Le Monde Diplomatique – venerdì 28 gennaio 2011
La valigia diplomatica

Il mondo arabo si rivolta

Dalla Tunisia all’Egitto un’aria di libertà


Di Alain Gresh

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Sul blog di Le Monde Diplomatique una disamina di Alain Gresh della situazione nel mondo arabo, dove "è saltata la serratura del coperchio". (JFPadova)
 
La tensione è al culmine in Egitto, dove il presidente Hosni Mubarak venerdì sera ha decretato il coprifuoco. Il presidente della Commissione affari esteri dell’Assemblea, membro del Partito Nazionale Democratico (PND) al potere, ha chiesto al presidente «riforme senza precedenti» per evitare una «rivoluzione». Mustapha Al-Fekki, nelle sue dichiarazioni rilasciate alla catena TV Al-Jazeera il 28 gennaio, ha aggiunto: «La sola opzione dell’uso della forza pubblica non è sufficiente e il presidente è il solo in grado di mettere fine a questi avvenimenti». Alcune informazioni riferiscono di episodi di fraternizzazione fra poliziotti e manifestanti. Queste prime crepe annunciano cedimenti più importanti? Che cosa farà l’esercito, il pilastro del potere?
 
È impossibile rispondere, mentre questo 28 gennaio, per il quarto giorno consecutivo, decine di migliaia di egiziani hanno manifestato al Cairo, ad Alessandria, a Suez e nelle grandi città del Paese. Dovunque essi hanno affrontato la polizia e il potere ha preso misure eccezionali per tagliare fuori questo Paese di 80 milioni di abitanti dal resto del mondo – il taglio di Internet è «una prima mondiale», titolava un dispaccio dell’Agenzia France Presse (AFP). Eppure le immagini trasmesse mediante telefono cellulare o dalle catene televisive satellitari evitano che il Paese sia messo in quarantena.
 
Nello stesso momento, in Giordania e nello Yemen migliaia di persone scendevano nelle strade e invocavano a seguire l’esempio tunisino. In ogni caso il contesto è particolare: tensioni fra il Nord e il Sud in Yemen, frizioni fra giordani «di origine» e palestinesi, questione copta in Egitto, ecc. Ma nello stesso tempo l’esplosione è nata dal medesimo accumulo di problemi, di frustrazioni, di aspirazioni comuni all’insieme della regione.
 
Innanzitutto, il mantenimento di regimi autoritari che non rendono mai conto ai loro cittadini. Se esiste (o piuttosto se esisteva) un’ «eccezione araba», si trattava proprio di questo: questi regimi hanno conosciuto una longevità senza precedenti e perfino la grande ondata di democratizzazione che ha travolto l’Europa dell’Est, l’Africa, l’America latina, si è infranta contro il muro delle dittature del Vicino Oriente e del Maghreb. Mubarak è presidente dal 1982, Ali Abdallah Saleh dirige lo Yemen dal 1978 e, nel 1999 ad Amman Abdallah II è succeduto a suo padre, che a sua volta era salito al potere nel 1952. Per non parlare della Siria, dove Bashar Al Assad ha preso il posto del padre, al potere dal 1970, o del Marocco, dove il re Mohammed VI ha sostituito nel 1999 suo padre, che aveva regnato a partire dal 1961, della Libia dove Gheddafi imperversa dal 1969 e prepara suo figlio a succedergli. Quanto al tunisino Ben Ali, era presidente dal 1989, senza interruzione né condivisione del potere.
 
Per di più, in condizioni diverse per ogni Paese, ci si fa beffe dei diritti politici, individuali e di espressione del cittadino. Le mukhabarat, la polizia segreta, si impongono in tutta la loro potenza e non è affatto raro, in Egitto e altrove, che persone arrestate siano maltrattate, torturate, uccise. La pubblicazione da parte di WikiLeaks dei telegrammi provenienti dall’Ambasciata degli Stati Uniti al Cairo conferma ciò che già tutti sapevano (compreso Nicolas Sarkozy) – ma che non impediva agli uni e agli altri [ndt.: Paesi occidentali] di salutare questo alleato fedele dell’Occidente, mentre con vigore denunciavano comportamenti simili in Iran. Questo arbitrio totale, che si manifesta anche nella vita quotidiana e che pone i cittadini alla mercé delle forze dell’ordine, alimenta una rivolta che esprime dovunque una sete di dignità.
 
Tutti questi regimi si sono accaparrati non solamente il potere politico, ma si sono imposti anche nel campo economico, agendo sovente come veri e propri predatori delle ricchezze nazionali, come in Tunisia. Lo Stato nato dalle indipendenze [ndt.: dai domini coloniali], che spesso aveva assicurato ai cittadini un minimo di protezione, una certa copertura sociale, un accesso all’istruzione, si è disgregato sotto i colpi della corruzione e della globalizzazione. Perfino l’università, che un tempo in Egitto apriva l’entrata agli impieghi statali, non offre più possibilità a una gioventù sempre più frustrata, che vede pavoneggiarsi i «nuovi ricchi».
 
Negli anni ’70 il boom petrolifero aveva offerto un’uscita di sicurezza a molti, che emigrarono nel Golfo [Persico]; questa regione non è più in grado di assorbire il flusso crescente dei disoccupati. Le cifre della crescita sbandierate da questi campioni del liberalismo economico – l’Egitto, la Tunisia o la Giordania erano spesso oggetto di rapporti elogiativi da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali – nascondevano malamente la crescente povertà. Da molti anni in Egitto si erano affermati movimenti sociali – scioperi operai, lotte contadine, manifestazioni nei quartieri periferici delle grandi città, ecc. – come in Tunisia (Gafsa), in Giordania e in Yemen. Ma mai fino a oggi si era manifestata apertamente e in massa la volontà del cambiamento politico. L’esempio tunisino ha fatto saltare la serratura di un coperchio.
 
Si può anche osservare come la lotta contro Israele, che sovente offriva ai regimi del Vicino Oriente un argomento per mantenere la presa – nel nome dell’unità contro il nemico sionista –, sembra non essere più sufficiente. Egitto e Giordania hanno firmato accordi di pace con Israele e l’insieme del mondo arabo sembra proprio incapace  di reagire alla lenta sopraffazione dei Palestinesi. Non ci si inganni: un editorialista americano, Robert Kaplan, faceva notare sul New York Times del 24 gennaio che « …non erano le democrazie, ma gli autocrati come Sadat o il re Hussein che facevano la pace con Israele. Un autocrate solidamente impiantato può fare concessioni più facilmente di un dirigente debole ed eletto. (…)». E in un appello ai dirigenti americani perché sostengano gli «autocrati» arabi si interrogava: «Vogliamo proprio che dirigenti illuminati come il re Abdallah di Giordania vedano il loro potere minato da imponenti manifestazioni di piazza?».
 
E adesso? Qualsiasi previsione sull’Egitto è azzardata e nessuno può prevedere il seguito degli avvenimenti. Che faranno i Fratelli Musulmani, molto restii a entrare in un confronto con il potere e che alla fine si sono decisi ad aderire al movimento? Mohammed El Baradei, ex segretario dell’AIEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, sarà in grado di federare le opposizioni? Comunque vadano le cose, la rivoluzione tunisina ha aperto una porta e fatto spirare, come cantava Jean Ferrat, «un’aria di libertà al di là delle frontiere, per i popoli stranieri, che dava le vertigini…».
 


Sabato 29 Gennaio,2011 Ore: 12:47