QUASIMODO IN MEMORIA

di Sebastiano Saglimbeni

Le fortunate traduzioni dei Lirici greci di Salvatore Quasimodo, come spesso è stato scritto, generarono nel panorama della cultura letteraria non poche polemiche, pure meschine, subito dopo che il poeta era stato insignito del prestigiosissimo Premio Nobel, invidiato e contestato. A Verona, soprattutto, si pensava che quelle traduzioni fossero state eseguite dalla docente di greco e latino Caterina Vassalini. Quasimodo, già famoso nel nostro Paese, sin dalla divulgazione della sua silloge poetica Acque e terre, aveva conosciuto questa donna, che lo ospitava a Verona ed aveva con lo stesso intrapreso un viaggio nel 1956 tra le meraviglie dell’ Ellade. Per questo, si raccontava pure di una liason sentimentale del poeta con la docente, oggi meritatamente viva nella memoria dei suoi concittadini.
Accade che Quasimodo, paradossalmente, viene ricordato, non tanto come uno tra i maggiori poeti del secolo scorso, ma come un uomo sanguigno, un tombeur de fammes. In vero, si conoscono e sono stati scritti i nomi - definiamole così - delle sue muse. Di queste, anche fonti di ispirazione e di struggimento, se ne possono ricordare alcune. Il poeta, giovanissimo, all’indomani del conseguimento del diploma di geometra a Messina, convive a Roma povero con Bice Donetti, un’emiliana paziente e generosa, di otto anni più anziana di lui, che sposerà nel 1927. Quando morirà nel 1946, il poeta la gratificherà con la suggestiva lirica, spesso antologizzata, “Epitaffio per Bice Donetti”. In questa, fra l’altro, la donna è cantata come:
“ quella che non si dolse mai dell’uomo
che qui rimane, odiato, con i suoi versi,
uno come tanti, operaio di sogni”.
Ad Imperia, il poeta conosce Amelia Spezialetti, coniugata, più anziana di due anni. Dalla loro relazione amorosa nascerà nel 1935 Orietta, che prenderà il cognome del poeta. Orietta verrà accolta in casa dalla Donetti con tanto amore. Il pittore Domenico Cantatore, amico del poeta, la terrà a battesimo. Tempestosa la relazione amorosa con la bella scrittrice e poetessa Sibilla Aleramo, di 25 anni più anziana del poeta. La contempla un libro, editato da Rizzoli nel 1983, dal titolo Salvatore Quasimodo a Sibilla, con una briosa prefazione di Giancarlo Vigorelli, che pure dice di “altri amori dei due poeti”. Nel libro, una lettera di Quasimodo, spedita a Sibilla il 5 marzo 1935 da Sondrio (una delle sedi di lavoro del poeta geometra), recita nella chiusa:
“E la tua bellezza ha bisogno di amore per restare intatta. Forse mio, completamente mio il tuo cuore! Ti bacio infinite volte, tuo Virgilio”. Quasimodo si firmava con il nome del poeta della latinità Virgilio.
In seguito, dopo la morte della Donetti, il poeta conoscerà la danzatrice Maria Cumani che sposerà nel 1948. Nascerà Alessandro, oggi un geniale attore e regista di teatro. Franato il matrimonio con la danzatrice, un'altra donna, alla quale Quasimodo si lega, definita “l’ultima musa”, si chiama Curzia Ferrari, tuttora vivente, scrittrice, poetessa e saggista, autrice dei titoli Una donna e Quasimodo e Dio del silenzio, apri la solitudine/La fede tormentata di S. Quasimodo. In questo ultimo, “l’ultima musa” parla del poeta “tormentato cercatore di Dio” e del sopraccennato viaggio nell’Ellade con la “stagionata grecista Vassalini”.
Per una donna, di cui non si conoscono le generalità, la moglie di un direttore di orchestra a Sanremo, il poeta viene trasferito da Imperia, dove lavorava al Genio Civile, in Sardegna, a Cagliari. E' stata ricordata quest’altra relazione amorosa il 30 gennaio 2013 su Il Dialogo, in una recensione ad un piccolo saggio di Sergio Di Giacomo, che ha posto in luce di quel periodo cagliaritano un momento creativo sconosciuto di Quasimodo.
Emanuela PianezzolaC’è stato di recente chi, come Emanuela Pianezzola, un’autrice di scritture, riguardanti figure della letteratura, si è occupata di Quasimodo con un suo singolare studio che ha partecipato alla colta rosa umana che affianca, durante gli eventi culturali veronesi, Angiolina Lanza, già titolare di latino e greco presso il Liceo “Maffei” di Verona, dove aveva insegnato la Vassalini.
