Le Monde Diplomatique, gennaio 2014, pagg. 22-23
Una cittadinanza ridotta a dati biometrici

Come l’ossessione della pubblica sicurezza fa mutare la democrazia


di Giorgio Agamben

(traduzione dal francese di José F. Padova)


"Lo Stato nel quale noi viviamo attualmente in Europa non è uno Stato di disciplina, ma piuttosto – secondo la formula di Gilles Deleuze – uno «Stato di controllo»: esso non ha come scopo quello di ordinare e di disciplinare, ma di gestire e di controllare. Dopo la violenta repressione delle manifestazioni contro il G8 di Genova, nel luglio 2001, un funzionario della polizia italiana dichiarò che il governo non voleva che la polizia mantenesse l’ordine, ma che gestisse il disordine: non credeva si potesse dire meglio."
L'articolo qui tradotto esamina la storia e le conseguenze dell'ossessione per la sicurezza, che ormai condiziona una buona parte della politica. Infatti "(...) Non si dovrebbe tuttavia dimenticare che l’allineamento dell’identità sociale sull’identità corporea [impronte digitali, videosorveglanza, ecc.] è cominciato con l’assillo di identificare i criminali recidivi e gli individui pericolosi. Non è quindi per niente sorprendente che i cittadini, trattati come criminali, finiscano per accettare come cosa ovvia che il rapporto normale da essi mantenuto con lo Stato sia il sospetto, la schedatura e il controllo. Il tacito assioma,che qui occorre ben rischiare di enunciare, è: «Ogni cittadino – in quanto essere vivente – è un potenziale terrorista»". Non per nulla in Francia il termine «sûreté» significa sia «sicurezza» che «polizia».

Oltre che un invito alla riflessione vi è qui il richiamo al cittadino a riprendersi ciò che gli è stato tolto: la politeia, la cittadinanza.
J.F.Padova
Le Monde Diplomatique, gennaio 2014, pagg. 22-23
Una cittadinanza ridotta a dati biometrici
Come l’ossessione della pubblica sicurezza fa mutare la democrazia
L’articolo 20 della Legge di programmazione militare, promulgata il 19 dicembre [2013], autorizza una sorveglianza generalizzata dei dati informatici, al punto che si parla di «Patriot Act alla francese». Imposto con priorità assoluta, l’imperativo della sicurezza cambia spesso il pretesto (sovversione politica, «terrorismo») ma conserva il suo intento: governare le popolazioni. Per comprendere la sua origine e tentare di renderlo vano occorre risalire al XVIII secolo …
Giorgio Agamben, filosofo, autore fra l’altro di L’Homme sans contenu, Circé, Belval (Vosges), 2013.
(traduzione dal francese di José F. Padova)
La formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «per ragioni di sicurezza [in it. nel testo]») funziona come un argomento autoritario che, tagliando corto a tutte le discussioni, permette d’imporre prospettive e misure che non si accetterebbero mai senza essa. È necessario opporle l’analisi di un concetto anodino, ma che sembra aver soppiantato ogni altra nozione politica: la sicurezza.
Si potrebbe pensare che lo scopo delle politiche della sicurezza sia semplicemente quello di prevenire pericoli, disordini, perfino catastrofi. Una certa genealogia fa effettivamente risalire l’origine del concetto al motto romano Salus publica suprema lex («La salvezza del popolo è la legge suprema») e l’inscrive così nel paradigma dello stato di emergenza. Pensiamo al senatus consultum ultimum e alla dittatura a Roma (1); al principio del Diritto canonico secondo il quale Necessitas non habet legem («Necessità non ha legge»); ai Comitati di Salute pubblica (2) durante la Rivoluzione francese; alla Costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII (1799), che evocava i «disordini che minacciano la sicurezza dello Stato»; o ancora l’art. 48 della Costituzione di Weimar (1919), fondamento giuridico del regime nazionalsocialista, che anch’esso menziona la «sicurezza pubblica» [ndt: Art. 48: Se un Land non adempie gli obblighi impostigli dalla Costituzione o da una legge del Reich, il Presidente può costringervelo con l’aiuto della forza armata. (…).
Benché esatta, questa genealogia non permette di comprendere i dispositivi di sicurezza attuali. Le procedure d’emergenza mirano a una minaccia immediata e reale, che occorre eliminare sospendendo per un tempo limitato le garanzie della legge; le «ragioni di sicurezza» delle quali si parla oggi costituiscono al contrario una tecnica di governo normale e permanente.
