COME SALIAMO SUL PATIBOLO SALIREMO SULLA TRIBUNA

di Daniela Zini

“La femme a droit de monter sur l'échafaud;
elle doit avoir également celui de monter à la tribune.”
Olympe de Gouges
Diceva Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), ancora intorno al 1850, che la donna vale solo otto ventisettesimi dell’uomo: una frazione piuttosto meschina, meno di un terzo, come si vede. Il paradosso è degno dello scrittore dai cento paradossi che gridò risolutamente:
“La proprietà è un furto.”,
ma condusse, poi, un’acerrima polemica contro Karl Marx (1818-1883), che propugnava, nella scia di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), l’affrancamento dell’uomo dalla schiavitù, e, nel 1859, si oppose all'intervento francese in Italia, in quanto “avrebbe potuto sconvolgere l’assetto dato all’Europa”, oltre quaranta anni prima, dal Congresso di Vienna.
Comunque, sia prima di Proudhon, sia dopo, non furono in pochi a dividere il negativo giudizio sulle donne e, cosa strana, tra i più tenaci assertori dell’inferiorità femminile si annoverano proprio molti campioni del progresso. 
Nel 1789, la popolazione femminile, in Francia, era di circa 14 milioni. La maggioranza era costituita da contadine. Delle altre, una su cinque lavorava come domestica. Quanto alle operaie e alle artigiane, donne delle città, il loro salario era, talvolta, inferiore di metà a quello degli uomini che svolgevano un analogo lavoro.
Scriveva Françoise Giroud:
“La maggior parte di loro non sapeva leggere. Solo trentacinque spose su cento erano in grado di firmare il contratto matrimoniale. Vi erano a Parigi 30mila prostitute; alcuni dicono 60mila.”
Nonostante simili condizioni di inferiorità e di ignoranza, le donne furono pronte a schierarsi con i movimenti progressisti. 
Le troviamo già presenti alla presa della Pastiglia.
All’indomani del 4 agosto 1789, data dell’abolizione dei privilegi feudali dell’assemblea nazionale, le dames des Halles, le venditrici del mercato, fecero celebrare un Te Deum.
Il 7 settembre le mogli degli artisti si presentarono, in vesti bianche, alla tribuna della Costituente e offrirono i loro gioielli alla patria, sull’orlo della rovina economica. Ma la grande giornata delle donne fu il 5 ottobre, quando una massa di popolane converse da vari punti della capitale sulla strada di Versailles, e guazzando nel fango, sotto la pioggia battente, si diresse alla reggia per reclamare il ritorno dei sovrani Luigi XVI (1754-1793) e Maria Antonietta (1755-1793) a Parigi, abbandonata fin dal tempo del Re Sole (1638-1715).
È facile, pertanto, comprendere la delusione suscitata nei circoli femminili dai decreti della costituente. Si dovette giungere all’assemblea legislativa perché fosse riconosciuta almeno la parità dei coniugi, ma ogni altro avanzamento fu negato alla donna: no al voto, no all’accesso ai pubblici uffici, no al diritto di portare le armi.  
Olympe de Gouges (1748-1793), donna coraggiosa e generosissima, cui si può addossare un’unica colpa - quella di essersi eretta a poetessa e scrittrice senza averne le doti - era femminista già prima della Rivoluzione. Si spacciava per figlia naturale di Luigi XV (1710-1774) e aveva trasformato il suo cognome plebeo, Gouze, nel più aggraziato ed eufonico de Gouges. Abbattuta la Bastiglia, si illuse che potessero cadere anche le simboliche muraglie in cui erano tenute prigioniere le donne e, nel dicembre del 1790, dinanzi all'Assemblée des Amis de la Verité, tenne una prorompente orazione, per rivendicare i diritti del proprio sesso.
“Che la nostra santa rivoluzione,”,
esclamò,
“determinata dal progresso della filosofia, operi una seconda rivoluzione nei nostri costumi!”
In breve, invocava l’istituzione di un clima di eguaglianza, che riconoscesse alla donna la possibilità di agire anche in campi di azione diversi da quelli ove era rimasta relegata attraverso i secoli, da Adamo in poi, salvo rare eccezioni, attendente alla casa e ai figli, infermiera, camerista, attrice, o, ipotesi ancora più umiliante, trastullo consacrato al divertimento dell’uomo.
