INQUINAMENTO, OMICIDIO, MALATTIE
Quando l’industria della carne divora il pianeta

Di Agnès Stienne

21 giugno 2012 (blog di Le Monde Diplomatique). (traduzione dal francese di José F. Padova)


Mentre al Consiglio regionale lombardo Pdl e Lega stanno cercando di far passare la "caccia abusiva" di specie protette a livello di legislazione europea (già l'Italia deve pagare multe per non aver rispettato le norme), si accentua nel mondo la preoccupazione per il pessimo uso delle risorse alimentari. L'articolo allegato si occupa dell'incredibile spreco costituito dall'allevamento intensivo di animali da carne e delle conseguenze sia sulla scarsità relativa di alimenti per tutte le persone viventi, sia sull'ambiente per la deforestazione e l'immissione nel terreno di liquami ad alto contenuto di azoto e potassio. Vi è poi l'impiego sempre di cereali e altra vegetazione per la trasformazione in "biocarburanti", con sprechi anche peggiori: pure qui c'è gente che se ne preoccupa e conduce vere e proprie campagne di stampa, come Die Zeit (http://www.zeit.de/). JFPadova

INQUINAMENTO, OMICIDIO, MALATTIE

Quando l’industria della carne divora il pianeta

Agnès Stienne, 21 giugno 2012 (blog di Le Monde Diplomatique)
blog.mondediplo.net
(traduzione dal francese di José F. Padova)

Le proiezioni demografiche medie dell’ONU dimostrano che il Pianeta accoglierà nove miliardi di persone nel 2050, data alla quale la popolazione mondiale comincerà a stabilizzarsi. Una ventata di panico soffia sulla Terra, alcuni Stati agitano lo spettro del sovrappopolamento… Vi saranno allora sufficienti risorse e nutrimento per tutti quando, già nel 2011, più di un miliardo di persone non mangiano abbastanza cibo?

Da qualche anno i Paesi che temono la penuria si sono lanciati in una corsa sfrenata per acquisire nuove terre coltivabili, che le industrie dell’agroalimentare e degli agrocarburanti si contendono. E una violenta controversia oppone coloro che vogliono utilizzare i prodotti agricoli per far girare i motori a quelli che preferirebbero nutrire gli esseri umani.

Eppure pochi denunciano un business ancora più vorace in risorse naturali, in prodotti agricoli e in spazio: quello dell’industria della carne.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) spiega nel suo rapporto del 2009: «A causa della rapida espansione del settore dell’allevamento, le terre e le altre risorse produttive sono l’oggetto di crescenti rivalità, ciò che spinge al rialzo i prezzi dei cereali di base e mette a dura prova la base delle risorse naturali, un meccanismo che potrebbe mettere in pericolo la sicurezza alimentare (1). L’intervento pubblico è necessario per attenuare l’impatto dell’allevamento sull’ambiente e rendere certo che questo settore fornisca un contributo durevole alla sicurezza alimentare e alla riduzione della povertà. La produzione animale, come ogni altra attività economica, può essere associata a danni ambientali. La mancanza di chiarezza dei diritti di proprietà e di accesso alle risorse e l’assenza di buona governance nel settore contribuiscono all’esaurimento e al degrado dei terreni, dell’acqua e della biodiversità», così vi è specificato.

Siamo due miliardi che mangiano troppo

La produzione animale non ha nulla di un’attività marginale: nel 2009 rappresentava il 40 % della produzione agricola mondiale. Introdotta all’inizio del XX secolo negli Stati Uniti sul modello produttivista dell’industria automobilistica, l’allevamento industriale non ha smesso di crescere durante tutto il secolo, dapprima in America del Nord e del Sud, poi in Europa e infine in Cina.

Il decollo del pollame

Nel 2009 la Cina era il primo produttore mondiale di carne con poco più di settantottomila tonnellate prodotte, davanti a Stati Uniti, Brasile e Germania.

Benché quel sistema di produzione si sia rivelato calamitoso – per l’ambiente ma non soltanto – la FAO ha sostenuto senza tentennamenti l’industria della carne, col pretesto che sarebbe necessaria per sradicare la fame nel mondo. Una promessa ben lungi dall’essere stata mantenuta; è invece la salute di chi ne mangia di più che viene compromessa.

