FILOLOGIA E TEOLOGIA. LA ’CROCE’ (lettera alfabeto greco = X = "CHI") DI CRISTO NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL CROCIFISSO DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA. "Se mi sbalio, mi coriggerete" (Giovanni Paolo II)- 
IL "DIO" DEI MERCANTI E IL SILENZIO DEI FILOSOFI (OLTRE CHE DEI TEOLOGI). «Agàpe eros e philia» nell'orizzonte ratzingeriano. L'intervento di Vincenzo Paglia al festival di filosofia di Modena - con note

AGAPECHARITAS. "(...) un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire - ed è il meno che si possa dire - al di fuori d’ogni reciprocità".


a c. di Federico La Sala

 

TEOLOGIA E FILOLOGIA. Note preliminari sul tema:

CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST (1Gv., 4, 1-8). CARISSIMI, NON CREDETE A OGNI SPIRITO... DIO E' AMORE PIENO DI GRAZIA [gr.:"CHARIS"].

LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!

OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere

"Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio, e di quale Dio parlano quando parlano di Dio? La domanda è cruciale. Infatti non è per niente chiaro, non è sempre lo stesso, e sovente non è un Dio innocuo" (Raniero La Valle)

DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?! Un resoconto dell’incontro, con note (fls)

________________________________________

«agàpe eros e philia»

Il festival emiliano esplora il sentimento. Anticipiamo l’intervento di Vincenzo Paglia

Tre nomi per chiamare l’amore (e l’ultima parola non è di Eros)

Al vertice di tutto sta l’«agàpe», il suo modello è Gesù

di Vincenzo Paglia sacerdote, consulente spirituale della comunità di Sant’Egidio, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia  (Corriere della Sera, 15.09.2013)

In un mondo segnato così profondamente dalla paura e dalla solitudine, e lacerato da conflitti bellici o di civiltà, l’amore resta l’unica via per immaginare un nuovo futuro. Si potrebbe dire: è il tempo dell’«agàpe», il tempo dell’amore per gli altri e non solo per se stessi. Appunto, un amore «agapico». Agàpe, una parola greca, fu scelta dagli autori del Nuovo Testamento per descrivere l’amore di Gesù. In quel tempo non era quasi per nulla usata poiché la cultura greca per dire l’amore preferiva i termini eros e philia.

Gli autori sacri con il termine agape introducevano una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire - ed è il meno che si possa dire - al di fuori d’ogni reciprocità.

È davvero un amore fuori regola, fuori norma. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani afferma: «A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»( Rm 5, 7-8).

Con il termine agàpe si esprime quindi un amore impensabile per la ragione se Dio stesso non lo avesse rivelato. L’agàpe è infatti l’essere stesso di Dio. Quindi è l’essere stesso Dio a spingerlo a uscire da sé per scendere in mezzo agli uomini.

L’incarnazione è un mistero centrale nella fede cristiana. Essa si differenzia da tutte le altre fedi perché, più che una religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Non solo, quest’uomo accetta anche di essere crocifisso, e per amore. Nella «croce» appare il culmine dell’amore con la sua vittoria definitiva sull’egoismo.

Semiòn Frank, filosofo russo, scrive: «L’idea di un Dio disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze umane e cosmiche, l’idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea possibile, la sola "giustificazione" convincente di Dio». Qui vi è tutta l’originalità dell’agàpe, tutta la sua paradossalità, e soprattutto la sua forza irresistibile: l’agàpe è la risorsa più forte per edificare un mondo nuovo liberato dalla legge inesorabile dell’amore per sé. (...)

L’agàpe, culmine dell’amore, non elimina l’eros e la philia, non le accantona, se così posso dire, semmai le purifica dalle ambiguità e le esalta per una loro dinamica positiva. Nella cultura greca, eros era concepito come un dio senza volto, una sorta di divinità originaria, un principio di vita potente che strappa dalla vita quotidiana producendo una discontinuità inimmaginata nella vita di chi ne viene coinvolto. La discontinuità si presenta improvvisa, non è né progettata né voluta, e spinge con prepotenza l’amante ad annullarsi nell’amato, sia nella prospettiva esaltante della luce che nell’altra, anch’essa ugualmente esaltante, della morte.

In ogni caso, al di là degli esiti, eros è una energia originaria che strappa via dalla casa abituale, dalla vita ordinaria. Non a caso Platone, nel Simposio, lo definisce a-oikos, senza casa. Il grande pericolo che eros fa correre è perciò quello di essere strappati via da ogni sede, da ogni dimora, da ogni casa, senza un approdo che sia stabile.

Da un punto di vista non teologico cristiano, eros è pura avventura, come lo rappresentano le grandi figure, i grandi miti della contemporaneità: l’Ulisse dantesco, il Faust, il Don Giovanni, sono tutte figure che mollano gli ormeggi, perché che nessuna casa può contenerli. Ma eros da solo, senza un orizzonte, non basta. In sintesi, potremmo dire, che tutti abbiamo pulsioni d’amore, tutti sentiamo spinte ad amare o sentimenti d’amore che ci muovono, ma - è papa Ratzinger a scriverlo nell’enciclica Deus caritas est - «i sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore».

La philia - che traduciamo normalmente con «amicizia» - esprime un’altra dimensione ancora dell’amore. Ordinariamente viene pensata come una forma attenuata dell’amore, un sentimento più debole, meno impegnativo, meno esigente, casto per di più, segno di una innegabile limitatezza!

Molto meno cantata dell’amore, la philia è tuttavia non meno protagonista nella vicenda umana. Un bell’esempio di philia lo rileviamo nella triplice domanda d’amore di Gesù a Pietro dopo la risurrezione, quando lo interroga sull’amore. Gesù chiede al discepolo: «Mi ami?» (phileis me?). Qui non è l’eros che parla, ma un sentimento che chiede una compartecipazione stretta, duratura, perenne. È come se gli chiedesse: «Sei veramente mio, mi appartieni, ci co-apparteniamo?» Nella philia i due - e questa è la differenza fondamentale con eros - rimangono tali, non vi è una dinamica identitaria, non si risolvono in uno. I philoi sono inseparabili, ma tale appartenenza non impedisce loro di sussistere come tali nella propria identità. Anzi, sussistono perché «stanno bene insieme». Semmai, il rischio in tale dinamica è l’appagamento nella coappartenenza, una sorta di piacevole ma rischiosa chiusura.

Ed ecco l’agàpe che supera ambedue, senza tuttavia escluderle. In effetti, con la parola agàpe si entra nella logica di stampo trinitario ove non c’è l’annullamento nell’altro e neppure la coappartenenza. C’è di più: la generazione di un altro nel circolo dell’amore.

La raffigurazione emblematica dell’agàpe è l’icona della Trinità di Rublev, con i tre angeli attorno alla mensa. Agàpe è la relazione Padre-Figlio, così come Gesù la testimonia, che implica come terzo elemento quella relatio non adventitia di cui parla Agostino. La relazione tra le prime due persone, infatti, distinte e tuttavia filoi nel modo più profondo ed essenziale, obbliga a pensare la Relazione stessa come una terza figura. L’agàpe comporta una trascendenza tra i due che è appunto la «Relazione» stessa nella sua eternità, nella sua necessità. L’agàpe è interna a questa dialettica dei due e insieme li trascende entrambi. Amante e amato si trascendono in un terzo: che è la loro «relazione». Questa è agape nel linguaggio neotestamentario e nella teologia cristiana. Il suo nome è Spirito Santo e la sua azione è sconvolgente.



Martedì 17 Settembre,2013 Ore: 17:58