Quando si leggono i discorsi e i saggi di Olympe de Gouges su questo argomento, viene spontanea la riflessione che, se avesse applicato le sue alte qualità di ingegno ad altri scopi e, soprattutto, in altri tempi, oggi, i posteri le tributerebbero omaggio, come a una delle figure femminili più significative sella storia. Invece, le nocque, nella stima del pubblico colto, l’aver fatto mettere in scena commedie e drammi privi di un qualsiasi valore che non fosse collegato alla moda, agli eventi contemporanei. La lieve aureola di ridicolo che la circondava, come autonominatasi drammaturga, la danneggiò, sicuramente, anche nei rapporti con Maximilien Robespierre (1758-1794), del quale parve provocare e coltivare l’ostilità.
Allorché vennero proclamati i Diritti dell’Uomo, senza che si accordasse la minima considerazione all’inevitabile riscatto morale della donna, Olympe de Gouges lanciò la Déclaration des Droits de la Femme et de la Citoyenne, in cui sfavillano pensieri cui si adatta il nome di slogans.
“La donna nasce e rimane pari all’uomo nei diritti…”
“La legge deve essere l’espressione della volontà comune: tutte le Cittadine e tutti i Cittadini devono concorrere personalmente o attraverso i loro rappresentanti alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti…”  
Era una presa di posizione, particolarmente, franca, leale e ardita, se si pensa che era, già, stata, ripetutamente, minacciata da Robespierre, a causa di certi attacchi politici; e lei non lo aveva, certo, dimenticato, tanto che nel suo ultimo discorso in pubblico asseriva:
“La donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere anche quello di salire sulla tribuna.”
Fiere parole, nelle quali, forse, è adombrato un presagio.
Ogni dittatura - di qualsiasi tinta sia verniciata - diviene invariabilmente un regime di arbitrio e di tirannia; così si spiega come il corpo legislativo di Francia, respinte le richieste di Olympe, si piegasse ossequiente al volere di Maximilien Robespierre, quando questi la fece arrestare e condannare.
“In carcere”,
narra Jules Michelet (1798-1874),
“si ritrovò donna, debole, tremante, ed ebbe paura della morte. Le dissero che le donne incinte ottenevano un rinvio dell’esecuzione. Sembra che abbia tentato di divenirlo…”
“Un amico”,
prosegue il nostro autore, dando libero sfogo alla sua vena romantica,
“le avrebbe reso, piangendo, il triste ufficio, di cui si prevedeva l’inutilità (Olympe aveva quarantacinque anni). Le matrone e i chirurghi, consultati dal tribunale, ebbero la crudeltà di dire che, se c’era gravidanza, era troppo recente per poter essere constatata.”
La sua testa cadde sotto la lama della ghigliottina, il 3 novembre 1793, solo qualche mese prima della rinascita di Termidoro. 
Con questo delitto, tuttavia, la battaglia non ebbe termine.
Già, nel 1792, a Londra, una giovane ventitreenne dalla bellezza pacata e altera, aveva dato alle stampe una Vindication of the Rights of Woman, destando enorme scalpore. A quei tempi, una donna che scrivesse era giudicata un’originale, per non dire addirittura una squilibrata, ma questa Mary Wollstonecraft (1759-1797), questa figlia di una famiglia aristocratica, che un padre beone aveva ridotto alla miseria, pretendeva, addirittura, di guadagnarsi il pane con la penna!
E aveva anche il coraggio di proclamarlo:
“Voglio essere la prima di un ordine nuovo. Mi guadagnerò la vita facendo la scrittrice.”
Disgraziatamente, la sua straordinaria intelligenza non era sorretta da un temperamento freddo, da una mente capace di discernere la convenienza  dal danno, l’utilità dalla sicura perdita. Innamoratasi del pittore Johann Heinrich Füssli (1741-1825), già sposato e felice, ne fu respinta. A Parigi, ove si legò di amicizia con molti girondini, incontrò un certo Gilbert Imlay (1754-1828), americano di non ben definita professione, il quale si separò da lei dopo averle dato una figlia, Fanny, lasciandola in tale stato di disperazione che, dopo breve tempo, fu indotta a cercare la morte nelle acque del Tamigi. Due barcaioli la trassero in salvo: in seguito, Mary Wollstonecraft ritrovò un amico degli anni giovanili, il filosofo William Godwin (1756-1836), acconsentì a dimenticare, al suo fianco, l'ingannevole passione per Imlay e, a dispetto delle loro comuni idee, favorevoli al libero amore, divenne sua moglie poco prima di dare alla luce un’altra bambina. Questa maternità le costò la vita.