Produzione mondiale di carne nel 2009

L’Organizzazione mondiale per la sanità (OMS) stimava nel 2008 a 1,5 miliardi il numero delle persone affette da sovrappeso, 2,3 miliardi nel 2015. Le bevande gassate e le patatine fritte, incriminate a giusto titolo, sono combinate a questo flagello sanitario tipicamente occidentale. La carne rossa e i salumi sono anch’essi esplicitamente identificati come fattori di disfunzione se assunti in forti quantità. Obesità, diabete, malattie cardio-vascolari e cancro del colon sono effetti secondari indesiderabili e pericolosi di un’alimentazione troppo ricca in proteine animali.

Gli Stati Uniti carnivori

È quindi venuto il momento, per i carnivori inveterati, di riconsiderare seriamente il loro piatto del giorno, alternando riso integrale, lenticchie e cosce di pollo… Un menu più equilibrato sarebbe vantaggioso per loro e d’altra parte anche per tutti. Perché è fuori dubbio che da queste bistecche quotidiane dipende l’avvenire delle future generazioni. A tal punto che l’organizzazione dell’ONU non dissimula più le sue preoccupazioni: «Il settore agricolo è il più grande utilizzatore e gestore mondiale di risorse naturali e, come ogni altra attività produttiva, la produzione animale implica un costo ambientale. L’allevamento è anche spesso coniugato alle distorsioni politiche e alle disfunzioni del mercato e, conseguentemente, ha sull’ambiente conseguenze che sovente non sono equiparabili al suo ruolo nell’economia. Per esempio, se rappresenta meno del 2 % del PIL mondiale, è all’origine del 18 % del gas a effetto serra su scala planetaria». E questo fa riflettere. «Il cambiamento climatico rappresenta un “circuito retroattivo” speciale, poiché la produzione animale contribuisce al problema nello stesso tempo in cui ne subisce gli effetti. Se non sono presi provvedimenti adeguati per migliorare la vivibilità dell’allevamento, i mezzi di sussistenza di milioni di persone saranno compromessi».

In altre parole, l’allevamento intensivo perverte il genio delle società umane agendo negativamente sugli equilibri naturali, sociali, rurali, ambientali, economici e sanitari.

Sono in voga le grandi strutture

Tradizionalmente si pratica l’allevamento quando il nutrimento per il bestiame è disponibile sul posto, spesso come complemento di cerealicoltura e orticoltura (sistema di produzione misto). I pascoli, naturali o coltivati, sono l’oggetto di una permanente attenzione per permettere la rigenerazione della prateria dopo il passaggio dei ruminanti, cosa che implica il loro costante spostamento per evitare il calpestio, la distruzione delle piante e la concentrazione delle deiezioni, che compromettono la qualità dei terreni e delle acque.

Per gli animali in stalle, il nutrimento proviene dai residui dei raccolti, dagli scarti dell’alimentazione umana, da foraggi arricchiti da piselli, lupini e favino. I maiali grufolano sotto gli alberi alla ricerca di frutti e di ghiande che prediligono. Bucolico? Si constata che le pratiche ancestrali non sono completamente prive di senso, di scientificità e di efficacia. Non si tratta di ritornare all’agricoltura dei nostri lontani avi, bensì di sviluppare un’agricoltura rurale moderna fondata sui know how tradizionali, regionali e durevoli.

I sistemi di produzioni miste non sono, per loro natura, prediletti dall’industria della carne. La diversità implicherebbe un processo troppo complicato e quindi costoso. Quindi viva la fabbrica di carne automatizzata e le catene di approvvigionamento senza fine che un tecnico fa funzionare premendo pulsanti nel suo ufficio.

Si distinguono due categorie di produzione animale industriale: la pastura, che riguarda soprattutto i bovini, e lo sfruttamento fuori dal terreno, nel quale sono concentrati suini e pollame in capannoni di cemento. Le pasture occupano il 60 % delle terre agricole , il foraggio il 35 % delle terre arabili. In totale l’81 % delle terre agricole sono così riservate al bestiame e alla sua alimentazione.

