RISCOPERTA DI  UN’OPERA

di Sebastiano Saglimbeni

“ Riscoperta di un’opera”. Così intitolo questa mia nota che ho provato a ricavare dalla lettura di un libro, di oltre duecento pagine, edito di recente da Pellegrini editore in Cosenza, che da anni continua a distinguersi per i tanti titoli di storia, letteratura, filosofia, ambiente ed etica della politica. Mi riferisco all’opera Osservazioni politiche, e morali sopra la vita di Marco Bruto/Trasportate dallo spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro, con una meditata ed esauriente introduzione del filosofo siciliano Santi Lo Giudice e una postfazione di Antonio La Mancusa e Carmelo La Mancusa. Questo libro si può aggiungere ai rari divulgati, nei quali si leggono e si riscoprono presenze di spicco, ma sconosciute della Sicilia, l’Isolamondo, tanto offesa, ad iniziare da epoche remotissime, sino al propretore Verre, che la depredò, sino ad oggi, con i suoi malgoverni, che la coscienza di pochi osteggia in nome di una autentica rinascita.
La sopraddetta opera, che giacque nell’obblio, ci fa conoscere la figura umana e culturale di un certo Nicolò Serpetro della comunità Raccuja, in provincia di Messina, considerato un filosofo della natura, un umanista che aveva letto non pochi libri di classici greci e latini e italiani. Quest’uomo era stato pure definito “la Fenice degli ingegni”. Per una sua opera Il Mercato delle Maraviglie overo Istoria Naturale venne accusato di eresia e di pratiche di magia occulta da quell’infame Tribunale della Santa Inquisizione di Palermo, che lo condannò al carcere. Serpetro che, per qualche aspetto - quello che riguarda la cultura e l’ingegno - mi rievoca il poeta palermitano Antonio Veneziano, amico di Miguel de Cervantes, era nato nel 1606 ed era morto nel 1664 a Rocca Florida, probabilmente, per avvelenamento, notizia confutata di recente.
Intendere ora la sua fatica Osservazioni politiche, nelle sue pagine intense di vicende, richiede certo valore, quello della predilezione della memoria storica. Come quella intesa da Lo Giudice e da Antonino La Mancusa e Carmelo La Mancusa.
“I trattati di Vestfalia (24 ottobre 1628), che posero fine alla guerra dei Trent’anni, sancirono il crollo della politica egemonica degli Asburgo”, è l’incipit del discorso, un mini-saggio, di Lo Giudice, dai vari sottotitoli, di oltre 50 pagine, con note a piè di pagina. Da qui si può subito pensare come Lo Giudice, uno tra i più acuti interpreti della scrittura di Nietzsche in Italia, si sia spinto, fertile di memoria razionale storica, nell’infinito ossario del passato con i suoi uomini che furono quelli del dominio assoluto spagnolo, potenti solo sul nostro pianeta. E qui Filippo III, che “pur di mantenere il prestigio in Europa e nel mondo” volle “trascinare l’Europa nella Guerra dei Trent’anni, che ebbe come epilogo lo sfaldamento spagnolo a tutto vantaggio di quello francese”; e qui il figlio Filippo IV, il continuatore dell’assolutismo spagnolo asburgico, in nome del quale, contribuirono gli inneggianti scritti di una pletora di “intellettuali spagnoli”. Fra questi, Francisco de Quevedo, che scrisse, intorno al 1632, e pubblicò nel 1644, un anno prima che morisse, l’opera Vida de Marco Bruto, nella quale si legge la giustificazione della monarchia. Un nobile, de Quevedo, uno scrittore e poeta fertilissimo, dalla facile satira, cortigiano, come altri grandi poeti, scrittori ed artisti di ogni tempo. Figlio di Pedro Gómez, che fu segretario dell’imperatrice Maria d’Austria e, dopo, della regina Anna d’Austria, si era inserito bene in molte faccende della vita politica italiana pure protagonista di eventi oscuri.
