OMAGGIO A PANAHI

Io voglio essere la voce dell’Iran


di Daniela Zini

Solo le donne sono in grado di provare vero amore, quell’autentica devozione che le brucia senza alcuna speranza di giungere a realizzarsi?
Un’antica credenza sostiene che Eva, creata dalla costola di Adamo e, quindi, parte di lui, aspiri all’intero indiviso.
L’aspirazione della parte verso l’intero è, forse, più forte di quella dell’intero verso la parte che da lui è separata?
Vengono in mente concezioni gnostiche nelle quali il principio originario si scinde in un elemento celeste, maschile, e uno terreno, femminile; come suggeriscono i testi di Nag Hammadi, il secondo si perde nell’oscurità del mondo, si lascia sedurre abbandonandosi agli aspetti più vili, e, tuttavia, anela al vero Signore, con il quale potrà rivivere la perduta e dissipata felicità dell’unione. 
1.  L’inquadratura del cerchio
La caduta dei grandi uomini rende i mediocri e i piccoli importanti. Quando il sole tramonta all’orizzonte, anche il sasso più piccolo fa una grande ombra e si crede qualcosa.
Victor Hugo
A meno di un anno dalla febbre che si era impadronita di Tehran e aveva invaso le televisioni di tutto il mondo, l’Iran è, di nuovo, scomparso dai nostri schermi.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, il governo iraniano di Mahmud Ahmadinejad sembra determinato a soffocare gli ultimi focolai di contestazione. Tra le vittime di questo inasprimento vi sono sicuramente gli oppositori politici, gli studenti, ma anche gli artisti e, tra loro, i cineasti. Ma se i cineasti, rimasti o trattenuti in Iran, subiscono censure, intimidazioni, perfino minacce fisiche, i circuiti clandestini si organizzano. Dal loro esilio, gli altri, continuano a testimoniare, prendendo la parola o brandendo la cinepresa.
La rivista Film, diffusa a Tehran, ha pubblicato, in settembre, un’inchiesta su un decennio di censura in Iran. Le cifre parlano da sole: su 607 film, prodotti e, ufficialmente, riconosciuti dallo Stato, solo 427 hanno beneficiato di un’uscita nazionale. Tra i 180 film censurati, si trovano film di registi di fama mondiale, quali Abbas Kiarostami, Bahman Ghobadi e Mohsen Makhmalbaf.
La nomina al ministero della cultura e della guida islamica di Mohammad Hosseini, un fondamentalista ultra-radicale, ha stroncato sul nascere ogni aspettativa di ammorbidimento del regime.
A meno di conformarsi all’estetica ufficiale del regime, fare del cinema in Iran è più che mai un’attività ad alto rischio!
Lo sa bene Jafar Panahi, arrestato, il primo marzo scorso.
Il suo crimine? 
Avere sostenuto Mir Hossein Mussavi, il principale leader dell’opposizione, in risposta alla politica di repressione e di censura, di cui sono stati vittima gli artisti iraniani nei quattro anni del primo mandato del presidente Mahmud Ahmadinejad. Insieme al regista erano arrestati la moglie, Tahereh Saidi, la figlia ventenne Solmaz Panahi, e altre quattordici persone, tra le quali i registi Mohammad Rasulov, Mahnaz Mohammadi e Rokhsareh Ghaem-Maghami, l’aiuto-regista Mehdi Pourmoussa e il cineoperatore Ebrahim Ghaffari (1). Quanto accaduto al cineasta non era un caso isolato: il 12 gennaio, era stata arrestata in condizioni analoghe, insieme al marito, Majid Ghaffari, la fotografa Mehraneh Atashi. È la nuova tattica del regime di Tehran per mettere a tacere i dissidenti: approfittare di una festa per fare irruzione nella loro abitazione e arrestarli con il pretesto di aver violato la legge iraniana, servendo alcol o accettando la presenza di coppie non sposate. Procedendo in tal senso, il regime può dimostrare che gli oppositori conducono una vita dissoluta, non conforme ai principi islamici che i loro leaders, Mir Hossein Mussavi e Mehdi Karubi, pretendono incarnare.