Si cerca di minimizzare i costi «razionalizzando» tutta la catena di produzione fino a distribuzione, abbattimento e trasformazione inclusi: riduzione della mano d’opera, automatizzazione e programmazione del lavoro, standardizzazione dei prodotti. Tutto un maneggio messo in opera per rispondere ai diktat produttivistici dell’ «agro-business» e della grande distribuzione.

Si arriva a perdere la nozione di “animale”: si fabbricano cotolette come si fabbrica un’automobile, partendo da una materia prima. La differenza è che quest’ultima è viva e spesso soffre.

Selezione dopo selezione, le bestie sono state «elaborate» da istituti agrari come l’INRA (Istituto nazionale di ricerche agronomiche) in Francia, allo scopo di ottenere ibridi che si distinguono per il rapido sviluppo della loro massa muscolare e le loro performance riproduttive.

In compenso, gli organi vitali sono ridotti al minimo indispensabile e non sono più in grado di compiere le loro funzioni originali. Gli animali sono diventati ipersensibili alle malattie, causa questa di frequente ricorso a farmaci, ciò che contribuisce allo sviluppo su scala mondiale di batteri resistenti agli antibiotici, un rompicapo per i ricercatori con gravi conseguenze sulla sanità pubblica (2). Queste pratiche selettive a oltranza hanno portato alla quasi totale sparizione delle specie naturali e locali.

Pascoli fra morte e deforestazione

«L’aumento delle superfici dedicate all’allevamento contribuisce in alcuni Paesi alla deforestazione, mentre l’intensificazione della produzione di animali comporta una eccedenza di pascoli in altri. A causa della crescente concentrazione geografica della produzione animale, la quantità di letame prodotta dagli animali supera spesso la capacità di assorbimento dei terreni. Il letame diventa così un rifiuto invece di essere una preziosa risorsa, come lo è nei sistemi di produzione mista, meno concentrati», spiega ancora la FAO: in origine, gli allevatori conducevano le loro mandrie attraverso pascoli ad accesso libero, badando a rispettare il ciclo naturale dell’erbaggio. Ma la parcellizzazione dei terreni per la coltivazione e l’urbanizzazione hanno limitato considerevolmente la possibilità di circolazione di mandrie e greggi, mentre simultaneamente cresceva la domanda di carne. Il pascolo intensivo, in alcune parti del mondo, rappresenta una vera e propria catastrofe ecologica che non deve essere sottovalutata.

Nelle regioni secche o semiaride, come il Sahel o l’Asia centrale, l’eccessiva densità di animali ha distrutto la coltre vegetale, provocando l’erosione del suolo e l’alterazione dei cicli idrici (3).

Tuttavia è proprio nei Paesi industrializzati, Stati Uniti in testa, e in America latina che gli sconvolgimenti agricoli sono stati più radicali. Il 90% delle praterie dell’America del Nord e l’80% di cerrado (savana) dell’America meridionale d’altronde sono stati urbanizzati o convertiti in superfici coltivate in parte per la produzione di agro-carburanti, in parte di foraggi e di cereali destinati all’esportazione.

Uno dei casi più preoccupanti è quello del Brasile. Primo produttore ed esportatore mondiale di carne bovina e di cuoio, il Brasile rappresenta da solo il 30% del mercato mondiale, con 2,2 milioni di tonnellate di carne esportati all’anno, principalmente verso la Russia e l’Unione Europea. E Brasilia non intende certo fermarsi qui.

Una ricerca condotta da Greenpeace e pubblicata nel 2009 mostra che l’allevamento bovino brasiliano è responsabile dell’80% della deforestazione dell’Amazzonia. In dieci anni dieci milioni di ettari di foresta sono andati in fumo per fare brucare duecento milioni di bovini, ciò che nel pianeta rende il gigante sudamericano uno dei campioni (il quarto) nell’emissione di gas a effetto serra.