La fatica di Serpetro, la traduzione, fu la prima editata in Italia. Pare che l’autore, poligrafo, avesse avuto conoscenza delle prime opere dello scrittore spagnolo, “tra gli anni 1624-1630, in cui ancora erano vive le tracce della permanenza del Quevedo in Sicilia in qualità di segretario del duca di Osuna, nominato nel 1610 viceré dell’isola”, scrive Lo Giudice. A Venezia, nel 1653, la traduzione di Serpetro venne editata da “Cristoforo Tomasini, con il titolo Osservazioni politiche, e morali sopra la vita di Marco Bruto, trasportate dallo spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro”.
Vida de Marco Bruto. Per la memoria, Marco Bruto era nato da nobile famiglia a Roma nel 85 a. C., dalle tendenze democratiche, educato alla filosofia. Fu famoso come grande scrittore. Si schierò con Pompeo contro Cesare, in nome della supremazia senatoria e in nome della tradizione repubblicana. Si riconciliò, dopo la battaglia di Farsalo del 48 a. C., con il dittatore Cesare che lo assegnò al governo della Gallia cisalpina. In seguito, Bruto aderì alla congiura anticesariana con il fine e la speranza di restaurare l’antico regime repubblicano e partecipò alle Idi di marzo. Costretto a fuggire da Roma con Cassio preparò la lotta con il triunvirato. Affrontato a Filippi dalle legioni di Ottaviano, si uccise dopo la sconfitta, nel 48 a. C.. La sua immagine ha impersonato nella letteratura di tutti i tempi la passione della libertà portata sino alle estreme conseguenze.
Marco Bruto nella scrittura di de Quevedo, non è l’uomo simbolo della libertà. La scrittura dello spagnolo, letta e studiata e tradotta nella nostra lingua da Serpetro, ha subìto modifiche, di cui Lo Giudice sa interpretare i motivi. Serpetro, che durante la sua vita, offesa dai potenti del suo tempo, come la famiglia Branciforti, dalla quale aveva ricevuti, ricambiati, benefici, si prefisse il fine di colpire le infamie e la falsa e abietta morale.
Lo Giudice scrive: “La saggezza, per Quevedo, non passa attraverso l’operato di Bruto bensì attraverso l’accondiscendenza di Cesare”. L’analisi di Lo Giudice, che qui è filosofo in vero, prosegue. Egli scrive: “In contrasto con l’ideazione etico-politica della maggior parte della tradizione del pensiero politico, che riteneva opportuna, per salvaguardia della Repubblica, l’aggressione di Marco Bruto nei confronti di Cesare, Quevedo paradossalmente trova il comportamento di Marco Bruto sconsiderato mentre ritiene saggio quello di Cesare, che legge la sua morte come un sacrificio necessario per l’istaurazione dell’impero”. Nelle pagine dell’introduzione che seguono, Lo Giudice trascrive tratti della scrittura di Quevedo con la rispettiva traduzione di Serpetro. Come, ad esempio: “Il popolo (…) acclama per Principe giusto il tiranno liberale. Et abborrisce(…) come Tiranno il principe auaro, ancorché in tutte l’altre virtù fia eccellente(…) Perché le inuidie , gli odij, le vendette, et i praui costumi della maggior parte del volgo, fanno desiderare il Principe crudele verso gli altri”.
Con questa citazione, dal sapore machiavellico, la conclusione di questa nota, che non può contemplare tutto dell’opera riscoperta, nel testo spagnolo, in quello italiano, nella lingua secentesca di Serpetro, nel discorso di Lo Giudice e in quello agile di Antonio La Mancusa e Carmelo La Mancusa.
Conta, infine, molto l’azione di queste ultime tre figure che hanno rinfrescato la memoria, soprattutto, di Nicolò Serpetro. Si può così recitare quanto, a proposito della memoria, scrisse il grande scrittore latino, che spesso cito, Quintiliano. Vale a dire: “Memoriam sperare posteritatis”



Lunedì 03 Marzo,2014 Ore: 21:17