Cronaca di una giornata di ordinaria occupazione

di Patrizia Cecconi

E’ un lunedì di maggio. Dopo aver risalito il Sinai – attraversato col timore di non farcela a superare la frontiera Egitto/Israele – e dopo aver fatto sosta forzata a Eilat e poi percorso altri 350 km di deserto in pullman, siamo finalmente arrivate a Gerusalemme. Due giorni di viaggio tra disservizi, sospensione corse, taxi, pullman e bus solo per ridurre il rischio di essere respinte, rischio che avremmo corso entrando dal Ben Gurion. Infatti, a parte gli interrogatori – ridicoli, ma tipici di un paese in cui vige il non-rispetto per tutti gli umani in odore di non-filosionismo – altri problemi seri non ci sono stati. Eccoci quindi a Gerusalemme, pronte ad andare a Beit Jala, vero obiettivo di questo viaggio.

Sono le 10,10 del mattino e al parcheggio autobus fuori della Porta di Damasco, saliamo sul bus n. 21 che in circa 30 minuti dovrebbe portarci a destinazione. Non ho preso appuntamenti, né col sindaco, né con altri che pure vorrei incontrare, perché non ero certa di farcela ad entrare in Palestina. Pare che Israele non mi ami e mi ha già bloccato una volta. Inoltre qui nessuno sa che da circa 8 mesi giro l’Italia con i vini Cremisan avvicinando molte persone alla realtà ignobile del cemento israeliano che, concretizzandosi in centinaia di chilometri di muro non solo qui, ma in tutta la Cisgiordania, ruba terra, chiude villaggi e violenta, impunemente, il diritto universale e le vite dei palestinesi.

Chiedo all’autista di farci scendere a Baladia Beit Jala, vale a dire al Municipio di Beit Jala, dove cercherò di parlare col sindaco per capire cosa possiamo fare dall’Italia per sostenere attivamente la loro lotta contro quel pezzo di muro che vorrebbe rubare una delle più belle terre dello Stato di Palestina: una collina terrazzata coltivata a vite e ulivi da palestinesi cristiani e musulmani e sulla quale, nonostante la presenza di religiosi italiani che sono lì da oltre 135 anni, neanche il Vaticano riesce contrastare l’illegale protervia israeliana.

Sulla strada c’è molto traffico, procediamo lentamente costeggiando le mura della città vecchia sotto le quali sventolano, numerosissime, le bandiere con la stella di David. Solo quelle, naturalmente. Quelle palestinesi sono vietate!

Mentre guardo l’ora, temendo di arrivare troppo tardi a Beit Jala, il bus viene fermato da una pattuglia armata di soldati israeliani. Due uomini e due donne, di pelle chiara e di pelle scura, capelli corti e capelli lunghi – le differenze della democrazia, verrebbe da pensare! Unico tratto comune, la giovane età di tutti e quattro. Salgono. Ci chiedono i documenti. Tutti veniamo controllati. Un controllo duplice: quello dello sguardo vigile della soldatina scura di pelle (forse falascia?) e del soldato biondastro coi rayban (forse ashkenazi?) che sostano davanti, a bloccare la porta, e il controllo dell’altra coppia di militari che ritirano i documenti uno per uno sbattendoti gli occhi in faccia in modo arrogante e inquisitorio come se volessero spaventarti. Noi siamo “turiste” e occidentali. I documenti, quindi, vengono esaminati e ci vengono restituiti subito. Senza garbo, senza un sorriso. Questi soldati non hanno motivo di sorridere allo straniero, potrebbe sempre essere un amante del loro nemico! L’autista è fuori, è stato fatto scendere dall’autobus. Il tempo passa e il bus resta fermo. L’autista ha già fumato due sigarette. Risale, ma viene fatto riscendere. I militari stanno esaminando in modo particolare un documento. Chissà cos’è che attira i loro sospetti, o la loro curiosità, o forse solo il loro capriccio.

