Rassegna stampa sul "caso Sallusti"
Da patria del diritto a paese dell'illegalità

Solo in Italia l'applicazione di una legge da parte di un tribunale fa gridare allo scandalo, classificandoci sempre più come paese dell'illegalità


Libertà di diffamazione? Opinionista o killer mediatico? Queste le domande che si pongono il corrispondente del quotidiano berlinese Die Tageszeitung e della radio pubblica tedesca ed il senatore del PD Franco Monaco



LIBERTA’ DI DIFFAMAZIONE

di Michael Braun, corrispondente del quotidiano berlinese Die Tageszeitung e della radio pubblica tedesca *

L’Italia ha un nuovo martire: Alessandro Sallusti. Condannato a 14 mesi di carcere per diffamazione, oggi si presenta – ed è presentato dalla quasi totalità dei suoi colleghi – come la vittima di una legge aberrante che (così si afferma) punisce un “reato di opinione” e non ha uguali nelle altre democrazie.

Ma le cose stanno davvero così? Uno sguardo al codice penale tedesco ci dice subito che la diffamazione è reato punibile con due anni di carcere, e se avviene a mezzo stampa la pena sale addirittura fino a cinque anni. Insomma: chi, utilizzando le pagine di un giornale, denigra qualcuno ricorrendo ad affermazioni palesemente false rischia la galera anche in Germania.

Ciò detto potrei aggiungere che anche a me questa condanna, senza condizionale, sembra esagerata. Ma questo punto è già sottolineato da tanti, praticamente da tutti, giornalisti e politici. Un altro punto rischia invece di scomparire: cioè che, in veste di direttore, Sallusti si è reso complice di un reato grave, e che prima di assurgere al ruolo di martire ha vestito i panni dell’autore di un atto illecito.

Vogliamo ricordare che cosa scriveva cinque anni fa un certo Dreyfus (la vocazione al martirio, a quanto pare, era già tutta presente) sul giudice Giuseppe Cocilovo? Quel giudice aveva autorizzato una ragazzina tredicenne ad abortire, dietro richiesta della ragazza e di sua madre. Il quotidiano Libero commentava così: “Un magistrato ha applicato il diritto – il diritto! – decretando: aborto coattivo. (…) Qui ora esagero, ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo, il giudice. Quattro adulti, contro due bambini. Uno assassinato, l’altro (in realtà) costretto alla follia”.

Dopo la sentenza contro Sallusti ora Il Giornale (dove il condannato nel frattempo è trasmigrato come direttore) decreta: “L’articolo sotto accusa: duro, ma è un’opinione”. Davvero? Potremmo già disquisire sull’aggettivo “duro”. Invocare la pena di morte per quattro persone che non si sono resi colpevoli neanche della più minima illegalità vi sembra duro? A me sembra una violenza inaudita. Ma non è questo il punto.

La pena di morte viene invocata da quel Dreyfus con un argomento inventato di sana pianta: che la ragazzina sarebbe stata costretta all’aborto da quattro adulti mentre risulta che lei stessa voleva interrompere la gravidanza. Questa sì che è tecnica di diffamazione: capovolgere i fatti, voler costringere le ragazzine a non abortire e poi strillare in modo non solo scomposto, ma menzognero. Il reato di diffamazione esiste per una precisa ragione: per permettere al diffamato di difendere il suo onore contro attacchi basati su racconti non veritieri. Altro che reato di opinione. Se qualcuno si alzasse affermando che Sallusti è – per esempio – uno spacciatore, un pedofilo, un contrabbandiere o un amico dei mafiosi come reagirebbe l’illustre direttore? Guardandosi allo specchio, facendo spallucce e dicendo fra sé e sé, “è solo un’opinione”? Non credo. E bene farebbe a querelare.

Bene ha fatto pure il giudice Cocilovo a querelare Sallusti. Del resto il condannato continua a dare versioni lievemente distorte perfino della storia processuale. Scrive: “Non ho accettato trattative private con un magistrato (il querelante) che era disponibile a lasciarmi libero in cambio di un pugno di euro, prassi squallida e umiliante più per lui, custode di giustizia, che per me”. Par di capire che Cocilovo volesse sfruttare l’occasione per portare a casa un bel gruzzoletto. È squallido e umiliante, più per Sallusti che per altri, che il direttore non riesca mai a raccontare le cose se non attraverso una lente deformata: Cocilovo esigeva l’ammissione di colpa e il pagamento di ventimila euro non a lui, ma a Save the Children.