 “Jafar Panahi non è stato arrestato perché è un artista o per ragioni politiche. È accusato di alcuni crimini ed è stato arrestato insieme a un’altra persona, in seguito al mandato di un giudice.”,
aveva dichiarato, il 2 marzo, il procuratore generale di Tehran, Abbas Jafari Dolatabadi all’agenzia ISNA.
Non era la prima volta che Panahi era arrestato, dopo le tumultuose elezioni presidenziali del giugno scorso. Il 30 luglio, era stato fermato con la sua famiglia, per aver assistito, nel cimitero Behesht-e Zahra di Tehran, a una cerimonia in commemorazione di Neda Agha Soltan, di cui ricorreva il quarantesimo giorno dalla morte.
Panahi non poteva più lasciare l’Iran, da quando, la scorsa estate, in occasione della XXXIII  edizione del Festival dei Film del Mondo di Montreal (27 agosto – 7 settembre 2009), aveva rilasciato interviste coraggiose e pericolose.
“Tutta la popolazione ha manifestato contro l’affronto subito. Non può tollerare queste elezioni truccate. Siamo numerosi, vinceremo. E non crediate che il movimento sia stato indebolito, come alcuni vorrebbero far credere. L’arretramento è simulato, strategico. Si stanno tentando altre strade. Tra un mese, gli studenti si mobiliteranno nelle scuole e nelle università. Ci stiamo organizzando. I giovani costituiscono una forza straordinaria e le loro immagini sulla repressione sono diffuse ovunque.”
Aveva deplorato di aver potuto realizzare solo cinque film, in quindici anni:
“Ho potuto girare solo cinque lungometraggi in quindici anni. Ogni volta, ho dovuto battermi e tentare manovre di aggiramento per poter realizzare i film che volevo fare.”,
poi, si era affrettato a chiarire:
“Potrei realizzare film approvati dalle autorità. Non mi interessa. Con quello che accade in questo momento, la mia posizione è ancora più radicale. Vi è una buona parte del cinema iraniano che si realizza ormai attraverso reti sotterranee. Riuscirò a trovare il modo di girare. Non sono le idee che mancano.
La sua notorietà lo aveva, a lungo, protetto dal peggio, ma ogni protezione ha i suoi limiti.
“Il vero coraggio è quello di cui danno prova tutti quei manifestanti anonimi, che, nonostante il pericolo, non esitano a manifestare. Quanto a me, la notorietà di cui godo sul piano internazionale mi conferisce una certa immunità.”
Una certa immunità…
“Ho potuto lasciare l’Iran senza problemi per venire qui. Dispongo di un regolare passaporto e le autorità canadesi mi hanno rilasciato un regolare visto. Da noi, non è quando si parte che sorgono i problemi. È quando si torna!  Io so che mi interrogheranno al mio ritorno. Ma non voglio tacere. So quello che faccio. Il movimento di opposizione è troppo importante, l’onda di fondo è troppo grande. I giovani, che costituiscono la maggioranza della popolazione, sono ben risoluti a far cambiare le cose. Prima o poi, questo regime cadrà. È inevitabile.”
Panahi era stato toccato dalla solidarietà, testimoniata al suo arrivo a Montreal. La serata di apertura del festival, tutti i membri della giuria avevano ostentato le sciarpe verdi – il colore della contestazione in Iran – che il regista aveva loro distribuito. Dalla comunità internazionale, Panahi attendeva, giustamente, sostegno, solidarietà, simpatia, ma pretendeva che il popolo iraniano fosse l’unico a poter decidere del proprio destino.
“Un intervento militare internazionale sarebbe una catastrofe e non farebbe che peggiorare le cose.”