Nel suo rapporto Grégoire Lejonc, incaricato della campagna sulle foreste della ONG, insiste contro l’atteggiamento ambiguo del presidente dell’epoca, «Lula», che aveva annunciato un piano d’azione contro il cambiamento climatico che avrebbe dovuto condurre il Brasile a ridurre del 72% il disboscamento illegale nel 2018. «Ora questo rapporto fornisce chiaramente la prova che il 90% della deforestazione annua in Amazzonia è illegale, mentre recentemente sono state emanate leggi che di fatto regolarizzano la monopolizzazione dei terreni a scopo di allevamento». E aggiunge che «il governo brasiliano è uno dei principali finanziatori e azionisti del settore dell’allevamento in Amazzonia, ciò che ne fa un vero e proprio promotore della deforestazione amazzonica»

Nel maggio 2011 Le Monde riportava un progetto di riforma del codice forestale approvato dalla Camera dei Deputati brasiliana, contro il parere dell’attuale presidente Dilma Rousseff, che ammorbidiva le leggi che regolano la protezione delle foreste. Secondo Jean-Pierre Langellier «la riforma prevede di non obbligare più i “piccoli” agricoltori a rimboschire gli spazi deforestati illegalmente», come accade attualmente. «Più del 90% delle proprietà agricole del Paese non rispettano le quote stabilite dalla legge, 600.000 kmq di terreno dovrebbero essere ripiantati e non lo sono. […] I deputati ostili alla riforma accusano i grandi sfruttatori di essersi nascosti dietro il vessillo dei “piccoli” per difendere i loro interessi». Nondimeno la presidentessa «respinge un elemento capitale del testo: l’ “amnistia” dei disboscatori illegali». In conclusione, il giornalista ci ricorda che la battaglia che si svolge in Amazzonia si rivela di estrema violenza per gli agricoltori ecologisti e per i popoli indigeni: «Nel giorno del voto, un militante ecologista, João Claudio Ribeiro da Silva, e sua moglie sono stati assassinati. Entrambi avevano ricevuto minacce di morte da parte di allevatori e boscaioli. Questo doppio assassinio, in seguito a molti altri, ricorda che in Amazzonia gli interessi in gioco possono spingere certuni fino a commettere crimini».

Interrogato a questo proposito dall’Agence France Presse (AFP), José Batista, avvocato della Commissione Pastorale della Terra, che segue i conflitti agrari in Amazzonia, indica che «la fiducia accordata dagli agricoltori alle autorità dello Stato del Pará è limitata, a causa del “grado d’impunità” che vi regna. Nel corso degli ultimi quarant’anni vi sono stati più di 800 assassinii nel Pará, la maggior parte dei quali perpetrati da sicari. In totale siamo riusciti a fare processare solamente nove presunti responsabili e a farne condannare otto: ma oggi in prigione ve n’è uno soltanto (4)».

Gli atti d’intimidazione guidati dai grandi sfruttatori agricoli non hanno come bersaglio esclusivo i contadini. La ONG Survival da più di quattro decenni denuncia il massacro degli indios che vivono nella foresta brasiliana: «Popoli interi sono minacciati di scomparsa totale. Così oggi della tribù Akuntsu del Brasile non restano più che sei sopravvissuti, perché gli altri membri del loro gruppo sono stati massacrati dagli allevatori». E questo è soltanto un esempio.

L’allevamento bovino non è l’unica attività agricola che sacrifica immense distese di foresta sull’altare del profitto. La coltura della soia ne è un’altra, altrettanto devastante, la cui destinazione è lo stomaco del bestiame.

Sfruttamento fuori dalla terra, polluzione e carestia

«La parola tragedia è troppo inefficace. Per far crescere più in fretta i nostri vitelli, vacche e maiali, l’industria dell’allevamento importa l’80% delle proteine che sono loro destinate. Essenzialmente soia, proveniente dall’America latina, la quale distrugge alle radici l’Argentina, il Paraguay, il Brasile…». Con queste parole si apre il capitolo cinque di Bidoche (I legami che liberano), il libro di Fabrice Nicolino pubblicato nel 2009 sull’industria della carne. Le sue pagine tracciano la storia dell’allevamento industriale, delle aziende della «zootecnia» che gli sono intrinsecamente legate, come InVivo o Cargill, Sanders o Guyomarc’h.

Secondo il movimento contadino Via Campesina «la monocoltura di soia occupa ormai un quarto di tutte le terre agricole del Paraguay e in Brasile si è sviluppata al ritmo di 320.000 ettari all’anno dal 1995. In Argentina 5,6 milioni di ettari di terra non agricola sono stati convertiti, fra il 1996 e il 2006, per produrre soia, che occupa già la metà delle terre agricole. Gli effetti devastanti di questo sfruttamento sulla popolazione e sull’ambiente in America latina sono bene documentati e riconosciuti da molto enti che se ne occupano».