Più che nello stato d’emergenza, Michel Foucault (3) consiglia di cercare l’origine della sicurezza attuale negli inizi dell’economia moderna, in François Quesnay (1694-1774) e nei fisiocrati (4). Se poco dopo i Trattati di Westfalia (5) i grandi Stati assolutisti hanno introdotto nel loro discorso l’idea che il sovrano deve vegliare sulla sicurezza dei suoi sudditi, si è dovuto attendere Quesnay perché la sicurezza – o piuttosto la «sûreté» [ndt.: termine sinonimo di Polizia] – diventi il concetto centrale della dottrina di governo.
Prevenire i disordini o canalizzarli?
Il suo articolo nell’Enciclopedia dedicato ai «Grains» [ndt.: grani, cereali] rimane indispensabile, due secoli e mezzo più tardi, per comprendere il modo attuale di governare. Voltaire dirà d’altra parte che, una volta pubblicato questo testo, i parigini cessarono di discutere di teatro e di letteratura per parlare d’economia e d’agricoltura …
Uno dei principali problemi che i governi dovevano allora affrontare era quello delle carestie e delle indigenze. Fino a Quesnay essi cercavano di prevenirle creando granai pubblici e vietando l’esportazione di cereali. Ma queste misure preventive avevano effetti negativi sulla produzione. L’idea di Quesnay fu di invertire il procedimento: invece di tentare di prevenire le carestie, occorreva lasciare che si producessero e, con la liberalizzazione del commercio interno e con l’estero, governarle dopo che si fossero verificate. «Governare» riprende qui il suo significato etimologico: un buon pilota – colui che tiene il timone [ndt.: in fr. gouvernail] – non può evitare la tempesta ma, se questa arriva, deve essere in grado di dirigere la nave.
Questo è il senso in cui occorre comprendere la formula che si attribuisce a Quesbay, ma che in verità egli non ha mai scritto: «Laisser faire, laisser passer» [ndt: lasciate fare, lasciate che accada»]. Lungi dall’essere soltanto il motto del liberalismo economico, essa definisce un paradigma di governo, che mette la sicurezza – Quesnay evoca la «sûreté dei coltivatori e dei contadini» - non nella prevenzione dei disordini e dei disastri, ma nella capacità di canalizzarli in una direzione utile.
È necessario misurare la portata filosofica di questo rovesciamento che sconvolge la relazione gerarchica tradizionale fra causa ed effetto: poiché è vano o in ogni caso costoso governare le cause, è più utile e più sicuro governare gli effetti. L’importanza di questo assioma non è trascurabile: esso regola le nostre società, dall’economia all’ecologia, dalla politica estera e militare fino ai provvedimenti interni di sicurezza e polizia. Ugualmente è questo che permette di comprendere la convergenza, altrimenti misteriosa, fra un liberalismo assoluto in economia e un controllo della sicurezza pubblica senza precedenti.
Prendiamo due esempi per illustrare questa apparente contraddizione. Quello dell’acqua potabile, innanzitutto. Benché si sappia che essa ben presto mancherà su una gran parte del Pianeta, nessun Paese conduce una politica seria per evitarne lo spreco. Al contrario, ai quattro angoli del Globo si vedono svilupparsi e moltiplicarsi le tecniche e gli impianti per il trattamento delle acque inquinate – un grande mercato in piena espansione.
Prendiamo adesso in considerazione i dispositivi biometrici, che costituiscono uno degli aspetti più inquietanti delle attuali tecnologie della pubblica sicurezza. La biometria ha fatto la sua comparsa in Francia nella seconda metà del XIX secolo. Il criminologo Alphonse Bertillon (1853-1914) si basò sulla fotografia segnaletica e sulle misure antropometriche per costituire il suo «ritratto parlato», che utilizza un lessico standardizzato per descrivere gli individui su una scheda segnaletica. Poco dopo, in Inghilterra, un cugino di Charles Darwin e grande ammiratore di Bertillon, Francis Galton (1822-1911), mise a punto la tecnica delle impronte digitali. Ora questi dispositivi, evidentemente, non permettevano di prevenire i crimini, ma di sgomentare i criminali recidivi. Si ritrova qui ancora una volta il concetto di sicurezza pubblica dei fisiocratici: soltanto dopo che il crimine è stato commesso lo Stato può intervenire efficacemente.