“Da noi, gli oppositori hanno l’intelligenza di manifestare pacificamente – nonostante il pericolo – perché sanno molto bene che una democrazia non può sbocciare dalla violenza.”
Il regista, formatosi nel documentario prima di divenire uno degli esponenti di punta della Nouvelle Vague del cinema iraniano, crede più che mai alle virtù del cinema.
“Un film non può cambiare il mondo. Ma può aiutare a prendere coscienza, a far riflettere, a sensibilizzare. Dal momento in cui uno spettatore inizia una riflessione all’uscita da un film, il cinema si rivela molto utile.”
In ottobre, a poche ore dalla partenza per il Festival di Mumbai, gli era stato ritirato il passaporto.
“Vi è un prezzo da pagare in Iran per lavorare in modo indipendente dal governo.”
In marzo, il divieto di lasciare il paese gli aveva impedito di recarsi alla Berlinale.
“Siamo sorpresi e profondamente dispiaciuti che a un regista che ha vinto tanti premi internazionali sia stata negata la possibilità di partecipare a questo evento e di parlare della sua visione del cinema.”,
era stato il commento di Dieter Kosslick, direttore del festival.
L’8 marzo, Abbas Kiarostami ha pubblicato una lettera aperta al governo iraniano su un quotidiano di Tehran, per chiedere la liberazione di Jafar Panahi e Mahmud Rasulov (2).  Tra il grande regista e Bahman Ghobadi, suo assistente in Il vento ci porterà via, lo scorso autunno, era scoppiata una polemica. Ghobadi (3), che ha dovuto esiliarsi dopo il suo film sulla gioventù underground iraniana, Gatti persiani, rimproverava a Kiarostami di non essere politicamente impegnato e di realizzare film lontani dai problemi dell’Iran (4). L’incidente tra i due cineasti chiarisce la difficoltà degli artisti iraniani di prendere posizione di fronte all'invadenza ideologica del regime attuale.
Quale avvenire per il cinema iraniano?
La ruota gira e per il momento gli artisti attendono, osservano, spiano…
“Non esiste niente di costante come il cambiamento.”
Buddha
Le vere rivoluzioni, quelle che non si limitano a cambiare la forma politica e gli uomini di governo, ma che trasformano le istituzioni e danno luogo ai grandi trasferimenti della proprietà, lavorano a lungo sotterranee prima di scoppiare alla luce del giorno sotto l’impulso di qualche circostanza fortuita. La rivoluzione islamica, che colse alla sprovvista con il suo impeto irresistibile le sue vittime, non meno degli stessi autori e beneficiari, ebbe una lenta preparazione per più di un secolo. Nacque dalla concordanza, che tendeva a farsi di giorno in giorno più profonda, tra la realtà delle cose e le leggi, tra le istituzioni e i costumi, tre la lettera e lo spirito.
Vi sono paesi che muoiono giovani e si arrestano giovani: tutto ciò che segue al loro periodo di vigore riguarda la sopravvivenza e la resurrezione.
L’Iran non si è mai ripreso dalle estenuanti fatiche delle sue avventure imperiali.
E, solo ora, iniziamo a capire ciò che in questo paese commuove e, a volte, sconvolge: in contatto diretto con la realtà, il peso bruto dell’oggetto, l’emozione o la sensazione forte e semplice, antica e sempre nuova, dura o dolce come la scorza o come la polpa di un frutto.
Questa terra così celebrata è meravigliosamente immune da artifici letterari; lo stesso preziosismo di certi suoi poeti non la tocca. Questa terra da cui sono scaturiti tanti capolavori non viene sentita come l’Italia, subito patria privilegiata delle arti, ma vi pulsa la vita come il sangue in un’arteria. Poche regioni sono state più devastate dal favore delle guerre di religione, di razze e di classi; sopportiamo il ricordo di tanti furori inespiabili solo perché qui ci appaiono più nudi, più spontanei e meno ipocriti che altrove, quasi innocenti nel confessare il piacere che prova l’uomo a fare del male all’uomo.