Sono passati 19 minuti e capisco che la loro attenzione si è puntata su un ragazzo molto giovane. Vogliono che scenda dal bus. Il militare con i rayban gli mette le mani addosso e lo spinge contro un’inferriata. L’autista si mette in mezzo. E’ un uomo giovane e sembra molto deciso. Alza la voce contro i soldati. Anche un passeggero si rivolge ai militari con voce alterata. Poi un altro. Quattro uomini scendono e sono visibilmente adirati. Non capisco cosa dicono, forse sono solo preoccupati del ritardo. O forse stanno prendendo le parti del ragazzo che viene gratuitamente umiliato. Che siano esasperati è evidente. Forse stanno solo urlando la loro rabbia. Ma i soldati sembrano ignorarli … e intanto accarezzano il mitra.

Non posso fotografare. Vorrei che la mia mente fosse in grado di farlo. Ho a disposizione solo un quaderno e ci provo così, scrivendo queste righe. Sono passati altri 12 minuti. Temo che troverò gli uffici chiusi.

La soldata dai capelli lunghi e i tratti sicuramente arabi (forse era una palestinese di religione ebraica risucchiata dalla statualità israeliana, chissà!) risale e restituisce alcuni documenti. Stavolta sorride, ma non ai passeggeri. Si volta verso il suo collega e fa un sorrisetto d’intesa. Intanto viene fatto risalire il ragazzo spinto contro l’inferriata. Sembra tutto finito. Forse ripartiamo e riuscirò a trovare gli uffici aperti. La soldata che sta restituendo i documenti, quella che ha sorriso al suo commilitone, chiama lentamente per nome uno a uno i proprietari. Tutti aspettano il proprio documento, mi sembra di cogliere una situazione d’ansia, ma forse mi sbaglio. A questo punto la soldata gira la testa verso il suo collega e di nuovo gli sorride. Chiama un uomo di mezza età. E’ seduto tre posti dietro di me, porta una camicia a righe, non ha giacca, né bagagli e invece di restituirgli il documento lo fa scendere dal bus. La tensione cresce. L’uomo però sembra rassegnato. Scende senza fare resistenza. Qualcuno si oppone a voce alta, ma i soldati sembrano sordi. Ridacchiano tra di loro e accarezzano il mitra. Che questo gesto sia un tic collettivo?
L’uomo non parla, ha un atteggiamento dimesso. Viene fatto salire nella macchina militare e il bus può ripartire.

Il sacrificio quotidiano è compiuto. Speriamo sia l’unico.

Chiedo al mio vicino perché l’uomo è stato portato via e mi rispondono in due, entrambi in inglese: “Perché è di Ramallah”. “E qual è la sua colpa?” chiedo. L’uomo alla mia destra, uno di quelli che avevano urlato qualcosa contro i soldati, mi spiega:

“Quei soldati sono israeliani. Sul documento dell’uomo che hanno portato via c’è scritto che è residente a Ramallah. Questo è sufficiente per arrestarlo”. Ovviamente non è una spiegazione della “colpa”, è una spiegazione dell’arbitrio. Mentre lo caricano in macchina arrischio una foto col cellulare cercando di non essere vista.

Non è una gran foto, ma non posso fare di meglio: i soldati dell’unica democrazia del Medio Oriente non consentono che la propria “privacy” venga violata mentre arrestano uno dei tanti colpevoli di essere palestinesi in Palestina.

Sono già le 11,32, siamo ancora a Gerusalemme. Praticamente oltre un’ora per fare un chilometro, e per lasciare che si compisse il dovuto sacrificio agli dei del popolo eletto!

