La mistica del capitalismo

Un articolo del quotidiano La Repubblica e un commento di don Aldo Antonelli


 "La Mistica del Capitalismo", così si intitola un articolo di Roberto Esposito che appare oggi su La Repubblica e che ho scannerizzato per voi perché ve lo leggiate (Cfr. allegato).

A dire il vero non è la sua novità che meraviglia ma la sua sconcertante attualità. Non per niente la citazione con cui inizia l'articolo risale a circa cento anni fa, al lontano 1921: «Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni».
L'accostamento "sistema capitalistico"/"sistema religioso" è stato evidenziato e denunciato da molti nel passato, anche dai non esperi in materia ma che come cristiani si sentivano feriti da quella invasione delle coscienze che sempre ha accompagnato la moltiplicazione del capitale.
Anche Arutro Paoli, a pagina 50 del suo libretto edito dalla Cittadella di Assisi , "Le Beatitudini", denunciava molto tempo fa: "Sono convinto che il progetto capitalista attuale sia una idolatria...Sono convinto che nessuna eresia dei secoli passati abbia nociuto tanto al cristianesimo quanto l'idolatria attuale".
Mons. Romero denunciava il capitalismo come una controreligione assoluta: "C'è un ateismo più vicino e più pericoloso per la nostra Chiesa: l'ateismo del capitalismo in cui i beni materiali si erigono a idoli e sostituiscono Dio"!
E, prima di loro, già Karl Marx, parlando del danaro, denunciava questa onnipotenza che eguaglia quella divina: ""il Denaro in quanto possiede la proprietà di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l'oggetto di possesso in senso eminente. L'universalità della sua proprietà costituisce l'onnipotenza del suo essere, esso è considerato,quindi,come ente onnipotente".
Ciò che meraviglia è l'attualità di questo dominio incontrastato e incontestato di questo dio; in una società, poi, che si dice antiautoritaria, libertaria, senza più padri e dove il grande Padre è morto da tempo.
Questa mistica del capitalismo è talmente pervesiva, invasiba e persuasiva che anche di fronte alla grande crisi di oggi, nessuno la mette in discussione.
Ci si ferma alla periferia del problema: la politica dei governi precedenti, i privilegi delle caste, le colpe dell'Euro e giù discendendo. Nessuno che abbia il coraggio di puntare l'indice al cuore del problema: questo tipo di economia, totalmente staccata dal lavoro da cui dovrebbe avere la sua origine, tutta abbarbicata attorno ad una finanza chiusa ed autoreferente.
Come può, alla lunga, una economia di questo tipo, durare nel tempo?
"Il capitalismo è in sostanza un sistema parassitario. Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l'ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza"!
Parola di Zgmunt Bauman: Capitalismo parassitario.
In questo contesto si pone, grave e tremendo, l'interrogativo accusatorio: come mai l'Occidente cristiano si è consegnato, mani  e piedi, corpo e anima, a questo lupo famelico che di tutto fa strage e tutto divora pur di ingrassare se stesso?
Come hanno potuto allevare questa bestia che tutto consegna alla morte, loro, credenti in un Dio che tutto restituisce alla vita? 
Gli adoratori del Dio che libera i prigionieri come hanno potuto benedire questo antidio che tutti rende schiavi?
I battezzati in Spirito e Verità come hanno potuto far proprio questo sistema il cui spirito è quello di "incitare all'egoismo, dilatare le ambizioni di consumo, attivare le energie narcisistiche, farci competitivi e assetati di lucro" (Frei Betto)?
Sono d'accordo con il teologo Carlo Molari nel dichiarare senza infingimenti e senza paure che "l'attuale sistema capitalistico è per principio icompatibile con l'annuncio cristiano".
Aldo Antonelli

LA MISTICA DEL CAPITALISMO

(Roberto Esposito - La Repubblica 6.12.2011)

«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni». Queste fulminanti parole di Walter Benjamin - tratte da un frammento del 1921, pubblicato adesso nei suoi Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà per gli Editori Internazionali Riuniti - esprimono la situazione spirituale del nostro tempo meglio di interi trattati di macroeconomia. Il passaggio decisivo che esso segna, rispetto alle note analisi di Weber sull'etica protestante e lo spirito del capitalismo, è che questo non deriva semplicemente da una religione, ma è esso stesso una forma di religione. Con un solo colpo Benjamin sembra lasciarsi alle spalle sia la classica tesi di Marx che l'econo­mia è sempre politica sia quella, negli stessi anni teorizzata da Carl Schmitt, che la politica è la vera erede moderna della teologia.

Del resto quel che chiamiamo "credito" non viene dal latino "credo"? Il che spiega il doppio si­gnificato , di "creditore" e "fede­le", del termine tedesco Gläubiger. E la "conversione'' non ri­guarda insieme l'ambito della fe­de e quello della moneta? Ma Benjamin non si ferma qui. Il ca­pitalismo non è una religione come le altre, nel senso che risulta caratterizzato da tre tratti speci­fici: il primo è che non produce una dogmatica, ma un culto; il secondo che tale culto è perma­nente, non prevede giorni festivi; e il terzo che, lungi dal salvare o redimere, condanna coloro che lo venerano a una colpa infinita. Se si tiene d'occhio il nesso se­mantico tra colpa e debito, l’at­tualità delle parole di Benjamin appare addirittura inquietante. Non soltanto il capitalismo è di­venuto la nostra religione secola­re, ma, imponendoci il suo culto, ci destina ad un indebitamento senza tregua che finisce per di­struggere la nostra vita quotidia­na.

