Spiegel online, 27 febbraio 2013 - La traccia del denaro
La perdente si chiama Angela Merkel  

di Wolfgang Münchau

(traduzione dal tedesco di José F. Padova)


Si sarebbe potuto immaginare che le elezioni in Italia non le avrebbe perse Bersani col suo sgangherato PD, bensì la signora cancelliera Angela Merkel? Questo sostiene l'articolo allegato, redatto da un commentatore abbastanza noto per la sua acutezza ma anche per la propensione a provocare. Stimolante. Un po' come quelli che ieri pappa e ciccia con Letta e oggi si sfilano perché non gli danno le caramelle, pardon, l'IMU. Hanno già fatto il giochino, cancellando l'ICI: risultato, più imposte per tappare il buco. E il Popolo? Sempre bue?
Aggiungo un articolo di Paul Krugman, uscito qualche giorno fa, sull'inconsistenza scientifica del dogma dell'austerità, che sta devastandoci. Un passaggio? "Avete capito: il programma dell'austerity rispecchia da vicino, la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare. (...) Sino a quando ci atterremo a una politica dell'un per cento, voluta dall'un per cento a vantaggio dell'un per cento forse assisteremo solo a nuove giustificazioni delle solite, vecchie policy. "
J.F.Padova

Spiegel online, 27 febbraio 2013

La traccia del denaro

La perdente si chiama Angela Merkel

Una rubrica di Wolfgang Münchau

(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
spiegel.de

Né Mario Monti né Pier Luigi Bersani sono i più grandi perdenti delle elezioni in Italia, ma Angela Merkel: ella è responsabile del fatto che la crisi dell’euro è ancora una volta, completamente, attuale. La sua politica nella crisi ci farà presto saltare in aria.

Angela Merkel è la vera perdente delle elezioni italiane. Infatti nei giorni scorsi la sua politica per la crisi dell’euro si è dimostrata il più grande errore che mai vi sia stato. E mi aspetto che questa politica ci farà presto andare in rovina.

La [sua] politica consiste nel risolvere la crisi del debito e dell’economia dei Paesi dell’Europa meridionale con una scossa inferta mediante un adeguamento unilaterale. Grecia, Portogallo, Spagna e Italia con riduzioni delle spese statali ottengono una diminuzione del debito [pubblico], strappando nel settore statale tagli di salari che poi si ripercuotono sul resto dell’economia. Così si sarebbero presi due piccioni con una fava. La speranza era che, dopo un breve, pesante choc, il livello di debiti e salari si sarebbe rimesso a posto. Veramente clever, o no?

Niente affatto. Né l’economia né la politica funzionano come in Germania ci si è immaginato. Finanziariamente questo era un conto campato in aria, privo di considerazione per i devastanti effetti di economia generale.

L’Italia è piantata in una recessione che si autoalimenta: le banche non fanno credito, perché non vedono alcuna ripresa e la crescita non arriva perché le banche non fanno credito. Le imprese nel frattempo pagano interessi del dieci percento. Non c’è da meravigliarsi se non investono e se tutto continua ad andare sempre peggio. Poiché la produttività economica [il PIL] è il denominatore della quota del debito [pubblico], questa aumenta automaticamente se cade la produttività interna. Ciò porta come conseguenza che la situazione debitoria aumenta, nonostante i debiti diminuiscano. Questo si chiama anche “impossibilità di ammortamento del debito”. Senza aiuto esterno da qui non si viene fuori. E quanto più uno si dà così da fare tanto più si scava la fossa.

L’Italia abbandonerà la linea del risparmio

Questa settimana [ndt.: quella delle elezioni di febbraio] abbiamo assistito live alle conseguenze politiche. Beppe Grillo con il suo movimento anti-euro è nel frattempo uno dei maggiori partiti del Paese. Insieme a Silvio Berlusconi ha condotto una campagna elettorale contro l’euro e contro la Merkel e così ha vinto. Indifferentemente da ciò che accade in politica, adesso l’Italia la farà finita con la politica dell’austerità. Come può politicamente andare diversamente? Con questo si esaurisce anche la possibilità per l’Italia di infilarsi sotto l’ombrello del salvataggio, perché questo verrebbe concesso a condizioni di ulteriore austerità. Se si fosse scelta questa soluzione, il Movimento 5 Stelle di Grillo avrebbe avuto la maggioranza assoluta.