Del poeta, riguardo alle sue traduzioni dal greco, va ricordato che aveva studiato a Roma la lingua dei greci antichi sotto la guida di monsignor Mariano Rampolla del Tindaro. Con quell’apprendimento conseguito, il poeta si sarà confrontato con la valorosa umanista Vassalini, la quale è autrice dell’introduzione al titolo Fiore dell’Antologia Palatina di Quasimodo, titolo editato da Guanda nel 1958. “Come sempre, Quasimodo prende d’impeto il suo testo: e non importa se, sotto, c’è una lettura attentissima, che non si è lasciata sfuggire nessun valore fonico o lessicale, che ha scavato le parole fino alle radici, per stringerne da presso il più vero
significato, e le ha risillabate nel gioco preciso di lunghi echi ritmici e sonori”, si legge nell’introduzione. La Vassalini è pure autrice del titolo, D’annunzio e Quasimodo ad Atene, in “Quaderni dannunziani, XX-XXI, Gardone, 1961.
Delle traduzioni di Quasimodo, uno dei nostri più grandi grecisti del secolo scorso, Manara Valgimigli, ne parla con vivo interesse in Poeti greci e ‘lirici nuovi’, “La Fiera letteraria”, Roma, 30 maggio 1946, in Del tradurre e altri scritti, Milano-Napoli, 1957, in Traduttori vecchi e nuovi, “Rassegna d’Italia”, Milano, 1946 e in Pascoli, Firenze,1956.
Perché si sappia ancora delle traduzioni del poeta, va ricordato il saggio Salvatore Quasimodo di Michele Tondo, Mursia, 1976. Si legge a pag. 54: “Quanto alla validità e alla modernità delle traduzioni, al di là delle polemiche circa la loro filologica correttezza, direi che il giudizio della critica fu unanimemente favorevole; come fu unanime il riconoscimento che Quasimodo aveva tradotto i greci a sua immagine e somiglianza. Che è poi la traduzione più legittima; ed era quello che consapevolmente aveva perseguito il poeta sin dai primissimi esperimenti: ce lo confermano le lettere alla Cumani del periodo”.
A Verona, Quasimodo compone il testo poetico “Le arche scaligere”, di una ardua creatività.
“(…)torno e saluto la tua arca, Cangrande
della Scala, anche se il tuo corpo intatto
sparì per l’aria e nell’Adige in polvere
viola principesca(…)”,
così, fra l’altro, in poesia, quel signore veronese, presso il quale si era rifugiato l’esule Dante Alighieri. Il testo fa parte della silloge La terra impareggiabile.
La studiosa Pianezzola, si diceva sopra, ha sviluppato un discorso il cui tema recita: “La vita non è un sogno. Quasimodo tra poesia, passioni e silenzi”. Ha contribuito, con una fatica del genere, a rinfrescare la memoria dell’uomo, a studiare la sua poetica, le sue passioni, i silenzi, che possono interpretarsi, più come sospetto che come rispetto, e poi il grande aspetto umano del poeta. Una fatica del genere, la Pianezzola l’aveva eseguito per Giovanni Pascoli.
Riprendendo ancora dal sopraddetto saggista Tondo, si legga la conclusione del suo lavoro che recita: “Anche Salvatore Quasimodo ha dunque testimoniato dei suoi tempi, coi modi che gli erano propri: e non è criticamente fruttuoso, né tanto meno legittimo, istituire paragoni. Sedate le polemiche, dimenticate le debolezze l’impulsività le ingenuità dell’uomo, resta la sua poesia: una voce imprescindibile del nostro Novecento”.
Ed infine, quel Quasimodo in cerca di Dio, si accennava prima, si può tutto evincere dai seguenti sette versi del testo “Avidamente allargo la mia mano” della silloge Acque e terre. Leggiamoli:
“ In povertà di carne, come sono
eccomi, Padre: polvere di strada
che il vento leva appena in suo perdono.
Ma se scarnire non sapevo un tempo
la voce primitiva ancora rozza,
avidamente allargo la mia mano:
dammi dolore cibo quotidiano”.
Ed ancora, il poeta in cerca di Dio, nell’altro testo “Thànatos Athànatos”, testo che induce a riflessioni e a studi, della silloge La vita non è sogno. Qui, Quasimodo, con un’ accorata evocazione, fra l’altro, scrive:
“La vita non è sogno. Vero l’uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine”.
Sebastiano Saglimbeni



Martedì 17 Giugno,2014 Ore: 17:37