Pensate per i delinquenti recidivi e gli stranieri, le tecniche antropometriche sono rimaste a lungo il loro esclusivo trattamento. Nel 1943 il Congresso degli Stati Uniti rifiutava ancora il Citizen Identification Act, che mirava a dotare tutti i cittadini di carte d’identità comprendenti le loro impronte digitali. Soltanto nella seconda parte del XX secolo esse furono generalizzate. Tuttavia l’ultimo passo non è stato fatto che recentemente. Gli scanner ottici, che permettono di rilevare rapidamente le impronte digitali e la struttura dell’iride, hanno fatto uscire i dispositivi biometrici dai commissariati di polizia, per ancorarli nella vita quotidiana. Così in certi Paesi l’entrata alle mense scolastiche è controllata da un dispositivo di lettura ottica sul quale il bambino posa distrattamente la sua mano.
Si sono levate voci per attirare l’attenzione sui pericoli di un controllo assoluto e senza limiti da parte di un potere che abbia a disposizione i dati biometrici e genetici dei suoi cittadini. Con simili strumenti lo sterminio degli ebrei (o qualsiasi altro genocidio immaginabile), effettuato sulla base di una documentazione incomparabilmente più efficace, sarebbe stato totale e estremamente rapido. La legislazione oggi in vigore in materia di sicurezza nei Paesi europei sotto certi aspetti è sensibilmente più severa di quella degli Stati fascisti del XX secolo. In Italia, il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulsp), adottato nel 1926 dal regime di Benito Mussolini, è essenzialmente ancora in vigore: ma le leggi contro il terrorismo votate nel corso degli «anni di piombo» (dal 1968 fino agli inizi degli anni ’80) hanno ridotto le garanzie che quello conteneva. Poiché la legislazione francese contro il terrorismo, poi, è ancor più rigorosa della sua omologa italiana, il risultato di un paragone con la legislazione fascista non sarebbe molto diverso.
La crescente moltiplicazione dei dispositivi di sicurezza pubblica testimonia di un cambiamento della concezione politica, al punto che si può legittimamente chiedersi non soltanto se le società in cui noi viviamo possano ancora essere definite democratiche, ma anche e innanzitutto se possono ancora essere considerate come società politiche.
Nel V secolo a.C., come ha dimostrato lo storico Christian Meier, si era prodotta in Grecia una trasformazione del modo di concepire la politica, attraverso la politicizzazione (Politisierung) della cittadinanza. Mentre l’appartenenza alla città (la polis) era fino allora definita dallo status e dalla condizione – nobili e membri di comunità culturali, contadini e commercianti, signori e clientes, padri di famiglia e parenti, ecc. –, l’esercizio della cittadinanza politica diventa un criterio d’identità sociale. «Si creò così un’identità politica specificamente greca, nella quale l’idea che gli individui dovevano comportarsi come cittadini trovò una forma istituzionale», scrive Meier. «L’appartenenza ai gruppi costituiti dalle comunità economiche o religiose fu relegata in secondo piano. Nella misura in cui si dedicavano alla vita politica, i cittadini di una democrazia consideravano loro stessi come membri della polis. Polis e politeia, città e cittadinanza, si definivano reciprocamente. La cittadinanza divenne così un’attività e una forma di vita attraverso la quale la polis, la città, si costituì in un ambito chiaramente distinto dall’ oikos, dalla casa. La politica divenne uno spazio pubblico libero, opposto in quanto tale allo spazio privato, nel quale regnava la necessità (6)». Secondo Meier, questo processo di politicizzazione specificamente greco è stato trasmesso in eredità alla politica occidentale, nella quale la cittadinanza è rimasta – certamente con alti e bassi– il fattore decisivo.
Ora, è precisamente questo fattore che si trova progressivamente coinvolto in un processo invertito: un processo di depoliticizzazione. Un tempo soglia di politicizzazione attiva e irriducibile, la cittadinanza diventa una condizione puramente passiva nella quale l’azione e l’inazione, il pubblico e il privato si attenuano e si confondono. Ciò che si rendeva concreto in un’attività quotidiana e in una forma di vita si limita ormai a uno status giuridico e all’esercizio di un diritto di voto che assomiglia sempre più a un sondaggio d’opinione.
I dispositivi di sicurezza hanno svolto un ruolo decisivo in questo processo. L’estensione progressiva a tutti i cittadini delle tecniche d’identificazione, un tempo riservate ai criminali, agisce immancabilmente sulla loro identità politica. Per la prima volta nella storia dell’umanità l’identità non è più funzione della «persona» sociale e del suo riconoscimento, del «nome» e della «reputazione», ma di dati biologici che non possono intrattenere alcun rapporto con il soggetto, quali gli arabeschi insensati che il mio pollice tinto d’inchiostro ha lasciato su un foglio di carta o l’ordine dei miei geni nella doppia elica del DNA. Il fatto più neutro e più privato diviene così il veicolo dell’identità sociale, togliendogli il suo carattere pubblico.