Ma ancora oggi Sallusti non è in grado di realizzare che la diffamazione c’è effettivamente stata, che non è un’opinione affermare il falso a spese dell’onore di un’altra persona, facendola passare per l’aguzzino di una ragazzina. Giustissimo l’intento di tanti direttori e giornalisti di difendere la libertà di stampa, giustissima la domanda se la pena comminata non sia esagerata. Ma da qui a difendere un diffamatore (o un direttore che pubblica e copre i diffamatori) ci corre. Non risulta che Sallusti si sia mai scusato per quell’articolo.

* www.internazionale.it, 27 settembre 2012


Opinionista o killer mediatico?

di Franco Monaco* (il manifesto, 29 settembre 2012)

Chiarisco subito onde fugare equivoci: la pena del carcere è troppo, si provveda a cambiare la legge. Ciò detto non posso tacere un certo disagio per la corale levata di scudi a cominciare da Quirinale, palazzo Chigi, ministro della Giustizia. Il caso Sallusti non si risolve nel suo spiacevole epilogo. Un epilogo che peraltro speriamo non sia effettivamente il carcere. Il nostro ordinamento è nel suo complesso abbastanza garantista da autorizzarci a confidare che in carcere Sallusti non ci andrà. E comunque il caso dovrebbe suggerire meno enfasi, più misura, più consapevolezza della molteplicità e della complessità dei problemi che, profittando dell’occasione, merita mettere a tema. Provo a raccoglierne alcuni attraverso una sequela di interrogativi.

La legge, giusta o sbagliata che sia, non va rispettata? La magistratura non ha il dovere di applicarla? La legge non è uguale per tutti, giornalisti compresi? La libertà di stampa non è un diritto che, come tutti i diritti, non è esente da limiti? Che c’entra la libertà di opinione con la pubblicazione di notizie false (a quanto sembra, consapevolmente false) e calunniose? Le vittime non vanno difese, neppure quando si rifiutano loro le scuse e la doverosa rettifica? Basta che un articolo non sia firmato perché non ne risponda nessuno? Il Quirinale ha diritto di sindacato su sentenze definitive?

Non è contraddittorio che, tra coloro che più strillano in queste ore, vi siano politici che propongono il carcere per i giornalisti in tema di intercettazioni, con palese intento intimidatorio? E’ normale che si faccia scrivere sotto pseudonimo un signore radiato dall’albo dei giornalisti per comportamenti immorali e illegali? Nulla da dire sul fatto che quel signore sia stato portato in parlamento per premiarlo dei servizi resi come "agente Betulla" nel quadro della vergognosa campagna diffamatoria verso Prodi, Fassino e altri sul caso, costruito ad arte, Telekom Serbia, che per un intero anno ha occupato le prime pagine de Il Giornale?

A fronte di questo cumulo di problemi, politici e media si sono tutti e unanimemente concentrati sulla ingiusta condanna comminata a Sallusti, rappresentato come martire della libertà di stampa, e persino sull’asserito accanimento dei magistrati.

Mi chiedo: non merita, così, distrattamente, spendere una parola sul giornalismo inteso come killeraggio verso gli avversari politici? Quel giornalismo di cui i Sallusti e i Farina sono campioni. Come se tale giornalismo, quello che ha confezionato il cosiddetto metodo Boffo, non gettasse discredito sul nobile e impegnativo mestiere del giornalista. Come se esso non avesse responsabilità nell’imbarbarimento della nostra vita civile e politica. Come se, di quell’uso della penna e del computer come armi per distruggere le persone, non vi siano state innumerevoli vittime (certo più anonime di Sallusti ma segnate per sempre) per le quali non il capo dello Stato ma proprio nessuno ha levato la voce e mosso un dito.

Ribadisco: condivido l’esigenza di correggere la legge sul punto delle sanzioni. Magari suggerirei di farlo senza la precipitazione e l’ossessione del caso singolo che sono sempre cattive consigliere quando si legifera sulla delicata materia dei diritti. Ma è difficile sottrarsi all’impressione che, al fondo di tanto, troppo zelo, stiano due pulsioni magari inconsapevoli: un riflesso corporativo della corporazione dei giornalisti e lo spirito partigiano o corrivo dei politici, quelli di destra che corrono in soccorso di uno dei loro, quelli di sinistra che devono ostentare il loro animus liberale e longanime verso gli avversari. Meglio sarebbe dare prova di distacco e compostezza.

*Senatore Pd




Sabato 29 Settembre,2012 Ore: 16:09