È possibile un’economia basata sul Vangelo?

di Luciano Jolly

Ringraziamo la redazione di Tempi di Fraternità (www.tempidifraternita.it ) per averci messo a disposizione questo articolo pubblicato sul numero di dicembre 2010.
Ci si potrebbe attendere che una civiltà, ad esempio quella cristiana, dia un senso coerente a tutte le proprie manifestazioni: che vi sia insomma un’economia cristiana, dei rapporti umani basati sul Vangelo, una pubblicità solidale, uno svago spirituale...
La terra sarebbe allora un nuovo Eden. I giardini fiorirebbero incontaminati; la pace regnerebbe; gli uomini sarebbero mossi da un sublime slancio d’amore: si coltiverebbe la vita dello spirito.
Se confrontiamo un testo sacro con la realtà, ci accorgiamo però che le cose non stanno così. Il Vangelo parla in un modo, la realtà effettuale in un altro. I poveri continuano ad attendere la loro beatificazione nel Regno dei cieli: quello terrestre è il loro durevole inferno.
Tra la teoresi e la prassi si è frapposta, pesante cortina di ferro, l’ideologia. Se abbiamo il coraggio di guardarla francamente negli occhi, l’ideologia ci parlerà e ne scopriremo tutta l’ipocrisia. Essa ci dirà che scambia le parole per fatti, le idee per realtà. L’ideologia è soltanto una maschera. Questa grande fabbrica di sartoria “veste di idee” le brutture esistenti, affinché esse ci appaiano più sopportabili. Per esprimerci in linguaggio cristiano, l’ideologia è un peccato perché porta falsa testimonianza.
Uno spunto per la riflessione ci è offerto dal Vangelo di Matteo. Seguiamone il racconto. Alla nascita del divino bambino, i Re magi si mettono in cammino seguendo un segno celeste, la cometa. Non hanno navigatori palmari, non seguono alcun cartello stradale. La loro guida è un segnale che viene dal cielo. E qual è il primo dono che recano al bimbo? È oro, il primo dono.
Possiamo facilmente immaginare a cosa si interesserebbe un qualunque operatore finanziario dell’era moderna - manager dell’Unicredit, comune cittadino o dirigente della Barclays Bank - a proposito dell’aureo dono regale: il prezzo all’oncia, la caratura, il peso, e in definitiva quanto se ne potrebbe ricavare vendendolo liberamente sul mercato.
Ma in senso religioso l’oro ha tutt’altro significato. L’uomo antico viveva di simboli e Jung mette in relazione la povertà spirituale della vita moderna proprio con l’assenza di simboli nella nostra coscienza. Per noi l’oro è semplicemente un bene rifugio che ha un valore di mercato. Può essere venduto e comprato. Chi lo possiede lo ostenta e ne ricava prestigio. I ladri lo rubano. I commercianti lo commerciano. L’oro è soltanto quello che è. Se simboleggia qualcosa, non si tratta che dello status sociale.
Al contrario per i Re magi l’oro significava luce. Non quella fisica che proviene dal sole, ma quella divina che illumina il difficile cammino degli uomini. E tutto un corteggio di pratiche e di credenze surrogava nell’antichità questa concezione. In India si dice: l’oro è luce minerale. In molti paesi esso viene
considerato un simbolo d’immortalità: ad esempio l’effigie degli dèi (in Egitto dei faraoni) è realizzata con l’oro perché tale metallo ha un carattere igneo, solare e regale, ossia divino. Tutto l’abbigliamento di Apollo, dio del sole, era di oro: la tunica, i fermagli, la lira, l’arco, la faretra, gli stivaletti.
Le icone del Buddha, come pure quelle bizantine, sono dorate: esse rappresentano un segno di illuminazione e di perfezione assoluta, il riflesso della luce celeste. In alchimia la trasmutazione del piombo in oro viene considerata una redenzione. Angelus Silesius, un mistico cattolico vissuto nel sec. XVII, vede in tale trasmutazione il percorso di trasformazione dell’uomo in Dio. In Cina la persona che assume droghe a base di oro diventa chenjen, ossia un vero uomo. Presso gli Aztechi l’oro, nel ciclo delle stagioni, è simbolo del rinnovamento periodico della natura: un simbolo di trasformazione.
Rimanendo più terra a terra, un proverbio africano dice: l’oro è lo zoccolo del sapere, il trono della saggezza. Ma se confondete lo zoccolo ed il sapere, cade su di voi e vi schiaccia. Invece per i Dogon e i Bambara l’oro non è altro che la vibrazione originale dello spirito di Dio, e insieme parola e acqua, verbo fecondante.
Passiamo alla mirra. Attualmente essa è utilizzata in profumeria, e usata in certi prodotti farmaceutici per le sue proprietà disinfettanti, soprattutto dell’apparato digerente e delle vie intestinali. Viene anche impiegata per curare le afte e le ulcerazioni della bocca.
Ma nell’antichità le era attribuito ben altro valore simbolico, essendo un componente fondamentale dell’olio santo per le unzioni (Esodo, XXX, 23). Nel Cantico dei Cantici è citata sette volte per il suo profumo. Inoltre la tradizione mette la mirra in rapporto con l’unzione del Cristo, e simboleggia l’espiazione dei peccati tramite la sofferenza e la morte corporale (veniva infatti utilizzata per le imbalsamazioni). L’offerta della mirra al bambino Gesù pare suggerire un’anticipazione del destino che il Dio-Uomo patirà più tardi sulla Croce.
L’incenso oggi viene comunemente usato per profumare gli ambienti. Ma nella tradizione, e nel culto della Chiesa, esso aiuta la preghiera a innalzarsi fino al cielo, diventando così emblema della funzione sacerdotale. L’incenso associa l’uomo al divino, il finito all’infinito, il mortale all’immortale.
Il Vangelo di Matteo si apre così con una cerimonia densa di valori simbolici, che rimandano l’uomo alle sue origini celesti. La produzione in massa delle merci ne ha vanificato il simbolismo.
Oggi il Natale è una festa terrestre. Lo scambio dei doni ha un carattere immanente. Dopo aver perduto il senso dei simboli e dei miti, l’uomo moderno crede di rassicurarsi con le cose. Forse incomincia a rendersi conto che in questo modo rischia di smarrire il senso profondo della sua vita.
 


Mercoledì 08 Dicembre,2010 Ore: 12:54