E’ passato mezzogiorno quando arriviamo a Beit Jala, una cittadina di religione prevalentemente cristiana, come mostrano le chiese imponenti e ben curate che incontriamo subito.
Cerchiamo il sindaco ma ci dicono che è partito per l’America Latina, dove c’è una comunità palestinese piuttosto compatta da cui vorrebbe avere aiuti economici per un progetto da sviluppare in questa cittadina circondata da vigne e ulivi, ma minacciata dal muro di cui i complici di Israele intendono consentire la costruzione.

In giro troviamo solo persone gentili. Non tutte parlano inglese ma il linguaggio gestuale, accompagnato alla disponibilità, fa sì che ci si intenda. Chiediamo della collina di Cremisan. E’ solo a un chilometro e mezzo ma c’è un tale sole che l’idea della passeggiata in un posto così bello è messa da parte a favore del taxi.

Lungo la strada l’autista ci mostra la casa delle suore, quelle che accolgono circa 400 bambini cristiani e musulmani e che Israele vorrebbe murare su tre lati. Circa trecento metri più su c’è il convento dei preti. Scendiamo sul piazzale del convento che affaccia sull’oliveto che digrada a terrazzamenti di muri a secco come se ne vedono anche in diverse regioni d’Italia. E’ un panorama bello e in qualche modo famigliare. In fondo è vero, come diceva Vittorio, siamo separati e al tempo stesso uniti, dallo stesso mare: le colture mediterranee sono qui a dimostrarlo.

Questa collina è bellissima. Mentre mi apparto per scrivere queste note mi vengono in mente cose diverse. La prima è una frase di Peppino Impastato, ucciso tanti anni fa dalla mafia. Peppino trovava criminale essere privati della bellezza e qui, agli altri crimini, si aggiungerebbe anche questo: deturpare con un muro ladro e osceno la bellezza di quest’area ed espropriarla di fatto (ovviamente non di diritto, questo è argomento misterioso per Israele) ai suoi legittimi proprietari, 58 famiglie palestinesi alle quali verrebbe “concesso” dall’esercito israeliano il passaggio a richiesta attraverso un cancello “agricolo” per andare sulle proprie terre. Ovviamente finirebbe per trattarsi di una proprietà dimezzata se non del tutto annullata. Ma qui, da 65 anni, è tutto un susseguirsi di furti e violazioni e sembra un miracolo che nonostante tutto la speranza nella giustizia non abbia ancora abbandonato questo popolo.

Grazie ad alcuni amici che vivono a Gerusalemme ho avuto il contatto con un giovane palestinese di Beit Jala che segue la causa contro l’avanzata del muro. Lo chiamo e fissiamo un appuntamento per il primo pomeriggio. Intanto Carmela ed io giriamo un pò, guidate da due gentilissimi contadini che si offrono di mostrarci il luogo. Mentre siamo vicine alla vineria riconosco un uomo alto, di una certa età e di origine italiana, lo riconosco per averlo visto in qualche video. E’ un salesiano in borghese, uno di quelli che dedica il suo tempo e le sue energie alla cantina e alle opere per i ragazzi palestinesi, rese possibili dalla vendita dei loro prodotti. Lo avvicino e lo informo che sto facendo conoscere in molte città d’Italia i loro vini, raccontando in ogni degustazione la minaccia israeliana che grava su Cremisan e le violazioni continue commesse da Israele. Gli dico, in poche parole, che uso questo vino per cercare di avvicinare alla causa palestinese chi ne è poco consapevole.
Parliamo per una quarantina di minuti. Capisco che non siamo proprio sulla stessa lunghezza d’onda, ma mi sembra giusto essere franca e quando gli dico che abbiamo definito la nostra campagna “declinare la Resistenza nella trasparenza di un calice” perché per noi è un momento politico di sostegno alla lotta contro l’occupazione, il prete, altrettanto francamente, mi dice che loro sono lontani, e intendono restarlo, da ogni riferimento politico. Aggiunge che è loro obiettivo aiutare i ragazzi palestinesi a studiare e a prepararsi professionalmente, aiutare le famiglie palestinesi a coltivare le proprie terre e a cercare di evitare che la prepotenza israeliana prevalga, ma tutto questo al di fuori della politica.

