La sfida della Flottiglia di Gaza: un’agenda politica radicale

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La sfida della Flottiglia di Gaza: un’agenda politica radicale

Posted By Richard Irvine On 27 giugno 2011 @ 07:00 In Analisi & Reportages, Israel, Italiano, Palestine, Palestine Chronicle | 2 Comments

27/06/2011

Original Version: The Challenge of Gaza Flotilla: Radical Political Agenda [1]

Quella della Flottiglia di Gaza è un’agenda politica radicale – scrive l’autore irlandese Richard Irvine – essa infatti riguarda la questione più fondamentale di tutte: se debba prevalere lo stato di diritto o la legge del più forte

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Recentemente ho spesso pensato di essere entrato in un universo parallelo. Un universo in cui ciò che sarebbe illegale è legale; in cui la vittima è il criminale; in cui Golia deve difendersi da Davide.

I palestinesi hanno certamente subito quest’esperienza negli ultimi 100 anni, ma nelle ultime settimane le denunce di Israele contro la prossima flottiglia di Gaza, giunte sulla scia della condanna israeliana dei profughi morti sulle alture del Golan, hanno spinto l’incredulità al punto di rottura.

Quando Israele ha ucciso 14 profughi disarmati nella giornata della Nakba [2], e poi ha superato se stessa in una replica della propria performance tre settimane più tardi, mi aspettavo che la comunità internazionale avrebbe parlato; che avrebbe espresso la propria condanna, e avrebbe riaffermato la promessa della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, secondo cui ognuno ha il diritto di lasciare il proprio paese e di farvi ritorno. Ma ho atteso invano. 

Al di là dei borbottii del Quartetto, e del patetico appello di Ban Ki-moon alla “moderazione”, la voce più stridente certamente è stata quella di Israele. Indignata per il fatto di dover uccidere civili disarmati, ha trasformato il “tiro al piccione” contro i profughi in una difesa della sovranità israeliana, e i profughi in aggressori – colpevoli della “provocazione” di tentare di esercitare i loro diritti umani.

Oggi, mentre la flottiglia di Gaza si avvicina, la stessa trasformazione di attivisti inermi in pericolosi ed irresponsabili estremisti è già in atto da tempo. Mentre Israele si esercita nelle sue operazioni navali, intensifica anche la sua offensiva diplomatica e mediatica. L’ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite, Ron Prosor, ripete minacciosamente il linguaggio usato prima della strage dello scorso anno, definendo la flottiglia “una provocazione” e invitando la comunità internazionale a fare tutto ciò che è in suo potere per fermarla.

Ovviamente omessa in questo discorso, è la dichiarazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa che il blocco di Gaza è illegale; o quella dell’ex capo dell’UNRWA a Gaza, John Ging, che l’anno scorso ha invitato gli attivisti a rompere il blocco. In effetti, già dimenticato è anche il fatto che la precedente aggressione di Israele alla Mavi Marmara era sia illegale, che – secondo la relazione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite – omicida.

In altre parole, tutto il contesto giuridico oggettivo necessario perché l’opinione pubblica e la comunità internazionale possano giudicare le azioni degli attivisti e di Israele è assente. Invece quella che viene presentata è la storia di un’Israele sotto attacco – o addirittura di un’Israele sotto assedio. Come dice Prosor: “L’obiettivo della flottiglia non è quello di consegnare aiuti umanitari, ma di stimolare e sostenere un’agenda politica radicale”.

Tale agenda politica radicale è l’applicazione delle convenzioni internazionali e dei diritti umani.

E, naturalmente, Israele ha avuto i suoi successi. L’organizzazione umanitaria turca IHH si è tirata fuori dalla flottiglia, molto probabilmente per le pressioni del governo turco che, alla luce della rivolta siriana, sembra desideroso di sanare i rapporti con Israele. Ancor più preoccupante, però, è stato il vile appello rivolto da Ban Ki-moon ai paesi mediorientali affinché facessero tutto il possibile per fermare la flottiglia (28/05/2011).

Allo stesso modo, i protettori di Israele nei media non hanno tardato a strombazzare le dichiarazioni dei politici israeliani e a diffamare gli attivisti della flottiglia come “esponenti dell’estrema sinistra”, “antisemiti” o “terroristi”. L’ammiraglio israeliano Eliezer Marom l’ha definita “una flottiglia dell’odio i cui unici obiettivi sono di scontrarsi con i soldati delle Forze di Difesa Israeliane, di creare provocazioni sui media, e di delegittimare lo Stato di Israele” ( Ha’aretz, 19/06/2011) .

Purtroppo, in tutta questa tempesta mediatica, ciò che viene delegittimato non è Israele, ma il diritto internazionale. Per quanto ne so, nessun paese ha rilasciato una dichiarazione che ammonisse Israele a non attaccare i propri cittadini, ma diversi paesi hanno ammonito i propri cittadini a non prendere parte alla flottiglia e ad evitare qualsiasi viaggio in direzione di Gaza. Questo atteggiamento invia un messaggio inquietante. Nel caso di un attacco israeliano, questo approccio attribuisce la colpa di eventuali vittime tra gli attivisti agli attivisti stessi. In effetti si tratta di governi che si lavano diplomaticamente le mani di fronte a ciò che potrà accadere, dando allo stesso tempo ad Israele un alibi bell’e pronto che le consente di ricorrere alla violenza nella misura in cui le fa più comodo. Un fenomeno, che nel contesto di Gaza, è tutt’altro che insolito.

Eppure il diritto umanitario internazionale richiede che tutti gli Stati “rispettino e assicurino il rispetto” delle leggi di guerra; la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo richiede che tutti gli Stati promuovano “il rispetto e l’osservanza universali dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Perciò, quando i governi si lavano le mani di fronte a Gaza e agli attivisti che cercano di aiutare la sua gente, essi si lavano le mani anche di fronte a questi impegni.

Quindi cerchiamo di considerare la sfida della flottiglia di Gaza per quello che realmente è: essa non riguarda la possibilità che alcune navi raggiungano Gaza con successo, o che vengano consegnate alcune tonnellate di aiuti; né riguarda la delegittimazione di Israele. In effetti tale sfida riguarda la questione più fondamentale di tutte: se debba prevalere lo stato di diritto o la legge del più forte. In fin dei conti, non è solo l’assedio a Gaza che gli attivisti della flottiglia stanno sfidando, ma l’assedio al diritto internazionale. Dunque, sì, sono d’accordo con Ron Prosor: quella della flottiglia è “un’agenda politica radicale”.

Richard Irvine è un autore irlandese; è titolare di un corso alla Queen’s University di Belfast intitolato “The Battle for Palestine”, che esplora l’intera storia del conflitto; ha lavorato come volontario nei campi profughi palestinesi in Libano e in Cisgiordania

(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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[1] The Challenge of Gaza Flotilla: Radical Political Agenda: http://palestinechronicle.com/view_article_details.php?id=16938

[2] nella giornata della Nakba: http://www.medarabnews.com/2011/05/16/la-rivoluzione-araba-bussa-alla-porta-di-israele/



Lunedě 18 Luglio,2011 Ore: 16:29