Se criteri biologici che non dipendono per nulla dalla mia volontà determinano la mia identità [personale], la costruzione di un’identità politica diviene allora problematica. Che tipo di relazione posso mai stabilire con le mie impronte digitali o il mio codice genetico? Lo spazio di etica e politica, che eravamo abituati a concepire, perde il suo senso ed esige di essere ripensato da cima a fondo. Mentre il cittadino greco si definiva mediante l’opposizione fra il privato e il pubblico, la casa (sede della vita riproduttiva) e la città (luogo della politica), il cittadino moderno sembra piuttosto evolva in una zona d’indifferenziazione fra pubblico e privato o, per usare le parole di Thomas Hobbes, fra il corpo fisico e il corpo politico.
La videosorveglianza, dalla prigione alla strada
Questa indifferenziazione si materializza nella videosorveglianza sulle strade delle nostre città. Questo sistema ottico ha conosciuto il medesimo destino delle impronte digitali: concepito per le prigioni, è stato progressivamente esteso ai luoghi pubblici. Ora, uno spazio video sorvegliato non è più una agorà, non ha più alcun carattere pubblico; è una zona grigia fra il pubblico e il privato, la prigione e il forum. Una simile trasformazione dipende da una molteplicità di cause, fra le quali la deriva del potere moderno verso la biopolitica occupa un posto particolare: si tratta di governare la vita biologica degli individui (salute, fecondità, sessualità, ecc.) e non più soltanto di esercitare una sovranità su un territorio. Questo spostamento della nozione di vita biologica verso il centro del politico spiega il primato dell’identità fisica su quella politica.
Non si dovrebbe tuttavia dimenticare che l’allineamento dell’identità sociale sull’identità corporea è cominciato con l’assillo di identificare i criminali recidivi e gli individui pericolosi. Non è quindi per niente sorprendente che i cittadini, trattati come criminali, finiscano per accettare come cosa ovvia che il rapporto normale da essi mantenuto con lo Stato sia il sospetto, la schedatura e il controllo. Il tacito assioma,che qui occorre ben rischiare di enunciare, è: «Ogni cittadino – in quanto essere vivente – è un potenziale terrorista». Eppure che cos’è uno Stato, che cos’è una società retti da un simile assioma? Possono essere ancora definiti come democratici, o addirittura come politici?
Nei suoi corsi al Collège de France come anche nel suo libro Surveiller et punir (7) [Sorvegliare e punire], Foucault tratteggia una classificazione tipologica degli Stati moderni. Il filosofo dimostra come lo Stato dell’Ancien Régime, definito come Stato territoriale o di sovranità, il cui motto era «Fare morire e lasciare vivere», evolve progressivamente verso uno Stato di popolazione, nel quale la popolazione demografica si sostituisce al popolo politico, e verso uno Stato di disciplina, il cui motto si rovescia in «Fare vivere e lasciare morire»: uno Stato che si occupa della vita dei soggetti allo scopo di produrre corpi sani, docili e ordinati.
Lo Stato nel quale noi viviamo attualmente in Europa non è uno Stato di disciplina, ma piuttosto – secondo la formula di Gilles Deleuze – uno «Stato di controllo»: esso non ha come scopo quello di ordinare e di disciplinare, ma di gestire e di controllare. Dopo la violenta repressione delle manifestazioni contro il G8 di Genova, nel luglio 2001, un funzionario della polizia italiana dichiarò che il governo non voleva che la polizia mantenesse l’ordine, ma che gestisse il disordine: non credeva si potesse dire meglio. Da parte loro, alcuni intellettuali americani, che hanno cercato di riflettere sui cambiamenti costituzionali introdotti dal Patriot Act e dalla legislazione post 11 settembre (8), preferiscono parlare di «Stato di sicurezza» (secutity state). Ma che vuol dire qui «sicurezza»?
Nel corso della Rivoluzione francese questa nozione – o quella di « sûreté», come si diceva allora – è intrecciata con quella di polizia. La legge del 16 marzo 1791 e poi quella dell’11 agosto 1792 introducono nella legislazione francese l’idea, premessa di una lunga storia nella modernità, di «polizia di sicurezza». Nei dibattiti che precedettero l’adozione di queste leggi appare chiaro che polizia e sicurezza si definiscono reciprocamente; ma gli oratori – fra i quali Armand Gensonné, Marie-Jean Hérault de Séchelles, Jacques Pierre Brissot – non sono in grado di definire né l’una né l’altra. Le discussioni vertono essenzialmente sui rapporti fra la polizia e la giustizia.
