BIOLOGIA, FILOSOFIA, E TEOLOGIA. "Perché non possiamo non dirci darwinisti"(E. Boncinelli), "Perché non possiamo non dirci cristiani"(B. Croce), ma non possiamo dirci "cattolico-romani" - né nella scienza, né nella fede, e nemmeno nella politica!!!
DARWIN. L’evoluzione è un sistema aperto, per questo è difficile da accettare. Una recensione di Sandro Modeo del recente lavoro di Edoardo Boncinelli
(...) a differenza di altri biologi o genetisti, Boncinelli non vede però un’incompatibilità tra scienza e fede, e tantomeno irride i credenti (...) esorta solo a non confondere concetti e categorie, a non creare indebite mescolanze. E invita, semmai, ad andare fino in fondo alla prospettiva filosofica naturalistica implicata dal darwinismo (...)
a cura di Federico La Sala
Darwin, la natura non ha progetti L’evoluzione è un sistema aperto, per questo è difficile da accettare di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 11.09.2009) Oggi - a 150 anni dall’Origine delle specie di Charles Darwin - più della scimmia scandalizza la spugna. Più che dall’avere in comune con un gorilla il 99 per cento del corredo genico, molti esemplari di Homo sapiens possono sentirsi feriti dal fatto - appurato di recente - che le proteine adibite all’adesione cellulare in certe colonie di spugne sono le stesse che regolano le connessioni dei nostri neuroni, e quindi il nostro pensiero. Eppure, non c’è esempio migliore per riassumere la discendenza dei viventi da un comune progenitore unicellulare, cioè uno dei cardini della teoria evoluzionistica. Del resto, con la sua prosaicità, l’esempio condensa bene l’insofferenza in toto verso la teoria stessa, vista per un verso (è la posizione di tanti credenti) come una pericolosa alternativa al Dogma, con l’uomo detronizzato e privato del suo pedigree divino; per un altro (è la posizione di tanti scienziati sociali, specie di sinistra) come un insieme di spiegazioni interne alla biologia, utili per capire il collo della giraffa, ma totalmente impotenti o rozzamente limitative davanti alle grandi domande psicologico- filosofiche e alla complessità della Storia. Il nuovo, foltissimo libro di Edoardo Boncinelli Perché non possiamo non dirci darwinisti (Rizzoli), in cui lo scienziato riprende e integra gli argomenti di un saggio già classico come Le forme della vita (Einaudi), è la migliore smentita a queste visioni pregiudiziali: anche perché il rigore dell’esposizione (la distinzione tra le acquisizioni sicure, quelle controverse e i limiti costitutivi della teoria) è resa incalzante dalla felicità degli esempi e delle metafore e da una trasparenza sintattico- concettuale «ad alta definizione». Unica condizione richiesta: essere disposti a ripartire da zero, affrontando un doppio paradosso. Il primo paradosso è che per capire le implicazioni filosofiche dell’evoluzionismo - la sua innovativa «visione del mondo» - non bisogna trattarlo come una teoria filosofica, ma come una teoria strettamente scientifica. Con ferrea progressività, Boncinelli stabilisce così il dominio delle dinamiche evolutive a partire da 3 miliardi e 800 milioni di anni fa, cioè dal momento in cui - 700 milioni di anni dopo lo stabilizzarsi della Terra lungo la propria orbita - appaiono le cellule e l’informazione replicabile, prima nell’Rna e poi nel Dna. Infatti, anche se una sorta di evoluzione chimica ha preparato il terreno - con gli amminoacidi tesi ad aggregarsi, per prove ed errori, in proteine organizzate - è solo da quel momento che comincia a operare la «selezione naturale» in quanto processo-guida dell’evoluzione com’è intesa da Darwin. È il punto centrale, su cui non si insisterà mai abbastanza. Gli organismi, per Darwin, non «reagiscono » agli stimoli dell’ambiente (suolo e acqua, aria e luce), ma vi si affacciano con un incessante brulichio di variazioni (o mutazioni) scremate in base a un idoneità biologica leggibile solo «a posteriori ». Non di «risposte» si tratta, ma semmai di un ventaglio di «proposte» destinate a essere appunto selezionate in rapporto alla loro efficacia adattativa, e poi trasmesse dai geni alla discendenza. Non solo: perché l’evoluzione non si arresti, le mutazioni devono continuare senza sosta attraverso errori di replicazione del Dna, al punto che, pur operando sul fenotipo (l’organismo) la selezione elegge il suo interlocutore vero nel genotipo (il patrimonio genetico), di cui il fenotipo è l’espressione. Dai batteri alla raffinata struttura del corpo umano, l’evoluzione è dunque un sistema aperto, un processo in cui convivono conservazione e cambiamento, stabilità e alta flessibilità, spreco immane (i tanti tentativi inidonei) e spietato opportunismo (vedi certi pesci di caverna che perdono l’apparato oculare). E soprattutto - per riprendere Jacques Monod - caso e necessità: il caso nell’origine della vita (che nell’universo conosciuto è un accidente raro se non unico) e nelle mutazioni; la necessità nei vincoli fisici e chimici della materia, organica e inorganica, e nella replicazione genetica. L’insieme può trasmettere l’idea di un cosmo insensato e tirannico, che terrorizza - diceva Stanley Kubrick - non per la sua «ostilità», ma per la sua «indifferenza». E qui si incunea il secondo paradosso. La visione del mondo implicata dall’evoluzione - che spiega molto in termini di «adattamento » - è meno adattativa di tante altre. E questo - come dimostra Boncinelli - perché l’evoluzione è priva di cause e scopi, mentre il nostro cervello cerca ovunque spiegazioni causali e disegni finalistici: il bambino scopre a pochi mesi la causalità nel movimento, e a 3-4 anni il finalismo attraverso la pianificazione. In quest’ottica, anche la religiosità è spiccatamente adattativa, perché riesce a suturare la paura della morte, la sofferenza per un lutto, il «nonsenso» dell’esistente. A differenza di altri biologi o genetisti, Boncinelli non vede però un’incompatibilità tra scienza e fede, e tantomeno irride i credenti, atteggiamento che produce - dati alla mano - più acquisti di Bibbie di ogni altro: esorta solo a non confondere concetti e categorie, a non creare indebite mescolanze. E invita, semmai, ad andare fino in fondo alla prospettiva filosofica naturalistica implicata dal darwinismo, ricordandoci che «la biologia si può trascendere ma non ignorare», cioè che anche le più vertiginose elaborazioni metafisiche sono comunque vincolate e indirizzate dai nostri limiti neurofisiologici. Nel finale potente e toccante dell’ Origine delle specie Darwin vede «qualcosa di grandioso » nel fatto che «da un inizio tanto semplice, così tante forme di vita si siano evolute e stiano evolvendo, tutte straordinariamente belle e degne della più grande ammirazione ». È legittimo vedervi un innesco divino (Darwin stesso parla di vita «infusa»); ma è legittimo anche emozionarsi al pensiero che l’esito più alto e più tragico del processo evolutivo (la nostra consapevolezza e il nostro interrogarci sull’universo) condivida certi tratti con quelli di una semplice spugna. Martedì 15 Settembre,2009 Ore: 21:43 |