In un altro contesto avrei affermato che tutto questo è comunque politica, ma preferisco soprassedere e continuare a parlare. Non voglio che il salesiano si secchi e mi liquidi. E poi quello che mi sta più a cuore è provare a capire se c’è qualche intesa poco chiara tra loro e chi si sta mangiando la terra palestinese. Le cose vengono fuori da sole. Così, parlando con una certa levità di aneddoti di “ordinaria occupazione”, il prete mi racconta che quando era più giovane e impulsivo prese a pugni un ebreo integralista che gli aveva sputato sulla tonaca; poi mi racconta dell’ingiustizia di non poter esportare i vini in Europa se non facendoli transitare per Israele, cosa che invece non avviene per le esportazioni verso il Giappone. Poi si parla di poeti che hanno cantato il vino. Davanti agli autori che mi cita, e che appena possibile andrò a scoprire, quasi mi vergogno per le mie ben più limitate conoscenze. Passo dopo passo arriva a citare Giuseppe Flavio facendo una similitudine tra il passato e il presente relativamente alle varie componenti dello stato di Israele. Per quel po’ che ricordo dello storico ebreo, non mi sembra che di queste similitudini i governi israeliani possano andare fieri.

E’ piacevole parlare con questo prete, anzi per dir meglio, è piacevole sentirlo parlare. Pian piano arriva a don Bosco. Mi chiede se ne conosco gli insegnamenti. Eh sì, sono stata ben sette anni dalle suore salesiane! Questo gli piace. Non aggiungo che ora sono atea perché in questo momento non serve e svierebbe dal discorso che mi sta a cuore. Mi cita una frase di don Bosco che annoto subito per non dimenticarla: “fosse pure il diavolo a darmi i soldi per salvare un ragazzo, io li prenderei”. No, qui proprio non ci siamo, dico che se il diavolo si chiama Israele il salvataggio è una finzione. La differenza tra noi si ripresenta. La sua espressione si fa meno conviviale. Immagino anche la mia. In fondo i miei sette anni di educazione salesiana non mi hanno impedito di essere laicamente atea e la mia militanza a fianco del popolo palestinese non può farmi chiudere gli occhi rispetto alle manipolazioni di cui è capace la propaganda israeliana.

A questo punto non posso che convincermi che non solo i nostri mezzi, ma anche i nostri fini sono diversi. Parliamo ancora un pò, ma comincio a temere che le differenze si allarghino troppo perché io possa ancora usare i vini Cremisan per sostenere la Resistenza palestinese, benché in forma pacifica.
A questo punto avviene l’imprevedibile: il prete mi dice di aver letto un libro che ha “ancora scolpito nel cuore”. Aggiunge di aver imparato cose cui non avrebbe mai pensato se non lo avesse letto e aggiunge ancora, col tono deciso che hanno i preti quando sono convinti di una verità: “tutti dovrebbero leggerlo per capire.” Quindi mi chiede: “Conosce Ilan Pappé? La pulizia etnica della Palestina? Tutti dovrebbero leggerlo!”.

La giornata a Cremisan era già meravigliosa, forse solo un po’ troppo calda, ma a questo punto anche il caldo di troppo non si sente più. Ilan Pappé! Il prete del convento salesiano che mi dice di rifuggire l’aspetto politico della questione israelo-palestinese consiglia a tutti – e lo ripete – di leggere “La pulizia etnica della Palestina”! La mia amica Carmela, col suo atteggiamento schivo e discreto fino a sembrare un misto tra il distaccato e il modesto, ha un lampo negli occhi e sorridendo dice “io sono una dei traduttori di Ilan Pappé”. Il lampo negli occhi di Carmela si riflette con effetto doppio sul viso del prete. “Davvero? Ma che piacere conoscerla!” E il piacere si vede e si sente. In un attimo s’è creato un feeling che ci fa sentire il bello della condivisione pur nell’enormità apparente delle differenze.

