LINGUA, INTELLETTUALI, E IDENTITA' ITALIANA. Il "De Vulgari Eloquio di Dante (...) da considerare come essenzialmente un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in Dante), come un aspetto della lotta politica" (A. Gramsci).
PAOLO SARPI, "MI VENDICHERA' DI RATZINGER". E CHI DEL CAVALIERE DI "FORZA ITALIA"?! Rossana Rossanda, "in viaggio con Asor Rosa nella letteratura italiana", ricorda "una sontuosa koiné".

Con che faccia può parlare dei tre volumi di Alberto Asor Rosa sulla Letteratura italiana - ed è solo un tirare i fili del lavoro di una vita - una che ha assai mal frequentato le patrie lettere? (...) stasera comincio Paolo Sarpi, che a lungo ha significato per me soltanto l’omonima via, e mi vendicherà di Ratzinger.


a cura di Federico La Sala

IN VIAGGIO CON ASOR ROSA NELLA LETTERATURA ITALIANA

UNA SONTUOSA KOINE’

Di che è fatta un’identità italiana, ammesso che ci sia, se non dalla lingua che si è andata secernendo, luminosa e iridata come una perla scaramazza, dalla vecchia ostrica del latino? Riflessioni a margine dei tre volumi della recente «Storia europea della letteratura italiana»

di Rossana Rossanda (il manifesto, 04.07.2009)

Con che faccia può parlare dei tre volumi di Alberto Asor Rosa sulla Letteratura italiana - ed è solo un tirare i fili del lavoro di una vita - una che ha assai mal frequentato le patrie lettere? Al mio tempo avevo ingoiato il mortifero Vittorio G. Rossi e ascoltato Fubini che faceva lezione cupamente reggendo la fronte su una mano. 1941, 1942, tempi bui. Quale corso faceva? Non ricordo. Eppure ricordo Banfi e Marangoni e Chabod. E financo la «Farsaglia» di Luigi Castiglioni - forse per lo spavento che mi incuteva. E poi perfino lettere romanze. È la letteratura italiana che è scomparsa dalla mente; la scuola inabissa quello che un certo insegnante o certe pagine non hanno destato con un sussulto.

E dopo il 1945, ché allora giusto finivo l’università, ci gettavamo sui libri prima introvabili, Verlaine e Joyce e Apollinaire e Mann e Hemingway e Malraux e Melville in voluttuosa confusione. Avrei reincontrato l’Italia privatamente e senza metodo. Chissà da quando mi porto dentro tanti versi della «Commedia», penso agli amici con «Guido, io vorrei ...», mi ha stupito a Vaucluse il verde profondo delle «Chiare fresche e dolci acque» e borbotto «Italia mia benché il parlar sia indarno...»? Perché ricordo Chichibio che se la cava con la gru più che un’altra novella? Capisco perché l’Ariosto stia fra i libri a portata di mano e non il Tasso ma, non avendo mai più riaperto il Carducci, come mai non mi si schiodano di dosso «Teodorico di Verona, dove vai così di fretta?» e il pio bove o «Tu che pasci i buoi presso Bevagna caliginosa»? Caliginosa. Poi ci sono gli inconfessabili odi, Pascoli, perfino Manzoni - a torto, a torto, mi pento (ma è così, un milanese sempre a posto con tutto). Invece Leopardi è mio da e per sempre. Dopo, ogni lettura è un tassello del confuso vivere.

Troppo poco. Che vergogna. Volevo rimettermi a studiare con ordine, uno dopo l’altro e meglio tardi che mai, sull’Asor Rosa, invece il suo ragionare mi ha messo in moto i pensieri. Specialmente uno: di che è fatta un’identità italiana, ammesso che ci sia, se non dalla lingua che si è andata secernendo, luminosa e iridata come una perla scaramazza, dalla vecchia ostrica del latino? E dopo essere passata per le lingue d’oc e d’oil, come il francese? Cosa che non succedeva agli spagnoli. Soprattutto Francia e Spagna si facevano anche stati o imperi. Noi niente, per secoli; tutti ci hanno passeggiato sopra, non sono mancati, credo, che i mongoli. Distruggendo e costruendo, ammazzando e incrociandosi, rubando e lasciando, tutti insopportabili e tutti subìti (donde, suppongo, anche il peggio del paese, «Francia o Spagna pur che se magna»).

