Die Zeit, Hamburg – 11 luglio 2010
La ferita della Bosnia non è ancora rimarginata

Ricorre il 15° anniversario di Srebrenica. Domenica si seppelliscono 775 vittime. E il generale serbo Ratko Mladič è ancora a piede libero.
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)


Qualche giorno fa cadeva il quindicesimo anniversario del genocidio di Srebrenica.
Molti fogli stranieri hanno dato a questa ricorrenza l'importanza che deve avere, sottolineando quanto il ritornello "Mai più..." sia mendace.
L'abbiamo ascoltato nel 1994, dopo la strage in Ruanda, lo leggeremo ancora, dopo che nel Darfur non vi sarà più nessuno da ammazzare, visto che l'incriminato presidente Al-Bashir è sempre lì a dirigere le "operazioni".
Riporto quanto ne scrive "Die Zeit" e un commento di U. Galimberti sulla "negazione": il non percepire quello che si vede.

Da giovedì scorso in Bosnia si è svolta una processione di 775 feretri. Accompagnati dai partecipanti a una marcia della memoria i carri funebri hanno portato i resti mortali degli assassinati da Srebrenica attraverso Sarajevo al monumento commemorativo di Potočari, dove domenica saranno inumati con una cerimonia. Dal ciglio della strada persone in lacrime gettavano fiori sul corteo funebre. Vi sono state scene sconvolgenti. Una donna ha gridato che fra i morti vi erano quattro suoi fratelli e alla vista dei feretri è svenuta.
 
Quest’estate, nel 15° anniversario del massacro di Srebrenica, si seppelliscono più vittime degli anni passati. Con l’ausilio del DNA vengono identificati sempre più morti dalle fosse comuni dell’estate 1995. Finora sono stati esumati i resti di 8372 morti, a 6557 dei quali i medici legali operanti nella cittadina bosniaca di Tuzla hanno restituito i nomi. Da tutti i continenti i sopravvissuti hanno inviato campioni di DNA per rendere possibile il confronto con i resti esumati, che si trovano nelle celle frigorifere a Tuzla.
 
Durante la guerra di Bosnia Srebrenica, un tempo località con una miniera d’argento e un gruppo di emigrati tedeschi, era stata dichiarata dalle Nazioni Unite zona protetta. Un battaglione di 450 caschi blu olandesi avrebbe dovuto garantire la sicurezza della popolazione. Nel 1990 la cittadina, prima della guerra civile, aveva circa 6.000 abitanti. Quando venne dichiarata “zona protetta” più di 40.000 civili cercarono qui riparo. Un osservatore ONU definì già nel 1994 la situazione nella località, ormai preda della fame, come un “genocidio al rallentatore”.
 
Di fatto si era allestito un campo di concentramento, che rese ancora più facile la “pulizia etnica” da parte delle truppe serbe. Verso la metà di luglio del 1995 i serbi travolsero il luogo. Sotto gli occhi dei caschi blu iniziò la selezione dei ragazzi e degli uomini, che furono deportati su terreni agricoli, fienili ed edifici scolastici fuori della cittadina. Dopo le fucilazioni di massa essi furono seppelliti. Poco prima degli accordi di Dayton, nel settembre 1995, col favore delle tenebre gli assassini scavarono nuove fosse comuni, denominate “tombe secondarie” dal Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia. Con i bulldozer si tolsero le salme dalle fosse primarie e si seppellirono in luoghi più distanti, per tenere nascosto il crimine. Queste circostanze rendono più difficile il lavoro degli investigatori del Tribunale Internazionale e dei medici legali a Tuzla. Tuttavia il genocidio di Srebrenica fa parte dei crimini di guerra meglio documentati commessi durante il conflitto seguito al disfacimento della Jugoslavia. Srebrenica diventò anche sinonimo dell’inerzia della comunità internazionale, alla quale mancò la volontà politica.
 
Della vecchia Srebrenica esiste oggi soltanto poco. La località registra la minore quota di ritorni di tutta la Bosnia-Erzegovina. Ogni anno, l’11 luglio, vengono a migliaia, quando nei pressi del monumento commemorativo di Potočari le vittime identificate trovano la loro ultima dimora. La maggior parte di coloro che abitavano a Srebrenica vivono come rifugiati interni in Bosnia, molti anche nell’Unione Europea o negli Stati Uniti. Fino a oggi non sono stati pagati risarcimenti da parte né delle Nazioni Unite né del governo olandese. Axel Hagedorn, avvocato in Amsterdam, il cui studio rappresenta 6.000 sopravvissuti, non ha ricevuto alcuna risposta alle sue lettere dirette alla sede centrale dell’ONU a New York: “Neppure una ricevuta”.
 
Alcuni colpevoli, come l’ex generale dei serbo-bosniaci, Radislav Krstič, hanno dovuto nel frattempo rispondere dei loro atti davanti al tribunale de L’Aja. Attualmente è sotto processo l’ex presidente dei serbo-bosniaci, Radovan Karadzič. Sempre a piede libero si trova il principale accusato: l’ex generale Ratko Mladič. Quando nel luglio 1995 invase Srebrenica, aveva dichiarato davanti alle telecamere: “Alla vigilia di un giorno di grande festa per i serbi noi diamo questa città in dono al popolo serbo; è finalmente arrivato il momento (…) in cui noi, in questa regione, ci vendichiamo dei turchi”. Spesso i bosniaci convertiti all’Islam sotto il dominio ottomano erano chiamati “Turchi” dai nazionalisti serbi. Ratko Mladič deve tenersi nascosto in Serbia, dove ambienti influenti impediscono finora la sua consegna al Tribunale. Il suo arresto è la richiesta principale dell’Organizzazione “Madri di Srebrenica”.
 