Mario Monti è il personaggio tragico del dopo-voto. Il suo più grave errore è stato l’accettazione acritica della politica merkeliana. Egli avrebbe dovuto insistere su un Fondo comune di ammortamento dei debiti e su una integrale europeizzazione delle banche, inclusi tutti i vecchi carichi. E insieme avrebbe dovuto minacciare che in caso contrario l’Italia sarebbe stata pronta ad abbandonare l’euro. D’altra parte Merkel sapeva che l’ex Commissario europeo, al contrario di Berlusconi, non si sarebbe spinto così avanti. E quindi si è tatticamente imposta. Con ciò tuttavia non ha risolto il problema della crisi. Al contrario.

La rabbia del popolo colpirà presto anche Portogallo e Spagna

Sotto l’aspetto economico si comprende al meglio il problema dell’Italia mediante un confronto con lo standard aureo durante la Grande Depressione. Nell’economia l’euro svolge oggi il ruolo che aveva l’oro a quel tempo, come corso di cambio fisso. Anche allora gli economisti conservatori ritenevano che i Paesi nello Standard aureo si sarebbero adattati all’economia reale – in modo equivalente al tasso di cambio che era stabilito con un rapporto fisso riferito all’oro. Anche allora ciò non accadde. L’unica via di uscita dalla Grande Depressione consistette nell’abbandono dell’oro come riferimento. L’America lo fece nel 1933, la Francia rimase ferma fino al 1936, con conseguenze catastrofiche per l’economia.

Io credo che noi in Europa prenderemo una strada simile. Per mantenere l’euro occorrono prestiti e adeguamenti reciproci, per i quali in Europa non vi sono maggioranze né al Nord né al Sud. La politica dell’austerità ha precluso l’ultima possibilità di farlo. La rabbia popolare si è propagata in Italia e prima o poi si estenderà anche alla Spagna e al Portogallo. Anche in Francia vi sono segni premonitori. I greci al momento sono alquanto storditi, ma anche là la strategia dell’adattamento non funziona politicamente – neppure dopo sei anni di recessione.

Ciò che politicamente metterà Merkel in salvo in Germania è l’incapacità dei suoi avversari politici di smascherare questa strategia e lo spreco del suo capitale politico nella relativamente poco importante questione degli aiuti a Cipro.

Le poco diplomatiche dichiarazioni di Peer Steinbrück su entrambi i “pagliacci” italiani distraggono dal fatto che il vero e proprio problema non sono Grillo o Berlusconi, ma la sua avversaria politica. Steinbrück avrebbe adesso l’occasione di darle la caccia dappertutto e invece di ciò ricade in una gaffe che distrae dal tema. L’unica piccola consolazione è che Merkel pagherà di persona per la crisi che ella stessa ha causato. La combinazione della sua politica con il risultato elettorale in Italia ha drammaticamente elevato la probabilità di uno sfascio dell’euro.


L' austerity è finita ko

Paul Krugman (“la Repubblica”, 27 aprile 2013

È raro che i dibattiti economici si concludano con un ko tecnico. Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori dell'austerità si avvicina molto a un simile esito.

Quanto meno a livello ideologico. La posizione pro-austerity è ormai implosa; non solo le sue previsioni si sono dimostrate del tutto fallaci, ma gli studi accademici invocati a suo sostegno si sono rivelati infarciti di errori e omissioni, nonché basati su statistiche di dubbia attendibilità.

Due grandi interrogativi, tuttavia, persistono. Il primo: come ha potuto diventare così influente la dottrina dell'austerity? E il secondo: cambierà la policy, adesso che le rivendicazioni fondamentali dei sostenitori dell'austerità sono diventate oggetto di battute nei programmi satirici della terza serata?

Riguardo alla prima domanda: l'affermazione dei fautori dell'austerità all'interno di cerchie influenti dovrebbe infastidire chiunque ami credere che la policy si debba basare sull'evidenza dei fatti, o essere da questi fortemente influenzata.

