SUICIDI PER CREDITI

di Ernesto Miragoli

(06.04.12)

Una volta ci si uccideva per debiti. Succedeva, perlopiù, ai malati di gioco: gli ammaliati dal tavolo verde firmavano cambiali su cambiali agli avvoltoi che sempre volteggiano attorno alle carni in decomposizione e, quando s’accorgevano che sotto il lastrico non potevano andare, risolvevano il problema con un cappio o una pistola.

Oggi ci si uccide per crediti. Succede ai malati di lavoro: piccoli imprenditori che vogliono gestire in proprio un lavoro per dare dignità e maggiori possibilità a se stessi ed ai propri cari, accettano commesse pubbliche e attendono d’essere pagati da anni da quello Stato al quale regolarmente versano IVA, Irpef, Irap, Inps, Tasse di concessioni governative e via elencando. I soldi non arrivano e le banche stringono sul credito in nome di Basilea III. Ma i soldi non arrivano neanche da clienti privati che fanno i furbi e dilazionano il pagamento fino allo spasimo. Il piccolo imprenditore è onesto, corretto: continua a pagare IVA e tasse su un utile ipotetico di cui non ha visto ancora un euro. Le banche lo sanno, ma a loro non interessa: i fidi continuano a ridursi. Non c’è che una soluzione: il suicidio.

E’ così che è successo, sta succedendo e succederà ancora nel prossimo futuro: l’uomo scrive un biglietto alla moglie ed ai figli, saluta gli operai rosso in volto perché non ha ancora pagato lo stipendio da due mesi e sceglie la morte. Al cappio ed alla pistola si aggiungono altri metodi suicidi che possono essere quello di ridurre la propria vettura ad una camera a gas, di gettarsi dalla cima di un palazzo o di un ponte o di tagliarsi le vene.

Di fronte a simili gesti che sono indizio di una totale perdita di senso del valore della propria vita è giusto interrogarsi non per colpevolizzare il suicida o cercare le colpe, ma per capire una società umana che si sta sempre più avvinghiando su se stessa.

Il consumismo ed il capitalismo sfrenati e voraci portano a perdere progressivamente, lentamente, ma inesorabilmente il senso dei veri valori.

I morti di suicidio per crediti sono nella pace di Dio e solo con Lui possono valutare un gesto estremo e totalizzante che li ha portati a buttare il dono della propria vita che ultimamente andavano percependo sempre più come senza senso o come un non senso.

Ma noi abbiamo il dovere di chiederci se ha un senso che persone con le quali abbiamo condiviso un percorso di vita, entusiasmi e preoccupazioni, gioie e dolori, progetti e speranze chiudano repentinamente un cammino perché la società in cui vivono fa loro percepire progressiva e drammaticamente tremenda emarginazione.

Si dice che per suicidarsi ci vuole coraggio, ma si dice anche che il suicidio è l’estrema forma di viltà.

Ecco: siamo al giudizio.

Noi sappiamo solo giudicare gli altri, mai noi stessi. Sappiamo solo condannare o assolvere e mai siamo capaci di penetrare e sviscerare un problema.

I problemi, invece, ci sono. E sono molti.

Il primo è il sistema politico e sociale che è diventato sempre più una piovra vorace: cittadini che chiedono voti ad altri cittadini per governare il paese, si sistemano con prebende da favola che percepiscono vessando i propri simili con tasse sempre più alte e balzelli sempre più voraci. Chi governa e chi vive di politica deve sentirsi coinvolto da simili tragedie e chiedersi si sia morale votare un aumento di stipendio derivante da denaro pubblico, mentre altre persone che vivono del proprio lavoro non hanno di che vivere e di che pagare altri lavoratori. C’è una soluzione, una sola: fissare un tetto massimo di stipendio che non superi – in nessun caso – centomila euro lordi annui e su tale parametro configurare gli stipendi di sindaci, presidenti di regioni, di province, deputati, senatori ed amministratori pubblici. Non devono esistere privilegi di sorta.

Il secondo problema è il rapporto fra il cittadino e l’Agenzia delle Entrate. Qui si può davvero discutere ed attuare il federalismo. Il rapporto fra funzionari pubblici e cittadini deve essere il più possibile capillare e quasi privato: un cittadino, per esempio, che non può pagare l’IVA perché non l’ha ancora incassata deve poter discutere con chi è preposto all’incasso delle imposte e mostrare le proprie ragioni.

Il terzo problema è il rapporto fra cittadini e lo Stato cliente. Non si può pretendere di ricevere soldi e vessare chi non paga, se non si paga entro trenta giorni.

Il quarto problema attiene il rapporto fra cittadini e cittadini. Chi lavora deve essere pagato e il pagamento deve avvenire in un termine massimo di trenta giorni. Chi non paga deve essere costretto  a farlo da un sistema statale che non può far attendere l’escussione del debito oltre sessanta giorni. Il sistema di dilazionare i pagamenti all’infinito ha portato vantaggi solo alle banche ed alle finanziarie ad esse collegate. Questi speculatori avidi di soldi trovino altri mezzi per mantenere le loro lussuose auto e le escort ad esse collegate. Si deve tornare alla mentalità che se si hanno i soldi si commissionano i lavori, se non si hanno i soldi non si fa nulla.

Il quinto problema riguarda l’educazione generale al senso civico e finanziario. Non deve più esistere il credito al consumo. Si devono educare i nostri figli e nipoti che la banca è un luogo ove riporre i soldi che ci sono e che si devono spendere i soldi che ci sono. Abramo Lincoln ammoniva:”Guai a quell’uomo che fonda la propria sicurezza sul denaro preso a prestito!” La nostra società, basa sempre più su un’economia finanziaria anziché sull’economia reale, ha creato la mentalità che si può pagare a rate prendendo a prestito il denaro. Lo slogan:”Prendi subito e paghi poi”, deve essere sostituito da:”Prendi e paga, se ti serve quel bene”. So benissimo che tale sistema paralizzerà per un po’ l’economia, ma sono anche certo che inizierà, se attuato, a muovere una spirale virtuosa che porterà solo frutti positivi ed un’economia sana.

E nessuno più si ucciderà per credito.

Ernesto Miragoli



Venerd́ 06 Aprile,2012 Ore: 16:10