolare dei suoi figli sofferenti e impotenti e reietti, stasera sono venuto a parlare per loro.
IV
Siamo chiamati a parlare per i deboli, per chi non ha voce, per le vittime della nostra nazione, per coloro che essa definisce “il nemico”, perché non esiste documento di mano umana che possa rendere questi esseri umani meno che nostri fratelli.
V
La guerra in Vietnam non è che il sintomo di un malessere assai più radicato nello spirito americano, e se ignoreremo queste realtà che ci obbligano a riflettere, nella prossima generazione ci ritroveremo a organizzare altri “comitati del clero e dei laici preoccupati”: si preoccuperanno per il Guatemala e il Perù, per la Thailandia e la Cambogia, per il Mozambico e il Sud Africa.
Ci toccherà scendere in corteo per questi nomi e per una dozzina d’altri, andare a infiniti raduni e manifestazioni, se non si verificherà un cambiamento significativo e radicale nella vita e nella politica americana.
E dunque questi pensieri ci portano oltre il Vietnam, ma non oltre la nostra vocazione di figli del Dio vivente.
VI
Io sono persuaso che se vogliamo passare al versante positivo della rivoluzione mondiale, come nazione dobbiamo compiere una radicale rivoluzione dei valori.
Dobbiamo al più presto cominciare a passare da una società orientata alle cose a una società orientata alle persone.
Finché considereremo le macchine e i computer, le motivazioni del profitto e i diritti di proprietà più importanti delle persone, i tre giganti del razzismo, del materialismo estremo e del militarismo non potranno mai essere sconfitti.
Una vera rivoluzione dei valori ci indurrebbe ben presto a mettere in discussione l’equità e la giustizia di molte nostre scelte politiche del presente e del passato.
Da un lato siamo chiamati a operare come il buon samaritano sul ciglio della strada della vita, ma questo è soltanto il principio: un giorno dovremo arrivare a capire che bisogna trasformare l’intera strada per Gerico, in modo che gli uomini e le donne non continuino ad essere picchiati e rapinati mentre sono in viaggio sull’autostrada della vita.
La vera compassione non si limita a gettare una moneta al mendicante, ma arriva a capire che, se produce mendicanti, un edificio ha bisogno di una ristrutturazione.
Una vera rivoluzione dei valori guarderebbe ben presto con disagio al violento contrasto fra povertà e ricchezza.
VII
Il senso di arroganza tipico dell’Occidente, che crede di avere tutto da insegnare agli altri, e nulla da imparare da loro, non è giusto.
Una vera rivoluzione dei valori metterà mano all’ordinamento mondiale, e della guerra dirà: “Questo modo di comporre i dissidi non è giusto”.
Bruciare gli esseri umani con il napalm, riempire le nostre case di orfani e di vedove, iniettare germi velenosi di odio nelle vene di popoli che di norma sarebbero pieni di umanità, rimandare a casa uomini che hanno combattuto in campi di battaglia tenebrosi e sanguinosi e tornano menomati nel fisico e turbati nella psiche: tutti questi atti non possono conciliarsi con la saggezza, la giustizia, l’amore.
Una nazione che continua, un anno dopo l’altro, a spendere più denaro per la difesa militare che per i programmi di elevazione sociale, si avvicina alla morte dello spirito.
VIII
Soltanto un tragico destino di morte ci può impedire di riordinare la nostra scala di priorità, in modo che il perseguimento della pace abbia la precedenza sul perseguimento della guerra.
Niente ci può impedire di usare le mani ferite per plasmare uno status quo recalcitrante fino a trasformarlo in fraternità. I nostri sono tempi rivoluzionari. In tutto il mondo gli uomini si ribellano contro gli antichi regimi di sfruttamento e di oppressione; dalle piaghe di un mondo fragile nascono regimi nuovi ispirati alla giustizia e all’uguaglianza.
I popoli scamiciati e scalzi della terra si stanno sollevando come non mai. Il popolo che era nelle tenebre ha visto una grande luce [Is,9,2].
Noi in Occidente dobbiamo sostenere queste rivoluzioni.
IX
Oggi abbiamo una sola speranza: riuscire a riconquistare lo spirito rivoluzionario e uscire in un mondo talvolta ostile dichiarando eterna ostilità alla povertà, al razzismo, al militarismo.
Questo impegno potente ci permetterà di lanciare una audace sfida allo status quo e alle consuetudini ingiuste, e così avvicineremo il giorno in cui ‘si colmi ogni valle, ogni monte o colle si abbassi, l’erta si cambi in piano e la scabrosità in liscio solo’ [Is,40, 4].
Un’autentica rivoluzione dei valori significa in ultima analisi che dobbiamo avere una forma di lealtà ecumenica e non settoriale. Ogni nazione, ormai, deve sviluppare sopra ogni altra cosa una lealtà verso l’umanità, verso l’umanità nel suo insieme, in modo da riuscire a conservare il meglio delle singole società.
X
Dobbiamo superare l’indecisione passando all’azione.
Dobbiamo trovare nuovi modi per parlare a favore della pace nel Vietnam e della giustizia in tutti i paesi in via di sviluppo, il cui confine comincia alla soglia delle nostre case.
Se non agiremo saremo certo trascinati lungo gli oscuri, lunghi e infamanti corridoi del tempo riservati a quanti possiedono potere ma non compassione, potenza ma non moralità, forza ma non giudizio.
Cominciamo.
Rinnoviamo la nostra dedizione alla battaglia per un mondo nuovo, lunga e aspra ma bellissima.
Questa è la vocazione a cui sono chiamati i figli di Dio, e i nostri fratelli aspettano con ansia la nostra risposta.
(…) Tocca a noi scegliere, e anche se forse preferiremmo che non fosse così, dobbiamo scegliere in questo momento cruciale della storia umana.
Terza lettura: da Un tamburo maggiore per la rettitudine[4]
E’ il sermone nella chiesa battista di Ebenezer, Atlanta, il 4 febbraio 1968, due mesi prima di essere ucciso.
Come richiesto dalla vedova Coretta King, il sermone fu letto al funerale che si svolse con grande semplicità, come era stato chiesto. King non volle, tra l’altro, che fosse menzionato il Premio Nobel per la Pace e i “tre o quattrocento premi” che aveva ricevuto; come volle che fosse chiaro il discorso sulla pace e duro sulla guerra in Vietnam.
Aveva detto:
“Dio non ha chiamato l’America a fare quello che sta facendo ora nel mondo. Dio non ha chiamato l’America ad impegnarsi in una guerra senza senso in Vietnam. E siamo come criminali in quella guerra. Abbiamo commesso più crimini di guerra di ogni altra nazione al mondo e continuerò a sostenerlo. E non vogliamo fermarla a causa del nostro orgoglio e della nostra arroganza come nazione”.
 