Bene, seguiterò a comprare i vini Cremisan e a “declinare la Resistenza nella trasparenza di un calice”.

Ora il problema sarà solo quello di riportare in Italia il Baladi appena acquistato (perché in Italia non ce n’era più) che servirà al mio rientro per una degustazione in Valtellina, dove il leghista europarlamentare Fiorello Provera ha provato a introdurre i coloni israeliani che fanno vino sulle terre confiscate con la forza ai palestinesi.

Paghiamo il vino, ci scambiamo gli indirizzi email, stringiamo la mano al prete che non fa politica ma apprezza Ilan Pappé non meno di don Bosco e scappiamo all’appuntamento con J., il giovane palestinese che ci aspetta davanti alla casa delle suore.

Non so se qualcuno leggerà queste note, e non so se le leggeranno le persone giuste, per questo non indico il nome del giovane che ci spiegherà la situazione facendoci vedere, e capire con esattezza, il progetto devastante del muro.

J. ci spiegherà molto bene la situazione vista dall’interno, cioè da palestinese che vive lì e che è attivo, sebbene poco fiducioso, nell’opporsi al progetto israeliano. Una frase ripeterà più volte, ed è la frase che mi martellerà in testa per tutta la sera. L’ho annotata e ora, mentre la copio, mi torna alla mente l’espressione di questo ragazzo, un po’ triste, molto gentile, ma poco fiduciosa: “I palestinesi devono risolvere il conflitto da soli – ha ripetuto più volte – La lotta non violenta non dà frutti, la lotta armata non ha dato frutti. Ma i palestinesi devono fare da soli. Tutti voi potete aiutarci solo facendo pressione sui vostri governi.” Promettiamo che cercheremo di farlo meglio di come stiamo facendo e promettiamo che ripeteremo a tutte e tutti questa sua richiesta.

J. ci fa fare qualche passo in modo che possiamo vedere meglio il paesaggio dal vivo mentre ce lo mostra rappresentato su una grande mappa che ha portato con sé. Dall’osservazione comparata si capisce ancora meglio ciò che già sapevamo e cioè che il dichiarato diritto alla sicurezza è solo una finzione. Questo sostantivo astratto,” sicurezza”, è il leit motif giustificativo di ogni violazione israeliana. Israele e i suoi sostenitori sono stati così bravi a farlo interiorizzare che ormai è una sorta di coazione a ripetere capace di offuscare la percezione della realtà anche in molte menti sinceramente democratiche.

Certo, trovare la formula giusta è sempre stata un’arte a servizio dei migliori e dei peggiori accadimenti umani. Mi viene da pensare a quanti crimini sono entrati a pieno titolo nella Storia grazie alla formula giusta che ha aperto loro la porta. Parole incolpevoli sono state usate dalla propaganda in modo tale da farsi veicolo delle peggiori tragedie. La prima che mi viene in mente, per quelle associazioni di idee dovute alle conoscenze storiche, è “lebensraum”, spazio vitale, un concetto utilizzato in biologia per definire l’ambiente adatto allo sviluppo di una data specie vivente e diventato poi alfiere di una delle più grosse tragedie del secolo scorso. La Storia è piena di esempi del genere e, purtroppo, il termine “sicurezza” è entrato a pieno titolo nel campionario.

Lascio i miei pensieri e seguo la spiegazione di J. Ci troviamo a circa 700 m.s.l. Sopra di noi prosegue la collina, sotto di noi il suo digradare. Di fronte e di lato, sulla sinistra, abbastanza distanti, si vedono due dei tre insediamenti illegali che Israele vorrebbe rendere territorialmente continui con il terzo dietro la collina, grazie alla confisca operata col muro. In cima alla collina, dietro di noi, si vede il primo pezzo già costruito anni addietro e che Israele vorrebbe proseguire per la lunghezza di altri 1800 metri circa.