Non vi è paese più dominato da una religione possente che favorisce il più delle volte la bigotteria e l’intolleranza, ma non vi è neppure paese ove si senta di più, sotto il broccato delle devozioni o sotto la pietra dei dogmi, sorgere il fervore umano.
Non vi è paese più legato, ma anche nessuno più libero, da questa rudimentale e suprema libertà fatta di privazione, di povertà, di indifferenza, del gusto di vivere e del disprezzo di morire.
2. La dittatura del cerchio
“Ogni volta che su un autobus un corpo femminile sfiora un corpo maschile una scossa fa vacillare l’edificio della nostra rivoluzione.”
Ruhollah Khomeini
“La società iraniana, in particolare se messa a confronto con questa parte del mondo è in buona misura un mondo maschile. Il raggio del cerchio può essere, in certi casi marginali, più lungo per gli uomini. Il mio film non si propone di essere contro gli uomini, né vuole essere un film femminista. È un film sull'umanità. Uomini e donne fanno parte dell’umanità. Non mostro mai alcun tipo di maltrattamento o di collera maschile verso le donne. A esempio, vediamo le donne che hanno paura della polizia. Può essere vero o non vero. Quando la polizia è vista in campo lungo, ha un aspetto minaccioso. Ma, in campo medio, il poliziotto ha un aspetto gentile.”
Panahi, che fin dal suo primo film, Il palloncino bianco, rivela un autentico sguardo da cineasta, firma con Il cerchio un’opera magistrale.
Aveva dovuto attendere due anni prima di ottenere l’accettazione del progetto da parte delle autorità iraniane, ben coscienti del potenziale sovversivo della sceneggiatura, ma intenzionate a dare un’immagine meno integralista dell’islam e della realtà iraniana agli occhi degli occidentali.
Accettazione ipocrita e a doppio taglio, perché Il cerchio, Leone d’oro al Festival di Venezia, nel 2000, non è mai stato diffuso fino a oggi in Iran.
Come in Fuorigioco, Panahi non teme di scegliere il soggetto politicamente più rischioso: svelare i meccanismi sociali che stabiliscono e assicurano l’oppressione delle donne nella società iraniana contemporanea, una questione particolarmente spinosa, che la nuova donne politica, senza autorizzarlo esplicitamente, permette, forse, di porre.
È innegabile che il cambiamento politico, incarnato da Khatami, i cui poteri restavano, tuttavia, limitati, abbia dovuto svolgere un ruolo importante nella scelta del soggetto.
La libertà come l’acqua si infiltra attraverso percorsi complessi.
Girato rapidamente – per non incorrere nelle ire delle autorità che sorvegliavano le riprese –, il più sovente in esterni, con una cinepresa in spalla e attrici non professioniste dalla recitazione stupefacente, Il cerchio è un film indimenticabile dai ritratti di donna generosi e autentici, che lascia un segno indelebile.
Uno dei pilastri della ricca cinematografia iraniana contemporanea!
“Tutti nel mondo vivono dentro un cerchio. Per problemi o tradizioni economiche, culturali o familiari. Il raggio del cerchio può essere più o meno lungo. Non conta la collocazione geografica, tutti vivono dentro un cerchio. Se il film eserciterà una qualche influenza su qualcuno, spero lo induca a cercare di estendere il raggio.”
3. La quadratura del cerchio
“Gli uomini devono comprendere quello che soffrono le donne. È essenziale per l’umanità.”
Jafar Panahi
“Del vostro mondo mi furono cari
 le donne e il profumo,
 e il conforto dei miei occhi è nella preghiera.”
Questa massima del profeta Maometto viene spesso citata; com’è possibile, allora, che l’islam sia ritenuto una religione misogina? 
