FICTION RAI: DON DIANA NON È DON MATTEO

di Sergio Tanzarella

Sono trascorsi vent’anni dall’omicidio di don Peppino Diana, il parroco di Casal di Principe. Su quel delitto da subito cominciarono i depistaggi della camorra e di parte delle istituzioni, per accreditare l’inverosimile tesi del delitto di onore o addirittura di una collaborazione di don Diana con la stessa camorra. Depistaggi amplificati da calunniose campagne di stampa. Rimasero il solo vescovo Raffaele Nogaro e un manipolo di associazioni a difendere la memoria di don Diana.
Solo nel 2004 una sentenza definitiva, condannando esecutori e mandanti, stabilì che l’assassinio era stato eseguito da un gruppo camorristico con l’intento di far cadere la responsabilità su un altro gruppo rivale. Don Diana fu ucciso perché aveva organizzato una seria attività di denuncia dell’illegalità sistemica e di formazione delle coscienze cercando di opporre alla rassegnazione la speranza di un cambiamento delle condizioni di vita nella zona aversana. Di don Diana la Rai ha mandato in onda la fiction «Per amore del mio popolo».
Il film, che nei titoli di coda ricorda essere «liberamente tratto dalla vita di don Diana» – una libertà che va ben oltre la fantasia – è una delle tante occasioni perdute di offrire al grande pubblico televisivo qualcosa di più di una romanzata e prevedibile soap con buona pace della signora Tarantola, presidente della Rai, per la quale con questo film si fa «cultura della comunicazione».
Non si comprende perché si debba ricorrere ad invenzioni di fatti e personaggi quando la storia vera è disponibile ed è molto più interessante di quella inventata. Gli autori di queste fiction sono infatti convinti che bisogna ammannire al pubblico lo spettacolo che si aspetta e che si presume gli piaccia e che questo giustifichi qualsiasi violenza da fare alla storia.
Ma don Diana non è né don Camillo né don Matteo, e questo il produttore, il regista, lo sceneggiatore e l’attore non l’hanno voluto capire, presi a perseguire un successo tanto a basso costo quanto effimero.
C’è da chiedersi, infatti, cosa resta allo spettatore della vicenda di un don Diana decontestualizzato e circondato da personaggi, molti anche inventati, rispondenti a prevedibili cliché. Evidentemente nulla.
Sarebbe certo chiedere troppo ad una impresa commerciale di avere attenzione alla psicologia del protagonista, alla sua formazione e progressiva consapevolezza del ministero di prete, certo è più semplice e comodo raccontare un eroe che un essere umano. La fiction così si sostituisce alla storia perché si ritiene quest’ultima troppo banale e poco spettacolare.
Mi chiedo però se è giusto che il racconto della vita e dell’assassinio di un uomo debba ridursi per forza a spettacolo; se non si possano fare dei film storici che lascino gli spettatori più pensosi che impressionati e appagati.
E la vita di don Diana nella sua quotidiana grandezza può davvero aiutare a pensare, a patto di ricostruire il contesto nel quale operò il giovane prete. Nella fiction c’è un protagonista di plastica e la camorra, ma non manca qualcosa? Davvero la camorra era onnipotente senza complicità e collusioni?
La fiction qui tace e qui dimostra tutta la sua capacità mistificatrice e diseducativa.
Il terzo assente è la politica locale e nazionale che volutamente sottovalutava il problema, che in non pochi casi era alleata della stessa camorra e che comunque era lontana e indifferente. In tutto il film non ve ne è traccia tranne per pochi fotogrammi: un assessore corrotto, troppo poco.
Nulla si dice dell’economia del terremoto del 1980, di una ricostruzione infinita e allargata a tutti, meno sette, i comuni della Campania, di un flusso enorme e continuato per anni di finanziamenti statali per riattare stalle e depositi come case e ville, di abusi edilizi per interi quartieri, di piani regolatori mai realizzati, dello scandalo delle ambulanze, delle cave e del calcestruzzo, di opere pubbliche concesse attraverso gare truccate, di appalti e subappalti ad incredibili ribassi e con costi poi moltiplicati in corso d’opera, di un clientelismo spinto capace di trasformare ogni diritto in un grazioso favore, della occupazione della sanità pubblica a vantaggio di quella privata.
Questo era il contesto con il quale si confrontò coraggiosamente don Diana, un contesto nel quale la camorra era protagonista, ma non da sola. Non ricordarlo è molto grave, come non può essere dimenticato il collateralismo che ancora tra gli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90 pretendeva di presentare l’unità politica dei cattolici quasi come un dogma, era il tempo del dominio dei Cirino Pomicino, dei Gava, degli Scotti, dei De Mita e dell’occupazione di comuni, province e regione Campania. Ecco il contesto degli anni di don Diana. E se qualcosa è cambiato, per nulla trasformate sono le violenze delle campagne elettorali, la pochezza morale e intellettuale di candidati ed eletti, la condizione del mercato del lavoro.
Ora come allora in provincia di Caserta il lavoro nero è una condizione diffusa, nella totale impunità, di cittadini ridotti a schiavi. Solo una antimafia mestierante, celebrativa e televisiva si ostina a farci credere che tutto procede in pienezza. Pronuncia il nome di don Diana come uno slogan e così illude di mantenerne la memoria, ma evidentemente non ha a cuore – come invece fu per don Diana – la giustizia proclamata dai profeti, ma lo stato di cose di un mondo immobile e iniquo.
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Docente ordinario di Storia della Chiesa presso la PFTIM (sez. san Luigi) e l’Università Gregoriana
Articolo pubblicato in “il manifesto” del 23 marzo 2014



Lunedì 24 Marzo,2014 Ore: 17:59