Dentro a sinistri capannoni di cemento gli animali, ammassati a migliaia, ingurgitano la loro razione quotidiana di alimenti concentrati prodotti da grandi società agroalimentari. 742 milioni di tonnellate di cereali sono stati divorati dalle fabbriche di carne nel 2005. Non bisogna lasciarsi trarre in inganno: i cereali che entrano nella composizione di questo pasto non sono residui di altre colture. Sono seminati, irrigati, trattati e raccolti del tutto esclusivamente per nutrire il bestiame. Nel 2009, sulla quantità totale di frumento, di mais e di orzo prodotti nel mondo, circa il 42% sono stati trasformati in alimenti concentrati per bestiame.

Produzione cerealicola per il bestiame… e per il resto

Quando si osserva l’evoluzione delle superfici agricole destinate ai principali cereali e alla soia si comprende la dimensione reale della situazione… La produzione di riso, che non entra nell’alimentazione animale, è stagnante da una ventina d’anni. I rendimenti sono stati migliorati ma tuttavia la demografia ha conosciuto una progressione parallela senza precedenti. La produzione di frumento è fortemente diminuita prima di riprendere a crescere, senza giungere però al suo livello del 1980. In costante progressione la soia (quasi raddoppiata in vent’anni) e il mais, che ha ormai superato la produzione di riso.

Il rapporto fra carne e cereali è il seguente: occorrono almeno sette chili di cereali per fornire un solo chilo di carne bovina, quattro chili per uno di maiale, due chili per un chilo di pollame.

Le crescenti pressioni che si fanno sulle risorse agricole, aggiunte all’azione degli speculatori, hanno reso maggiormente vulnerabili i più poveri. Nel suo rapporto del 2006 la FAO si allarmava a proposito della Cina: «La produzione e l’importazione di alimenti per il bestiame sono in crescita. Le importazioni totali dei prodotti alimentari per animali sono aumentate rapidamente e fanno temere che la crescita del settore dell’allevamento in Cina si traduca in una fiammata dei prezzi e nella penuria mondiale di cereali, come è stato sovente ricordato». È noto il seguito, l’anno 2008 è stato quello delle rivolte per fame provocate dal forte rialzo dei prezzi delle materie prime alimentari sul mercato internazionale.

Mentre il pianeta subiva i primi scossoni della crisi finanziaria, queste tragedie sarebbero potute servire di lezione. Tutt’altro! Malgrado il ribasso dei costi reali della produzione di cereali, i loro prezzi di vendita non smettono di aumentare. La Banca Mondiale segnalava nel febbraio 2011 in un suo comunicato: «I prezzi mondiali degli alimentari stanno per raggiungere livelli pericolosi e costituiscono una minaccia per decine di milioni di poveri in tutto il mondo. Questo rialzo dei prezzi sta già facendo precipitare milioni di persone nella povertà ed esercitando pressioni sui più vulnerabili, che già dedicano più della metà del loro reddito all’alimentazione».

Veleno quotidiano

A chi nei Paesi ricchi trova cibo in abbondanza tuttavia è raccomandabile di osservare due volte quello che si ritrova nel piatto. Chi dice industria della carne dice industria dei foraggi. Quest’ultima adotta i principi dell’agricoltura intensiva, ovvero l’impiego di ogni tipo di pesticida, di erbicida, di concime chimico e di organismo geneticamente modificato (OGM). Questa miscela è ingerita dalle bestie prima di arrivare come appetitosa pietanza sui piatti dei consumatori fiduciosi. E non è tutto… vi si trovano anche residui di farmaci e di vitamine di sintesi.

Effettivamente, gli animali provenienti dalla zootecnia sono deboli in misura anomala e quindi colpiti da patologie diverse. D’altro lato, la concentrazione di animali è tale che la minima infezione decima l’insieme del patrimonio zootecnico. Per evitare a qualunque costo un’ecatombe che sarebbe fatale per il gestore, gli antibiotici vengono distribuiti non più per la cura, bensì per la prevenzione.