Marieluise Beck, presidente del gruppo parlamentare “Bosnia-Erzegovina” al Parlamento tedesco, che oggi partecipa come rappresentante del Parlamento alle celebrazioni funebri, come la maggior parte dei politici occidentali ritiene irrinunciabile la cattura di Mladič. “Per la Serbia non c’è nient’altro da fare, se vuole diventare membro della comunità monetaria dell’Unione Europea”, ha dichiarato Beck a Berlino lo scorso venerdì. Anche il ministro degli Esteri Guido Westerwelle chiede la sua cattura.
 
 
Umberto Galimberti
LA NEGAZIONE
(“la Repubblica” – “Il Venerdì”, 6 marzo 2010)
 
Fa freddo stasera. Starò a casa mia, al caldo, probabilmente sul divano sotto una coperta. Ci pensa mai, a tutti quelli che però se ne devono stare, per forza, là fuori? lo ci stavo pensando proprio ora. Ai barboni, ai poveri, alle puttane. Chiamati così senza disprezzo, mi si intenda. Forse le mie parole sono soltanto figlie della mia età e dell'idealismo che ti padroneggia quando hai vent'anni, ma sono schifata, indignata, disgustata. E mi sento impotente perché so che anche se andassi in piazza Duomo e mi mettessi in piedi su una sedia, con un megafono, per chiedere di essere ascoltata, la gente continuerebbe a passare indifferente. Figurarsi, fanno fatica a farsi sentire Amnesty ed Emergency che lottano per qualche firma nelle piazze italiane da più di vent'anni... Lavoro con gli anziani, malati, soli e mi chiedo come si possano abbandonare così le condizioni più deboli, visto che abbiamo la consapevolezza della possibilità di divenire prima o poi come loro sono ora. Troppi chiudono gli occhi. Troppi fanno finta che non esista chi sta male. E questo non è tollerabile. Chiedo anche a lei di indignarsi quanto lo sono io. Visitate il sito di Amnesty international, leggete Le ragazze di Benin City di Isoke Aikpitanyi, fate un'ora di volontariato in una casa di riposo oppure in una comunità per bambini. Non rimanete indifferenti e isolati, passanti distratti su questo mondo. Rimango anonima perché non sono che una voce disperata, e tale mi sento in mezzo al nulla.
(e-mail a U. Galimberti)
 
 
Sono stato incerto se mettere la sua mail in fondo alla lettera, ma poi ho rispettato il suo desiderio di anonimato, che non condivido, perché il suo sentimento per le persone emarginate poteva essere partecipato ad altre persone, e non contenuto nella semplice indignazione che di solito non modifica lo stato delle cose.
La situazione che lei descrive, peraltro molto diffusa, è stata già presa in esame da Freud e denominata "negazione". La negazione consiste nel non percepire quel che si vede. Ne dà un ottimo esempio il sociologo Stanley Cohen, in Stati di negazione (Carocci). L'autore ricorda che negli anni Cinquanta, quando aveva dodici anni e viveva a Johannesburg in Sudafrica, una notte d'inverno, mentre scivolava nel suo letto riscaldato con lenzuola di flanella e piumino ben imbottito, prese a riflettere perché lui era dentro al caldo e invece un nero adulto (al seguito della sua famiglia che era in trasferimento per il lavoro del padre) fosse fuori al freddo, strofinandosi le mani per riscaldarsi, con il bavero del cappotto rialzato. L'indomani chiese alla madre quale fosse il paese d'origine di quell'uomo nero, dove fossero sua moglie e i suoi figli, e soprattutto perché dormiva fuori al freddo. La risposta della madre fu che Stanley, il suo bambino, «era troppo sensibile». La cosa finì lì. Ma qualche anno dopo, il ricordo riemerse, e Stanley, ormai studente di sociologia a Oxford, incominciò a chiedersi: «Ma i miei genitori vedevano quello che io vedevo o vivevano in un altro universo percettivo, dove spesso gli orrori dell'apartheid erano invisibili, e la presenza fisica della gente di colore sfuggiva alla loro consapevolezza? Oppure vedevano esattamente ciò che vedevo io, ma semplicemente non gliene importava nulla o non ci trovavano niente di sbagliato?».
Fu così che nella mente di Stanley si fece strada l'idea di istituire una cattedra di Sociologia della negazione per arrivare a capire cosa facciamo della nostra conoscenza della sofferenza altrui, e soprattutto cosa fa a noi questa conoscenza. Quale meccanismo induce la gente a negare come se non sapesse quello che sa? Non c'è in questo mancato "riconoscimento", che è l'esatto contrario della "negazione", la prima radice, e se vogliamo la più profonda, dell'immoralità collettiva?
Abbiamo ricordato nel Giorno della Memoria il genocidio degli ebrei, abbiamo soltanto da poco tempo riconosciuto il genocidio degli Armeni. Non ci interessano per niente i genocidi che avvengono in Sudan e nel Darfur, non ce ne importa nulla di quel campo di concentramento che è ormai la Striscia di Gaza. Sappiamo dei bambini africani che muoiono di fame, senza per questo smettere di nutrire i nostri bambini fino al limite dell'obesità e oltre.
L'abbondanza di informazione, tipica del nostro tempo, ci rende responsabili di ciò che sappiamo, e se non diventiamo sensibili a quel che sappiamo, diventiamo irrimediabilmente immorali, a colpi di negazione.


Sabato 17 Luglio,2010 Ore: 14:50