Il crocifisso del Vajont

di Lucia Spinozzi

9 ottobre 1963, ore 22.39: avviene il disastro del Vajont – definito «industriale ed evitabile» – per la costruzione di un bacino idroelettrico artificiale che causa la frana di un pendio del Monte Toc, situato tra la provincia di Belluno e quella di Pordenone. Muoiono ben 1.917 persone per il «fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema», come ha dichiarato l’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 2008, Anno internazionale del pianeta Terra.
Lo scorso febbraio ho assistito alla discussione della tesi di una mia compagna di studi – Chiara Spinelli – alla Cattolica di Milano, tesi che s’intitola “Graphic novel: un nuovo genere editoriale in Italia. Il caso di Vajont, storia di una diga”. Certo, si tratta di una ricerca sperimentale sul genere editoriale del fumetto, ritenuto da sempre secondario e inferiore rispetto i classici generi letterari, ma che si sta via via affermando soprattutto tra i giovani lettori. Eppure c’è qualcosa che va oltre. A partire dal libro “Vajont, storia di una diga” – di Niccolini e Boscoli, edito da BeccoGiallo di Padova nel 2013 –, Chiara vuole dimostrare come tramite il linguaggio fumettistico, costituito da disegni e balloons, si permette più facilmente di avvicinare le nuove generazioni alla memoria storica, restando comunque fedeli ai fatti e stimolando il senso critico e valutativo senza pregiudizi. Ebbene, anch’io rientro nella generazione non ancora nata all’epoca della tragedia e, grazie all’originale tesi di Chiara, mi sono interessata alla vicenda del Vajont. Per primo ho voluto guardare attentamente il film “Vajont. La diga del disonore” del 2001 con la regia di Martinelli. Una scena di quel drammatico passato mi ha suscitato un’ampia riflessione che riguarda anche il nostro oggi. Tra gli abitanti del Vajont c’è un giovane geometra, il cui padre, deceduto precedentemente la tragedia del 1963, era scultore. L’ultima opera eseguita dal padre è incompiuta: si tratta di un Crocifisso, ricavato da un unico tronco, con le braccia aperte ma senza la croce sottostante. Quando l’acqua inizia a riempire il bacino artificiale sommergendo via via le case degli abitanti del Vajont, una lunga serie di fotogrammi riprende il Crocifisso che galleggia tra i tetti delle abitazioni più alte. Quel Crocifisso ha trovato finalmente la sua croce e su di essa si è come adagiato, senza far rumore, restando muto dinanzi al male che non viene da Dio ma che l’uomo stesso si autoprocura. Ed è sempre così… Là dove ci sono guerre, ingiustizie, violenze, assenteismo da parte delle istituzioni civili – e purtroppo anche ecclesiali –, c’è sempre il Crocifisso che sceglie come croce proprio quelle situazioni di dolore inumano, inspiegabile. La croce piantata sul Golgota di duemila anni fa non è l’unica. Anzi, quando il male fa intravedere le sue tenebre, ecco che si presenta il Crocifisso senza croce, pellegrino in ogni angolo della terra alla ricerca dell’uomo che soffre e subisce il male. E lì si accosta, si fa vicino e vi stende sopra le sue braccia già allargate, mai chiuse. È come un mendicante di croce perché, una volta abbracciata, non la lascia come la trova, in balia del male, ma la trasforma in vita nuova, in risurrezione. È il Crocifisso risorto, senza più croce! Ed è sempre così…
Lucia Spinozzi
(La Voce Misena, 17 aprile 2014, n. 15, p. 4)


Domenica 29 Giugno,2014 Ore: 16:19