È una descrizione impressionante della società iraniana quella offerta da Panahi con Il cerchio, ma i paesi musulmani non hanno l’esclusività di una dominazione maschile, rafforzata dal fondamentalismo religioso.
In Israele, a esempio, se non partorire o compiacere il proprio marito, quali sono i diritti delle donne nella comunità ebraica ortodossa?
È il tema del film di Amos Gitai, Kadosh (Israele, 1999), presentato alla LII edizione del Festival di Cannes.
Qual è, dunque, la realtà dei paesi musulmani?
Qual è la tendenza significativa in questi paesi?
La condizione delle donne musulmane, considerata dagli occidentali come un tutto monolitico, immutabile nel tempo e statico nello spazio, non presenta affatto un volto uniforme ed è legata, come altrove, alle società e alle tradizioni locali.
Non esiste un prototipo univoco della donna musulmana.
Il cinema favorisce la visione di una realtà che, talvolta, smentisce le informazioni occidentali.
Le donne che vivono in Iran si confrontano a codici e costumi diversi da quelli che vigono in Marocco, in Egitto o in Libano. La condizione femminile cambia da un paese all’altro. E, non bisogna neppure dimenticare che, all’interno degli stessi Stati indipendenti, la situazione è molto diversa tra zone rurali e zone urbane, ma anche tra classi sociali.
Dopo Pechino, il cui cardine metodologico è quello di guardare il mondo con occhi di donna, parole come mainstreaming e empowerment sono entrate nel dibattito femminista e, con risultati alterni, anche in quello dei governi per indicare, rispettivamente, la necessità di integrare in tutte le politiche la dimensione di genere e l'obiettivo di rispondere all’esigenza della donna di prendere parte, pienamente, a ogni tipo di sviluppo – economico, sociale, politico, ambientale –, assumendo le responsabilità, anche formali, che a questa partecipazione si coniugano.
La parità di partecipazione di donne e uomini a tutte le fasi dello sviluppo economico e sociale costituisce un prerequisito per la realizzazione della giustizia di genere.
Daniela Zini
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Note:
(1) La moglie, la figlia e altre dodici persone erano rilasciate quarantotto ore più tardi, Mohammad Rasulov e Mehdi Pourmoussa, il 17 marzo 2009.
(2) “Caro Kiarostami, tu non hai alcun diritto di accusarci di fare un cinema militante solo per tacitare la tua coscienza di moderato silenzioso. In tutti questi anni tu hai realizzato film che non avevano alcun rapporto con la politica e con la nostra società, ed è assolutamente un tuo diritto. (…)
Hai detto: “L’unico posto in cui posso dormire tranquillo la notte è la mia casa…”.
Come fai a dormire la notte, quando tutto il mondo è a conoscenza di quello che sta accadendo ai nostri giovani?
Come riesci tu a dormire, quando la tua gente non riesce a dormire perché preoccupata del suo futuro e di quello dei suoi figli?”
(3) “Diventando adulto, ho sperimentato che non posso cambiare il destino di questa nazione. Da giovane, ovviamente, ero più idealista ed emotivo. Ora sono più pragmatico. Non posso cambiare il risultato, quindi non mi faccio coinvolgere. Il nostro Paese si trova in circostanze molto particolari. Non vedo nessuno per il quale io possa votare. Come posso votare per qualcuno nel quale non ho fiducia? (…)
Ero il capo della giuria. Il signor Ghobadi non aveva nemmeno un voto. Forse pensava che io avessi il potere di dire agli altri membri per chi votare. Ha reagito con rabbia illogica in una lettera aperta che mi ha ferito. Avevo già accettato d’essere capo della giuria in Marocco e sarebbe stato difficile giudicare altri film iraniani. Non farò mai più parte di una giuria. Il problema è che siamo tutti influenzati dal sistema della Repubblica islamica dove una persona ha il potere assoluto. Ghobadi credeva che avessi il potere assoluto come capo della giuria. La gente ha dimenticato che cos’è il processo democratico.”