Già Lacan aveva identificato in questa potenza autodistruttiva la cifra peculiare del discorso del Capitalista. Ma lo sguardo di Benjamin penetra talmente a fondo nel nostro presente da su­scitare una domanda cui la rifles­sione filosofica contemporanea non può sottrarsi. Se il capitali­smo è la religione del nostro tem­po, vuol dire che oltre di esso non è possibile sporgersi? Che qual­siasi alternativa gli si possa con­trapporre rientra inevitabilmen­te nei suoi confini - al punto che il mondo stesso è "dentro il capi­tale", come suona il titolo di un li­bro di Peter Sloterdijk (II mondo dentro il capitale, Meltemi2006)?

Oppure, al di la di esso, si può pensare qualcosa di diverso - co­me si sforzano di fare i numerosi teorici del postcapitalismo? In­torno a questo plesso di questio­ni ruota un intrigante libro, origi­nato da un dibattito tra filosofi te­deschi, ora tradotto a cura di Ste­fano Franchini e Paolo Perticari, da Mimesis, col titolo Il capitali­smo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione.

Da un lato esso spinge l'analisi di Benjamin più avanti, per esempio in merito all'inesorabi­lità del nuovo culto del brand. Ta­le è la sua forza di attrazione che, anche se vi è scritto in caratteri cubitali che il fumo fa morire, compriamo lo stesso il pacchetto di sigarette. Come in ogni religione, la fede è più forte della evidenza. Dior, Prada o Lufthansa ga­rantiscono per noi più di ogni no­stra valutazione. Le azioni cul­tuali sono provvedimenti gene­ratori di fiducia cui non possibi­le sfuggire. Non a caso anche i partiti politici dichiarano "Fidu­cia nella Germania" a prescinde­re, non diversamente da come sul dollaro è scritto "In God we trust". Ma, allora, se il destino non è, come credeva Napoleone, la politica, ma piuttosto l'econo­mia; se il capitale, come tutte le fedi, ha i suoi luoghi di culto, i suoi sacerdoti, la sua liturgia - oltre che i suoi eretici, apostati e martiri quale futuro ci attende?

Su questo punto i filosofi co­minciano a dividersi. Secondo Sloterdijk, con l'ingresso in cam­po del modello orientale - nato a Singapore e di lì dilagato in Cina e in India - si va rompendo la tria­de occidentale di capitalismo, ra­zionalismo e liberaldemocrazia in nome di un nuovo capitalismo autoritario. In effetti oggi si assi­ste a un curioso scambio di con­segne tra Europa e Asia. Nel mo­mento stesso in cui, a livello strutturale, la tecnologia euro­pea, e poi americana, trionfa su scala planetaria, su quello cultu­rale il buddismo e i diversi "tao" invadono l'Occidente. La tesi di Zizek è che tra i due versanti si sia determinato un perfetto (e perverso) gioco delle parti. In un sag­gio intitolato Guerre stellari III. Sull'etica taoista e lo spirito del capitalismo virtuale (ora incluso nello stesso volume), egli indivi­dua nel buddismo in salsa occi­dentale l'ideologia paradigmati­ca del tardo capitalismo. Nulla più di esso corrisponde al carat­tere virtuale dei flussi finanziari globali, privi di contatto con la realtà oggettiva, eppure capaci di influenzarla pesantemente. Da questo parallelismo si può trarre una conseguenza apologetica o anche una più critica, se riuscia­mo a non identificarci interior­mente col giuoco di specchi, o di ombre cinesi, in cui pure ci muoviamo. Ma in ciascuno dei casi re­stiamo prigionieri di esso.

E’ questa l’ultima parola della filosofia? Diverremo tutti, prima o poi, officianti devoti del culto capitalistico, in qualsiasi versio­ne, liberale o autoritaria, esso si presenti? Personalmente non ti­rerei questa desolata conclusione. Senza necessariamente acce­dere all'utopia avveniristica del Movimento Zeitgeist o del Venus Project — entrambi orientati a so­stituire l'attuale economia finan­ziaria con un'organizzazione sociale basata sulle risorse naturali —, credo che l'unico grimaldello capace di forzare la nuova reli­gione del capitale finanziario sia costituito dalla politica. A patto che anch'essa si liberi della sua, mai del tutto dismessa, masche­ra teologica. Prima ancora che sul terreno pratico, la battaglia si gioca sul piano della compren­sione della realtà. Nel suo ultimo libro, Alla mia sinistra (Mondadori, 2011), Federico Rampini percorre lo stesso itinerario — da Occidente a Oriente e ritorno - ma traendone una diversa lezio­ne. All'idea di "mondo dentro il capitale" di Sloterdijk è possibile opporre una prospettiva rove­sciata, che situi il capitale dentro il mondo, vale a dire che lo cali dentro le differenze della storia e della politica. Solo quest'ultima può sottrarre l'economia alla de­riva autodissolutiva cui appare avviata, governandone i processi ed invertendone la direzione.



Marted́ 06 Dicembre,2011 Ore: 21:19