Ogni tanto, immagino, tutti noi pensiamo in modo realistico al giorno in cui resteremo vittime di quello che è il definitivo comune denominatore della vita: quella cosa che chiamiamo morte. Tutti noi ci pensiamo. E di tanto in tanto io penso alla mia morte, e penso al mio funerale. Non ci penso in maniera morbosa. Di tanto in tanto mi domando: “Che cosa vorrei che dicessero?”. E stamani lascio a voi la parola.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di dedicare la vita a servire gli altri.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di amare qualcuno.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho cercato di essere giusto sulla questione della guerra.
Quel giorno vorrei che poteste dire che ho davvero cercato di dar da mangiare agli affamati.
E vorrei che poteste dire, quel giorno, che nella mia vita ho davvero cercato di vestire gli ignudi.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho davvero cercato, nella mia vita, di visitare i carcerati.
Vorrei che diceste che ho cercato di amare e servire l’umanità.
Sì, se volete dire che sono stato un tamburo maggiore, dite che sono stato un tamburo maggiore per la giustizia.
Dite che sono stato un tamburo maggiore per la pace.
Sono stato un tamburo maggiore per la rettitudine.
E tutte le altre cose di superficie non conteranno.
Non avrò denaro da lasciare dietro di me.
Ma io voglio avere soltanto una vita impegnata da lasciarmi alle spalle.
Ed è tutto quello che volevo dire.
Se riesco ad aiutare qualcuno mentre passo, se riesco a rallegrare qualcuno con una parola o con un canto, se riesco a mostrare a qualcuno che sta andando nella direzione sbagliata, allora non sarò vissuto invano.
Se riesco a fare il mio dovere come dovrebbe un cristiano, se riesco a portare la salvezza a un mondo che è stato plasmato, se riesco a diffondere il messaggio come il Maestro ha insegnato, allora la mia vita non sarà stata invano”.
 