Le descrizioni che si fanno dei trattamenti inflitti agli animali in questi blocchi di cemento, siano essi maiali, vitelli o polli, sono orribili. In queste anticamere della morte si concentrano tutte le condizioni che aprono la strada ai ceppi infettivi trasmissibili all’uomo. Malattia della mucca pazza (encefalopatia spongiforme bovina), influenza aviaria, influenza «porcina»…

Fabrice Nicolino riporta il caso dello Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (SARM) o «stafilococco dorato», un batterio mutante presente nei porcili industriali dell’America del Nord e dell’Europa che, a suo avviso, ha sconfitto l’antibiotico che precedentemente lo distruggeva. Ecco ciò che scrive: «Nell’ottobre del 2007 una ricerca sensazionale pubblicata sulla rivista Veterinary Microbiology rivela fatti molto gravi. Effettuata in venti allevamenti suini industriali dell’Ontario (Canada) essa dimostra che il SARM è presente nel 45% di essi. Che un maiale su quattro è contaminato. Che un allevatore su cinque lo è pure». In seguito aggiunge: «In Belgio, sempre nel 2007, un altro lavoro di ricerca ordinato dal ministro della Salute pubblica Rudy Demotte indica che, in quasi il 68% degli allevamenti suini esaminati, un ceppo del SARM è presente negli animali. E questo stesso batterio resistente lo si è ritrovato nel 37,6% degli allevatori di suini e dei membri delle loro famiglie. Ora, in una popolazioni senza rapporti con l’industria dell’allevamento suino, la diffusione del batterio non arriva allo 0,4 per mille!». Sembra che nessuno studio simile sia stato realizzato in Francia o negli Stati Uniti.

Altra causa d’inquietudine: l’acqua

Le quantità di acqua inghiottite dalle colture foraggere rappresenta l’8% del consumo mondiale di acqua, cui occorre aggiungere l’abbeveraggio delle bestie e la pulizia delle stalle. È un quantitativo colossale. La FAO riferisce che in Botswana il consumo diretto di acqua rappresenta il 23% del totale.

Nei Paesi a clima temperato è piuttosto la qualità dell’acqua che preoccupa. La Bretagna concentra il 60% della produzione suina nazionale francese su quattro dipartimenti, ma concentrati principalmente nelle Côtes-d’Armor e nel Finistère). Senza contare i bovini e il pollame. Troppo in rapporto a ciò che la regione è in grado di sopportare. L’inquinamento dei terreni, delle acque sorgive e del litorale sono oggi diventati endemici.

Essi devastano i loro territori, ma gli allevatori di suini guardano altrove. Nell’estate del 2011 hanno lanciato uno slogan per ridare lustro al loro blasone inzaccherato dal letame: «Grugnisce, scoreggia, eppure…». Non hanno osato spingersi oltre. E tuttavia. Quattordici milioni di maiali (senza contare le lettiere) prodotti nel 2010 sono migliaia di tonnellate di letame, un sulfureo cocktail di azoto e fosforo, che gli allevatori spandono su terreni già più che saturati. Altri si accontentano di spostare il problema: nel 2009 la piccola azienda Lemée in Côtes-d’Armor si rallegra così per aver esportato più di 100.000 tonnellate di liquami, senza però precisarne la destinazione…

Anabaena flosaquae, Aphanizomenon flosaquae, Microcystis aeruginosa etPlankthotrix agardhii… Graziosamente chiamate «alghe blu», i cianobatteri anno dopo anno contaminano le acque dei fiumi bretoni, l’ingestione o il contatto delle quali provoca cefalee, gastroenteriti e irritazioni cutanee e oculari. In quali condizioni si sviluppano? Luce, temperatura clemente, presenza importante di azoto e di fosforo.

Ulva armoricana, ulva, insalata di mare, lattuga di mare, classe delle cloroficee, in breve: l’«alga verde». Come prolifera? Luce, temperatura clemente, presenza importante di azoto e di fosforo. Arenata sulla spiaggia si decompone molto rapidamente liberando un gas tossico. Nel luglio 2006 una marea verde causa la morte di un cavallo su una spiaggia della Côtes-d’Armor. Il cavaliere, caduto in coma, poté essere salvato.