Dopotutto i due principali studi che forniscono all'austerity la sua presunta giustificazione intellettuale — quelli di Alberto Alesina e Silvia Ardagna sull' “austerità espansiva”, e di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sulla fatidica "soglia" del novanta percento del rapporto debito /PIL — sono state ferocemente criticati già all'indomani della loro pubblicazione.

Gli studi, inoltre, non hanno retto a un attento scrutinio. Verso la fine del 2010 il Fondo monetario internazionale aveva rivisto Alesina-Ardagna ribaltandone le conclusioni, mentre molti economisti hanno sollevato interrogativi fondamentali sulla tesi di Reinhart-Rogoff ben prima divenire a sapere del famoso errore nella formula di Excel. Intanto, gli eventi nel mondo reale — la stagnazione in Irlanda (l'originario modello dell'austerity) e il calo dei tassi di interesse negli Stati Uniti, che avrebbero dovuto trovarsi di fronte a una crisi fiscale imminente — hanno rapidamente svuotato di significato le previsioni del fronte pro-austerity.

E tuttavia, la teoria a favore dell’austerità ha mantenuto, e persino rafforzato, la propria presa sull'élite. Perché?

La risposta è sicuramente da ricercare in parte nel diffuso desiderio di voler interpretare l'economia alla stregua di un racconto morale, trasformandola in una parabola sugli eccessi e le loro conseguenze. Abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, narra il racconto, e adesso ne paghiamo l'inevitabile prezzo. Gli economisti possono spiegare ad nauseam che tale interpretazione è errata, e che se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e che questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto. Tutto inutile: molti nutrono la viscerale convinzione che abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci attraverso la sofferenza. Né le tesi economiche né la constatazione che oggi a soffrire non sono certo gli stessi che negli anni della bolla hanno "peccato" bastano a convincerli che le cose stanno diversamente.

Ma non si tratta di opporre semplicemente la logica all'emotività. L'influenza della dottrina dell'austerity non può essere compresa senza parlare anche di classi sociali e di diseguaglianza.

Dopotutto, cosa chiede la gente a una policy economica? Come dimostrato da un recente studio condotto dagli scienziati politici Benjamin Page, Larry Bartels e Jason Seawright, la risposta cambia a seconda degli interpellati. La ricerca mette a confronto le aspettative nutrite riguardo alla policy dagli americani medi e da quelli molto ricchi — e i risultati sono illuminanti.

Mentre l'americano medio è per certi versi preoccupato dai deficit di budget (cosa che non sorprende, considerato il costante incalzare dei racconti allarmistici diffusi dalla stampa), i ricchi, con un ampio margine, considerano il deficit come il principale problema dei nostri giorni. In che modo dovremmo ridurre il deficit nazionale? I ricchi preferiscono ricorrere al taglio delle spese federali sulla sanità e la previdenza — ovvero sui "programmi assistenziali" — mentre il grande pubblico vorrebbe che la spesa in quei settori fosse incrementata.

Avete capito: il programma dell'austerity rispecchia da vicino, la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare.

Gli interessi dei ricchi sono forse di fatto agevolati da una depressione prolungata? Ne dubito, dal momento che solitamente un'economia prospera è un bene per tutti. Ciò che invece è vero, è che da quando abbiamo optato per l'austerità i lavoratori vivono tempi cupi, ma i ricchi non se la passano così male, avendo tratto vantaggio dall'incremento dei profitti e dagli aumenti della Borsa a dispetto del deteriorare dei dati sulla disoccupazione. L'un per cento della popolazione non auspica forse un'economia debole, ma se la passa sufficientemente bene da rimanere arroccato sui propri pregiudizi.

Tutto ciò suscita una domanda: quale differenza produrrà di fatto il crollo intellettuale della posizione pro-austerità? Sino a quando ci atterremo a una politica dell'un per cento, voluta dall'un per cento a vantaggio dell'un per cento, forse assisteremo solo a nuove giustificazioni delle solite, vecchie policy.

Spero di no; mi piacerebbe poter credere che le idee e l'evidenza dei fatti contino, almeno in parte. Cosa farò altrimenti della mia vita? Immagino però che ci toccherà vedere sino a dove ci si può spingere pur di dare una giustificazione al cinismo.

(Traduzione di Marzia Porta)
copyright New York Times- La
Repubblica




Mercoledì 01 Maggio,2013 Ore: 08:49