Quarta lettura: da Sogni non realizzati[5]
E’ il sermone pronunciato nella chiesa battista di Ebenezer, ad Atlanta, il 3 marzo 1968 (un mese e un giorno prima della morte).
Questo è l’incipit del sermone:
“Immagino che uno dei grandi tormenti della vita sia che non smettiamo mai di cercare di terminare quel che non può essere terminato. Ci viene imposto di farlo. E così anche noi, come Davide, in tante circostanze della vita dobbiamo arrenderci ai fatti: i nostri sogni non si sono realizzati.
La vita è una serie continua di sogni infranti”.
Il sermone prosegue citando i sogni infranti di: Gandhi, Woodrow, Paolo apostolo, e di tanti antenati che cantavano canti di libertà.
“E ciascuno di voi, in un certo modo, sta costruendo una specie di tempio”.
Quindi M. L. King esprime un suo sogno, l’ultimo, non realizzato: il sogno di un Tempio per la Pace.
Alcuni di noi cercano di costruire un tempio della pace.
Facciamo dichiarazioni contro la guerra, protestiamo, ma è come se con la testa volessimo abbattere un muro di cemento: sembra che non serva a niente.
E molto spesso, mentre si cerca di costruire il tempio della pace si rimane soli,
si resta scoraggiati, si resta smarriti.
Ebbene, così è la vita.
E quel che mi rende felice è che attraverso la prospettiva del tempo riesco a sentire una voce che grida: “Forse non sarà per oggi, forse non sarà per domani, ma è bene che sia nel tuo cuore.
E’ bene che tu ci provi!
Magari non riuscirai a vederlo. Il sogno può anche non realizzarsi, ma è comunque un bene che tu abbia un desiderio da realizzare.
E’ bene che sia nel tuo cuore”.
Questo sogno non è famoso come “I have a dream” (“Io ho un sogno”), titolo dello storico discorso pronunciato a Washington il 28 agosto 1963, in cui disse:
“Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi”.
Ora, la ricorrenza del 50° anniversario della morte è occasione per ricordare il sogno del Tempio per la Pace, perché risponde a un bisogno fondamentale del nostro tempo.
Ha detto HANS KUNG:
Non c’è pace nelle nazioni senza pace tra le religioni”.
La cosiddetta “globalizzazione”, che caratterizza il tempo in cui viviamo, svela la qualità laica della storia. Essa spinge verso l’unità del genere umano, è favorita dalla comunicazione telematica e sfida le varie religioni storiche sulle quali pesano le terribili complicità con le guerre.
La risposta non può essere quella di chi parla di “scontro di civiltà” e di “valori dell’occidente” da opporre al terrorismo.
Chi lavora per la costruzione della civiltà della pace e della nonviolenza, resiste ai pericoli derivanti dalle varie forme di integralismo che alimentano la cultura della guerra.
Il bisogno religioso, come il bisogno della pace, è un bisogno comune a tutti gli uomini e il pensiero si fa preghiera.
La libertà religiosa, legata alla libertà di culto, è un fondamentale diritto umano, riconosciuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre 1948. E’ garantito anche dalla nostra Costituzione e nell’articolo 3 afferma il principio che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”, “senza distinzione di …religione”.
E l’art. 19 recita:
Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
Quest’anno ricorre anche il 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione: si può dire che questo principio sia stato rispettato? Nell’ordinamento giuridico italiano sono ancora in vigore leggi sui “culti ammessi” che risalgono all’epoca fascista e che andrebbero abrogate.
Nelle recenti elezioni politiche gli evangelici italiani hanno lanciato un appello per una legge costituzionale sulla liberà religiosa, ormai sempre più necessaria in una società divenuta multietnica e multiculturale.
Nel nostro tempo si affermano nuovi diritti di cittadinanza e nelle nostre città siamo chiamati a convivere con persone provenienti da altri paesi, professanti varie e diverse fedi religiose.
 
Il pensiero della pace, storicamente tradotto in preghiera dalle varie religioni, è espresso in luoghi di culto separati.
Ma un autentico ecumenismo, laico, ha bisogno di costruire un luogo comune.
Il Tempio per la Pace deve essere una “struttura senza alcun tratto distintivo pensata come luogo di culto e di incontro di più gruppi religiosi. Un segno che non risolve la conflittualità religiosa ed umana ma indica un orizzonte, esce dalla retorica del dialogo ecumenico ed interconfessionale ed impone di domandarsi se dentro società così lacerate abbia ancora un senso continuare a modellare la presenza religiosa come in passato. Un segno che si aggiunge agli altri, sparsi qua e là nel mondo, di strutture religiose che servono a più gruppi, sgombre di simboli che discriminano, strumenti di confronto e di convivenza pacifica, proprio come immaginava le chiese Tommaso Moro nella sua Utopia. [6]
Ogni città che voglia essere “Città per la Pace” dovrebbe preoccuparsi di assicurare a tutti i suoi cittadini luoghi di culto, ma anche di progettare un luogo comune per le varie confessioni religiose, coniugando l’utopia con il realismo.
Se questo avvenisse, sarebbe un modo per realizzare l’ultimo sogno di Martin Luther King.
Roma, 25 marzo 2018
Raffaello Saffioti
Centro Gandhi – PALMI (RC)
raffaello.saffioti@gmail.com

NOTE
 
[1] MARTIN LUTHER KING, Sono stato sulla cime della montagna, in “il dialogo”, 5 luglio 2005.
[2] MARTIN LUTHER KING, Pellegrinaggio alla nonviolenza, in “il dialogo”, 9 maggio 2007. (ildialogo.orgildialogo.org)
[3] MARTIN LUTHER KING, Oltre il Vietnam, in “il dialogo”, 5 luglio 2005 (ildialogo.orgildialogo.org)
[4] MARTIN LUTHER KING, Un tamburo maggiore per la rettitudine, in “il dialogo”, 5 luglio 2005 (ildialogo.orgildialogo.org)
[5] MARTIN LUTHER KING, Sogni non realizzati, in “il dialogo”, 5 luglio 2005. (ildialogo.orgildialogo.org)
[6] LUCIANO ZANNOTTI, in “Notiziario della Comunità dell’Isolotto”, n. 3, dicembre 2005.



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