Molto tardi i grandi devono avere concluso che era più prudente lasciar indipendente la penisola invece che annettersela, uno di loro diventando troppo grosso. C’erano gli antichissimi e innocui conti di Maurienne, poi duchi di Savoia, appollaiati sulle Alpi a affittarne i passaggi («portinai» delle Alpi li definisce Le Roy Ladurie) allergici alla rivoluzione francese e poi a Napoleone, scoloriti Umberti e Amedei esperti nel ribaltare alleanze, che a un certo momento hanno senz’altro lasciato alla Francia il suolo natale e prestato orecchio agli afflitti patrioti di un’Italia che non c’era. Ma non è curioso che l’Italia, di cui non esisteva che l’italiano, sia stata unificata da una famiglia che parlava francese? È vero che c’era l’abile Cavour, che ha saputo tessere fili e usare e gettare il Garibaldi di Teano («Obbedisco, Sire» ed è finito a Caprera a rimuginare orribili versi, povero leone).

Quel popol disperso

Le pagine di Asor mi obbligano a chiedere perché ci hanno insegnato storia da una parte (si fa per dire), storia della lingua mai, e letteratura italiana dall’altra? Che senso ha? Leggo questi volumi, che mi aprono tante prospettive assieme, e mi viene il dubbio che non ne abbia nessuno specie per un paese come il nostro. Anche la Germania si unificava tardi dopo una coda meravigliosa di lingua e cultura, sarà un destino, ma essa almeno si faceva mettere assieme da uno dei suoi. Noi, in compenso, non siamo riusciti a farci dividere fino in 350 stati. Bah.

In ogni modo è la tempesta del 1848 che rovescia le carte e i Savoia fanno l’Italia, un millennio che esiste l’italiano e di più la nostra letteratura. Che mi importa della nazione? Meno che ad Asor. Mi va bene che i barbari ci abbiano percorso da nord a sud e ritorno, e i greci, gli arabi, i turchi, i francesi, gli spagnoli. Che Nelson sia passato solo per schiacciare la rivoluzione napoletana e che, con l’aiuto della Francia, i papi abbiano massacrato la repubblica romana: potremmo averne dedotto sul serio che razza di roba eravamo e che cosa è libertà. Invece no, non mi pare. È esistita sola e sempre la koinè d’una splendida lingua (koinè è meglio di nazione, identità, stato, eccetera).

Mi incanta apprendere che all’inizio del Seicento un modesto tale di Udine e un modesto tale di Grottaglie non avessero in comune né sovrano, né moneta, né leggi, né, credo, modo di alimentarsi, niente di niente se non un amore spropositato per il cavalier Marino. Mi appassiona che Galileo sganci la scienza, oltre che da Aristotele, dalla chiesa e dal latino e illimpidisca il volgare. Il popol disperso che nome non ha aveva questo sontuoso linguaggio. Che ha retto a venti e maree anche se parlato da pochi, i più sprofondati nei vigorosi dialetti.

Ma basta. Credevo di suggerire la lettura di questi tre libri per scoprire questo o quel grande, annegarvi provvisoriamente come in un quieto lago, rifare il viaggio di Dante, ascoltare le novelle di Boccaccio raccontate due volte, innamorarsi di nuovo dello scettico Ariosto, costeggiare il Poliziano e farsi tentare da Ippolito Nievo piuttosto che, come è successo a me, dalla Certosa di Parma di Stendhal. Invece mi ha avvinto il castone in cui le gemme sono collocate, quel crogiolo di eventi e idee di un’Europa nell’infuriare di eserciti belligeranti e trattati che ne amputavano e ricucivano incessantemente i territori. Le koinè linguistiche mettono in comunicazione e in forma per loro correnti profonde, veicolando tesori, scordando lo scordabile e cancelleresco, collegando le genti. Perché diavolo ci fanno studiare tutto diviso, neanche una modesta sinopsi che metta accanto davanti ai più giovani la sorprendente contemporaneità di luci ed orrori?