Due anni più tardi due cinghialetti da latte sono ritrovati morti su una spiaggia della Côtes-d’Armor invasa dalle medesime alghe verdi. Scrivendo a questo proposito sul quotidiano Le Monde, Alain Menesguen, direttore di ricerca presso l’Istituto francese di ricerca per lo sfruttamento del mare (Ifremer), non si meraviglia che a metà: «Molto prima del 2009 vi furono numerosi casi di cani trovati morti sulle spiagge. Ufficialmente ciò non fu mai causato dalle alghe verdi». Commentando i discorsi di Nicolas Sarkozy che «rifiutava di indicare i colpevoli, di puntare il dito contro gli agricoltori» e denunciava invece «gli integralisti dell’ecologia» qualche giorno prima dell’incidente: «Si tratta di parole abbastanza stupefacenti, perché si pensava di aver effettuato finalmente una svolta nell’agosto 2009, in occasione della visita del Primo ministro François Filon a Saint-Michel-en-Grève, dopo la morte di un cavallo. Per la prima volta i servizi dello Stato avevano allora riconosciuto ufficialmente che i nitrati agricoli erano all’origine delle maree verdi».

Lo Stato francese, sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy, ha impedito di tenere pubblici dibattiti su questo problema. Ha piuttosto sostenuto questa modalità di allevamento devastante col pretesto che la metanizzazione sgombrava le campagne dal liquame e dalle alghe verdi. L’associazione “Acque e fiumi” della Bretagna scaglia fulmini: «Nicolas Sarkozy misconosce un problema vecchio di quarant’anni, raggira l’opinione pubblica e rende pessimo servizio alla protezione dei litorali. Non è con l’ulteriore industrializzazione dell’allevamento bretone che si darà una risposta alle più grandi sfide ambientali e socioeconomiche che si pongono in Bretagna».

La metanizzazione delle alghe verdi o del liquame, lungi dal migliorare la situazione, l’aggravano. Il procedimento consiste nel produrre energia partendo da materie in decomposizione. Problema: liquame e alghe verdi contengono enormi quantità d’acqua. Soluzione: aggiungere materiale secco come la paglia – privandone gli animali – e il mais per avviare il processo, ciò che è in sé un nonsenso. Risultato: i fanghi residui sono effettivamente un concentrato di nitrati. Per rendere remunerativo il sistema bisognerebbe… aumentare la quantità di alghe verdi e di liquame. Assurdo.

Fonti e riferimenti

France Nature Environnement ;

— Les rapports de la FAO sur « La situation mondiale de l’alimentation et de l’agriculture » : en 2009 « Le point sur l’élevage », et en 2006 « L’aide alimentaire pour la sécurité alimentaire ? » ;

Bidoche, l’industrie de la viande menace le monde de Fabrice Nicolino, éditions Les Liens qui Libèrent (LLL). Autour du livre, « Les ravages de l’industrie de la viande », par Jocelyne Porcher, Rue89, octobre 2009 ;

Bovins et humains au Brésil en 2007, cartographie.

Sur les élevages porcins polonais gérés par la méga firme Smithfield, propriétaire entre autres des marques françaises Aoste, Justin Bridou et Cochonnou :

Pig business ;

— « Smithfield Foods : Cruel to Pigs and Humans », par l’association américaine People for the Ethical Treatment of Animals (PETA) ;

— « Can Chicken Save the World ? », par Yelena Galstyan, The Daily Green, 18 juillet 2011.

Agnès Stienne est artiste, graphiste et illustratrice indépendante.

Notes

[1] FAO, La situation mondiale de l’alimentation et de l’agriculture – Le point sur l’élevage,(PDF), 2009.

[2] Tom Philpott, « What the USDA Doesn’t Want You to Know About Antibiotics and Factory Farms », Mother Jones, 29 juillet 2011.

[3] Lire Jared Diamond, Effondrement : Comment les sociétés décident de leur disparition ou de leur survie, Gallimard, 2006.

[4] Voir aussi « Le Brésil, puissance agricole ou environnementale ? » sur ce blog, et notamment la deuxième carte, « Assassiner pour s’approprier la terre ».

 


 



Venerdì 21 Settembre,2012 Ore: 17:28