Aveva soltanto trentotto anni. Il suo romanticismo esasperato, spingendola a violare ripetutamente le leggi morali della società inglese del tempo, aveva tolto parte del valore a una coraggiosa, valida opera innovatrice della quale, ancora oggi, si avverte l’influenza allorché si prende in esame la posizione della donna, le sue passate affermazioni, le sue conquiste future.
All’inizio, parve che il Chartist Movement risuscitasse le rivendicazioni femminili, insieme con quelle del proletariato; ma i leaders dell’organizzazione abbandonarono con prontezza il campo minato, appena si resero conto dello sdegno che quei concetti, sovvertitori dell’ordine consacrato dalla tradizione, destavano nell’uomo inglese, ricco o povero, analfabeta o colto, a qualsiasi ceto appartenesse.  
Continuarono, invece, a militare poche coraggiose. Per non citare che i nomi più notevoli, ricorderemo: George Sand (1804-1876) e Flora Tristan (1803-1844), in Francia; Elizabeth Elmy (1833-1918), Lydia Becker (1827-1890), Emmeline Pankhurst (1858-1928), in Gran Bretagna; Elisabet Cady Stanton (1815-1902), Lucretia Mott (1793-1880) e l’indomabile Susan Anthony (1820-1906), negli Stati Uniti.  
A Manchester, nel 1865, venne istituito il primo comitato mondiale per il suffragio femminile, ma i progressi furono ardui, molti ostacoli apparvero insormontabili. In seno al parlamento britannico anche la maggior parte dei liberali combatté l’esigua schiera di eroine, spesso schernite, vilipese, angariate e calunniate, perfino dalle altre donne. Statisti, quali Henry John Temple, terzo visconte Palmerston (1784-1865), William Ewart Gladstone (1809-1898), Benjamin Disraeli (1804-1881), non osarono farsi campioni di questa causa, sebbene avessero dato vigoroso appoggio a ideali anche arrischiati nel settore politico.
Vi fu Palmerston, a esempio, che abbracciò l’idea dell’unione d’Italia, al punto da permettere a un suo inviato di associarsi al grido dei patrioti livornesi:
“Viva l’indipendenza italiana!”,
quando tutto il mondo sapeva come Gilbert John Elliot-Murray-Kynynmound, quarto Conte di Minto (1845-1914) fosse una specie di suo portavoce, sebbene non ufficiale. E vi fu l’imprevedibile Gladstone, che, dopo qualche incertezza iniziale, seguì la medesima linea di condotta, per molti anni, nei confronti non soltanto dei patrioti italiani, ma anche degli altri rivoluzionari europei, e spinse la propria fermezza fino a opporsi in parlamento allo stesso Palmerston, quando, dopo l’attentato di Felice Orsini (1819-1858) contro Napoleone III (1808-1873), questi propose una legge per colpire gli stranieri che cospirassero contro il loro governo sul suolo inglese. 
Sia il primo, sia il secondo, tuttavia respinsero, quasi sgomenti, le giuste proteste delle donne. Ambedue si fecero complici del sistema sociale che - come aveva scritto Flora Tristan, alcuni decenni prima - le aveva ridotte alla condizione di paria. Quanto al focoso Disraeli, tanto irruente quando difendeva gli interessi dei ceti meno abbienti, si fece subito cauto all’eccesso allorché le suffragette chiesero il suo sostegno. Pronunciò qualche parolina di mellifluo assenso, si ritrasse, tornò a degnarle di una frase di lode o di un sorriso: ma il tutto sapeva di ipocrita assenteismo.
Povero Disraeli!
Affezionato come era alla regina, tanto da non esitare a chiamarla My Fairy Queen, sebbene fosse divenuta una povera vecchia, troppo pingue, sempre vestita a lutto, nemica della gioia e degli applausi, perennemente ripiegata nel rimpianto di “Alberto, il mio angelo”, gli si poteva, forse, domandare di schierarsi contro di lei?
Tutti sanno che Vittoria odiava il movimento femminista.
D’altronde, perfino negli Stati Uniti, dove già, nel 1832, si concedeva, talora, alle donne di parlare dalla tribuna al popolo contro la schiavitù dei neri, bastò che Elisabet Cady Stanton e Lucretia Mott ventilassero la possibilità di associare le due cause, perché gran parte dei loro amici politici le respingesse in disparte.