Corriere della Sera, 24 febbraio 2010
(4) “I don’t quite know to whom I am addressing this letter, but I do know why I’m writing it and I believe that under the circumstances it is both critical and inevitable because two Iranian filmmakers, both of whom are vital to the Iranian wave of independent cinema, have been incarcerated.
As a filmmaker of the same independent cinema, it has been years since I lost hope of ever screening my films in my country. By making my own low-budget and personal films, it has also been years since I lost all hope of receiving any kind of aid or assistance from the Ministry of Guidance and Islamic culture, the custodian of Iranian cinema.
In order to make a living, I have turned to photography and use that income to make short and low-budget films. I don’t even object to their illegal reproduction and distribution because that is my only means of communicating with my own people. For years now I have not even objected to this lack of attention from the ministry and cinematic authorities.
Even if we choose to disregard the fact that for years now, the cinematic administrators of the country, who constitute the main cultural body of the government, have differentiated between their own filmmakers (insiders) and independent filmmakers (outsiders), I am still of the opinion that they are oblivious of Iranian independent cinema. Filmmaking is not a crime. It is our sole means of making a living and thus not a choice, but a vital necessity.
I have found my own solutions to the problem. Independent of the conventional and customary support granted to the cinematic community at large, I make my own short and independent films with hopes of gaining some credit for the people I love and a name for the country I come from. Sometimes the necessity to work calls for the making of films beyond the borders of my country, which is ultimately not out of personal choice or taste.
However, others, like Jafar Panahi, have for years tried to summon official government support, exploring the same frustrating path, only to be confronted with the same closed doors. He too has for years held hopes of obtaining public screenings for his films and receiving official aid and assistance from the relevant governmental bodies. He still believes that based on the merits of his films and the acclaim they have brought the country, he can seek legal solutions to the problem. The Ministry of Guidance and Islamic culture is directly responsible for what is happening to Jafar Panahi and his like. Any wrongdoing on his part, if there is any at all, is a direct result of the mismanagement of officials at the cinematic department of the Ministry of Guidance and it’s inadequate policies which in no way leave any choice for the filmmaker other than to resort to means that jeopardize his situation as a filmmaker. He too makes a living through cinema.
For him too, filmmaking is a vital necessity. He needs to make himself heard and has the right to expect cinematic officials to facilitate the process, rather than become the major obstacles themselves. Perhaps the officials at the ministry can not at present be of help in solving Jafar Panahi’s dilemma, but they need to know that they are and have been responsible all these years, for the dreadful consequences and unpleasant and anti-cultural reflections of such policies in the world media.
I may not be an advocate of Jafar Panahi’s radical and sensational methods but I do know that the cause for his plight is not a result of choice but an inevitable [compulsion].
He is paying for the conduct of officials who have for years closed all doors on him, leaving open small passages and dead end paths.
Jafar Panahi’s problem will eventually be solved but there are numerous young people who have chosen the art of cinema as their means of expression and careers.
This is where the duty of the government and the Ministry of Guidance and Islamic Culture, as the government’s main cultural body, becomes even more critical, for they face a large group of Iranian youth who aim to work independently and away from complicated official procedures and existing prejudices.
Jafar Panahi and Mahmoud Rasoulof are two filmmakers of the Iranian independent cinema, a cinema that for the past quarter of a century has served as an essential cultural element in expanding the name of this country across the globe. They belong to an expanded world culture, and are a part of international cinematic culture. I wish for their immediate release from prison knowing that the impossible is possible. My heartfelt wish is that artists no longer be imprisoned in this country because of their art and that the independent and young Iranian cinema no longer faces obstacles, lack of support, attention and prejudice.
This is your responsibility and the ultimate definition of your existence.”
Abbas Kiarostami,  March 9, 2010,  Tehran


Marted́ 11 Maggio,2010 Ore: 14:08