Secondo Gensonné si tratta di «due poteri perfettamente distinti e separati»; eppure, mentre il ruolo del potere giudiziario è chiaro, quello della polizia sembra impossibile da definire.
L’analisi del discorso dei deputati dimostra che il luogo della polizia è propriamente indefinibile e che deve rimanere tale, perché, se fosse interamente assorbita dalla giustizia, la polizia non potrebbe più esistere. Si tratta del famoso «margine di apprezzamento» che caratterizza ancora adesso l’attività dell’ufficiale di polizia: in rapporto alla situazione concreta che minaccia la sicurezza pubblica, costui agisce come sovrano. Facendo ciò non decide né prepara – come lo si ripete a torto – la decisione del giudice: ogni decisione implica cause e la polizia interviene sugli effetti, vale a dire su qualcosa che non può essere deciso. Una “indecidibilità” che non si chiama più, come nel VII secolo, «ragione di Stato», bensì «ragione di sicurezza».
Una vita politica divenuta impossibile
Così il security state è uno Stato di polizia, anche se la definizione della polizia costituisce un buco nero nella dottrina del Diritto pubblico: quando nel XVIII secolo compaiono in Francia il Traité de la police [Trattato della polizia] di Nicolas de la Mare e in Germania i Grundsätze der Polizeiwissenschaft [Fondamenti della scienza poliziesca] di Johann Heinrich Gottlob von Justi, la polizia è riportata alla sua etimologia di politeia e tende a designare la politica vera, mentre il termine di «politica» designa da parte sua la sola politica estera. Von Justi chiama così Politik il rapporto di uno Stato con gli altri e Polizei il rapporto di uno Stato con se stesso: «La polizia è il rapporto in atto di uno Stato con se stesso».
Mettendosi sotto il segno della sicurezza, lo Stato moderno esce dal campo del politico per entrare in un no man’s land di cui mal si percepiscono la geografia e le frontiere e per il quale ci manca una concettualizzazione. Questo Stato, il cui nome rimanda etimologicamente a una assenza di problemi o preoccupazione [souci] (securus: sine cura), al contrario non può che renderci più preoccupati per i pericoli che fa correre alla democrazia, poiché una vita politica è diventata impossibile; ora, democrazia e vita politica sono – almeno nella nostra tradizione – sinonimi.
Di fronte a uno Stato di questo genere è necessario ripensare le strategie tradizionali del conflitto politico. Nel paradigma della sicurezza ogni conflitto e ogni tentativo più o meno violento di rovesciare il potere forniscono allo Stato l’occasione di governarne gli effetti a profitto degli interessi che gli sono peculiari. È ciò che mostra la dialettica che associa strettamente terrorismo e risposta dello Stato in una spirale perversa. La tradizione politica della modernità ha pensato i cambiamenti politici radicali sotto la forma di una rivoluzione che agisce come potere costituente di un nuovo ordine. È necessario abbandonare questo modello per pensare piuttosto una Potenza di pura rimozione, che non potrebbe essere captata dal dispositivo della sicurezza e precipitata nella spirale perversa della violenza. Se si vuole arrestare la deriva antidemocratica dello Stato di pubblica sicurezza il problema delle forme e degli strumenti di una simile Potenza destituente costituisce la questione politica essenziale sulla quale sarà necessario riflettere nel corso degli anni che verranno.
  1. In caso di disordini gravi la repubblica romana prevedeva la possibilità di affidare, in modo eccezionale, i pieni poteri a un magistrato (il dittatore).
  2. Istituiti dalla Convenzione questi Comitati dovevano proteggere la Repubblica contro i pericoli d’nvasione e di guerra civile.
  3. Michel Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France, 1977-1978, Gallimard Seuil, coll. « Hautes études », Paris, 2004.
  4. La fisiocrazia fonda lo sviluppo economico sull’agricoltura ed esalta la libertà del commercio e dell’industria.
  5. I Trattati di Westfalia (1648) conclusero la Guerra dei Trent’Anni, opponendo il campo degli Asburgo, sostenuto dalla Chiesa cattolica, agli Stati tedeschi protestanti del Sacro Impero. Essi inaugurarono un ordine europeo fondato sugli Stati-nazione.
  6. Christian Meier, « Der Wandel der politischsozialen Begriffswelt im V Jahrhundert v. Chr. », dans Reinhart Koselleck (sous la dir. de), Historische Semantik und Begriffsgeschichte, Klett-Cotta, Stuttgart, 1979.
  7. Michel Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris, 1975.



Sabato 11 Gennaio,2014 Ore: 18:31