Così avevo a lungo pensato pigramente al nostro Seicento - invidiando ai francesi le grand siècle e agli spagnoli Cervantes - come peste, guerre, lontani ma decisivi trattati di Westphalia, streghe arrostite e leziose decadenze, Galilei come se fosse di un altro mondo. E invece le pagine sul barocco e la decadenza sono bellissime e inducono una messe di problemi e gettano luci su insospettati legami, perché è anche un secolo di filosofia, anzi di passaggio per tutte, più o meno amabili. È implicito il rapporto con quella storia della chiesa, che in Italia è coperta da un fitto velo - almeno se ne parlasse nell’ora di religione - benché la gran parte di noi sia stata per secoli sotto le sue per niente spirituali zampe. E in latino. Credo che solo per il concilio di Tours abbia permesso qualcosa di simile all’italiano e al tedesco. Ancora adesso l’italiano le dispiace.

Bisogna essere grati anche a Sabine Koester Genuini per le limpide schede sulla lingua; anch’essa torrentizia. E pensare che la nostra letteratura è nata prima di essa, assieme al francese e agli occitani che già avevano sfondato il latino volgare e molto piacevano a poeti e viaggiatori della penisola dopo che i barbari vi avevano scorrazzato e prima che gli indigeni decidessero se la più bella del reame fosse la fiorentina, e se sì, quella di Dante o quella di Guido Cavalcanti. La chimera dell’identità

Siamo proprio un paese che fa spesso a meno di date e confini precisi. A proposito di date, si dice che il primo italiano trascritto siano state le parole d’un tale che certificava alcune terre essere appartenute da trent’anni ai benedettini. E io che credevo da una vita che la prima scritta in volgare fosse su un affresco in San Clemente a Roma e suonasse, ahimé, «Tira su quella trave, figlio di puttana». Gli amici francesi cui la mostravo mi precisavano che loro, invece, avevano «Etoilette, te voilà - que la lune trait à soi» (Eccoti, stellina, che la luna si tira accanto). Vuoi mettere? Almeno fossi autorizzata ad opporgli d’ora in poi «Meravigliosamente - un amor mi distingue»...

È in questa galassia che fluttua per secoli la chimera dell’identità italiana, fra potentati altrui e servaggi nostri. Almeno non abbiamo l’arroganza dei francesi che della loro lingua presumono ancora che sia la sola nella quale si possa pensare. Invece le perle formatesi nella putredine del latino seguono ciascuna i loro cammini, in versi, vezzi, prose, pensieri, lampi, ragionevoli abiure.

Insomma, giovani internauti, leggete gaudiosamente. Sappiate che non è obbligatorio morire di Google. Per conto mio, stasera comincio Paolo Sarpi, che a lungo ha significato per me soltanto l’omonima via, e mi vendicherà di Ratzinger.


Sul tema, in rete, si cfr.:

DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"

DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD, AL DI LA’ DELL’EDIPO E DEI VECCHI HEGEL HEIDEGGER HABERMAS E RATZINGER.

IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.

PIANETA ITALIA. LA DECADENZA CRESCENTE, IL BERLUSCONISMO, E L’URGENZA DI UNA COSTITUENTE DELLA SINISTRA. Un’analisi di Asor Rosa

EMERGENZA EDUCATIVA: TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI. Alcuni appunti

G8 2009. ULTIMA NOTIZIA DALL’ITALIA: RISOLTO IL QUIZ, FINALMENTE!!!



Sabato 04 Luglio,2009 Ore: 21:40