Almeno sul piano teorico, infatti, appena finita la Guerra di Secessione, la legge riconobbe che “il diritto di cittadinanza degli Stati Uniti non può esser né rifiutato né tolto per ragioni di colore, di razza o di antica servitù”. Alle suffragette, invece, si continuava a precludere ogni possibile affermazione, Susan Anthony, la più illustre eroina del movimento, proveniva da una famiglia quacchera – e, in seno a quelle comunità, ogni individuo aveva rari privilegi, senza distinzione di sesso –; ma, quando fu costretta a lavorare, causa le ristrettezze finanziarie in cui era caduto il padre,  si sdegnò nel vedere come alle donne venisse corrisposto il venticinque per cento soltanto dei salari e degli stipendi pretesi dagli uomini. Insegnante, si dedicò, con slancio, a una triplice crociata: contro l’ubriachezza, contro la schiavitù negra, contro la secolare subordinazione femminile.
Ancora nel 1852, tuttavia, durante una riunione della lega antialcolismo, il principale oratore dichiarò:
“Le nostre sorelle sono state invitate qui non per prendere la parola, ma per tacere e istruirsi.”
Di scatto, balzata in piedi, Susan Anthony abbandonò la sala.
Da quel giorno, forse, ebbe inizio la sua battaglia intrepida: ovunque andasse, percorrendo a piedi e  a cavallo enormi distanze, poiché nel periodo iniziale della sua missione non esistevano linee ferroviarie, le accoglienze riservatele erano fredde, irrispettose, talora, ignobili. A Haute Terre, nell'Indiana, dove il grande sindacalista Eugene Victor Debs (1855-1926) l’aveva invitata a tenere un ciclo di conferenze, venne affrontata in stazione da un energumeno che, dopo averla volgarmente ingiuriata, le sputò in viso. Altrove, i razzisti contrari all’emancipazione dei neri, bruciarono la sua effigie con giubilante concorso di plebe. Il suo apostolato durò più di quaranta anni.
“Preferisco fare la storia che scriverla.”,
sosteneva.
Ancora più aspra la sorte delle suffragette inglesi.
Nel 1903, l’organizzazione guidata da Emmeline Pankhurst, nonché dalle sue figlie, Christabel Harriette (1880-1958) ed Estelle Sylvia (1882-1960), iniziò ad attirare l’interesse, non sempre benevolo dell’opinione pubblica, con una serie di incidenti anche gravi. Le rivendicazioni di carattere economico (parità di salari), di carattere politico (accesso alle urne), di carattere civile (doveri e privilegi uguali), apparivano come un vero attentato ai cardini della vita sociale alla maggioranza degli inglesi, che non ne voleva sapere di queste signore che, invece, di curare marito e figli, scendevano in corteo nelle vie, con cartelli su cui era scritta la frase blasfema:
“Il voto alle donne!”
Vi furono scontri in terreno aperto. Gli avversari ricorsero ai sistemi violenti, le suffragette non furono da meno. A un certo punto, perfino, i simpatizzanti restarono perplessi: penetrata in un grande museo, una delle fedeli seguaci di Emmeline Pankhurst sfregiò con un temperino, alla presenza di altri visitatori, che non intervennero per la sorpresa e lo sbigottimento, una tela di Velasquez. Era la temeraria, folle risposta alla crudele, volgare attitudine del pubblico, che perseguitava le suffragette con il suo sciocco disprezzo, e alle ottuse, retrograde decisioni di un governo, democratico in tutto, eccettuata la soluzione del problema femminile. 
Dopo decenni di rivolta, condotta senza esclusione di colpi dalla soave Emmeline; dopo centinaia di irruzioni nelle sale, dove si adunavano membri dei sindacati operai, delle commissioni parlamentari, delle opere benefiche, tutti egualmente mal disposti verso le suffragette, dopo incendi di banche e di uffici postali; dopo dimostrazioni pubbliche, con partecipanti al movimento che si incatenavano alle cancellate dei palazzi governativi, per simboleggiare il loro servaggio morale; dopo arresti, condanne, scioperi della fame, forzata alimentazione in carcere; dopo l’applicazione di metodi polizieschi, così energici da ridurre alcune delle persone costrette a cibarsi con la forza in lacrimevoli condizioni fisiche, venne la guerra del 1914.
Come tutti sanno, la guerra, orrendo flagello, costituisce quasi sempre un passo avanti per le categorie oppresse.
Finalmente, nel 1918, il paese più progredito e liberale d’Europa, il paese dove non vigeva da secoli la legge salica, dove Elisabetta, Anna e Vittoria, avevano regnato con il pieno consenso del popolo, concedeva, finalmente, il voto alle donne.
Oggi, a Londra, un monumento ricorda alle folle la grande opera di Emmeline Pankhurst, delle sue compagne, dei suoi amici. 
Daniela Zini
Copyright © 10 febbraio 2011 ADZ


Marted́ 15 Febbraio,2011 Ore: 12:04