E’ evidente a chiunque, architetto, urbanista, ingegnere, ma anche contadino, impiegato, medico, studente o quel che si voglia, è evidente a tutti, bugiardi compresi, che la sicurezza non c’entra niente. E poi, tanto per non dimenticarlo mai, la sicurezza non potrà mai nascere da una situazione di violazione continua che genera odio per impotenza da una parte, e odio per tracotanza dall’altra.

J. ci dice che i palestinesi cristiani hanno scritto al nuovo papa ma con poca speranza.
Non si sa – o non si dice – se ci sono accordi tra Stato di Israele e Stato del Vaticano, ma il fatto che solo pochi giorni fa il papa abbia ricevuto Peres con tutti gli onori non è un buon segno, così come non lo è la debolezza dell’Anp e così come non lo sono le separazioni trasversali tra palestinesi, per orientamento partitico, religioso e per condizione economica. J. sembra veramente molto sfiduciato e ci trasmette un po’ di tristezza e parecchio pessimismo.

Gli chiediamo che senso ha lavorare per la Palestina se pensa che non ci siano speranze. Ma J. è palestinese. Forse 65 anni di violazioni e al tempo stesso di resistenza hanno forgiato il carattere collettivo dei palestinesi: in loro coabitano il pessimismo e la speranza. In J. per la verità il primo mi sembra più forte della seconda. Ripete ancora che la non violenza non dà frutti e i risultati sono evidenti in ogni comportamento israeliano. Ci dice “non c’è famiglia che non abbia subito almeno una confisca, o un arresto, o un’uccisione. Del resto la resistenza armata non ha possibilità di ottenere risultati e la leadership dell’AP è debole e non si vedono figure in grado di sostituire quella attuale”.

Sì, J. è profondamente pessimista, ma come dargli torto? Sono 65 anni di soprusi che mentre violano il diritto universale rafforzano Israele. J. ha chiarissimo che solo quando gli alleati di Israele troveranno troppo pesante seguitare a sostenerlo, solo allora Israele verrà fermato. Per questo salutandoci ci ripete la richiesta che ci ha fatto poco prima e che fa a tutti gli attivisti internazionali che vengono a trovarlo: “Fate pressione sui vostri governi. Trovate il modo affinché Israele venga spinto a rispettare i nostri diritti e non sia più protetto dai vostri governi, noi vi chiediamo solo questo.”

“E’ stupenda Cremisan.Terra di rara bellezza, decorata da vigneti, olivi e alberi di alto fusto, ma incastonata in una delle aree della Palestina a più alta tensione politica…”. Iniziava così un pezzo di Michele Giorgio del marzo 2010. E così voglio concludere il racconto di questa nostra giornata. E con Carmela e due cartoni di vino palestinese doc torniamo a Gerusalemme chiedendoci quanti altri palestinesi, rei di essere palestinesi in terra di Palestina, saranno stati arrestati sugli autobus per soddisfare il capriccio dei soldatini e l’illegittima pretesa di Israele di sentirsi padrone sulla terra altrui. I falsi miti del “lebensraum” per fortuna sono sfumati, quelli altrettanto falsi della “sicurezza” sfumeranno a loro volta lasciando solo la vergogna in chi li ha sostenuti.

Riprendiamo il bus n. 21 e andiamo a goderci l’ultima parte del tramonto sul terrazzo dell’hotel Hashimi nel cuore di Gerusalemme dove lo sguardo arriva fino alla cupola d’oro della moschea della roccia che noi, cittadine europee, al contrario di moltissimi palestinesi, possiamo liberamente ammirare.

Maggio 2013

Patrizia Cecconi

Presidente

Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese, onlus.




Martedì 14 Maggio,2013 Ore: 09:02