Comunità dell’Isolotto - Assemblea domenica 30 giugno 2019
La memoria e il presente riflessioni sull'oggi attraverso  immagini e  filmati che ci aiutano a ripercorrere la nostra storia

di Comunità dell’Isolotto

La memoria e il presente.
Enzo Mazzi
L'uomo segnato dalla vita ha una memoria da trasmettere. "C'era una volta..." – così incomincia il suo racconto, con lo sguardo interiore rivolto al passato. “C’era una volta”: e si drizzano gli orecchi del cucciolo d'uomo. Mentre il giovane già si volta dall’altra parte, preso com’è dalla narrazione del presente: “c’è oggi” è ciò che lo interessa.
Il bambino è tutt'ora impregnato della memoria generativa che gli ha consentito di venire all'esistenza. "C'era una volta..." è per lui una nenia rassicurante che prolunga la sua permanenza nell'utero; è il richiamo profondo del Dna: catena sterminata di braccia materne protese fin dai primordi verso altre braccia materne; è latte che fluisce dalla fonte della vita, nutrimento d'identità segnata dall'evoluzione e dalla storia, oltre che dall'ignoto (che ognuno può scegliere di chiamare con nomi divini). Il bambino ha un cordone ombelicale da proteggere. Per lui la memoria non può che avere il sapore della favola.
Ma l'alleanza col richiamo profondo del Dna non basta a trasmettere la memoria storica. Ci vuole l'intreccio col presente. Perché il cucciolo divenuto giovane ha da levare l' àncora per protendersi verso l'atto creativo. E' lui stesso utero accogliente, braccia protese, latte che si offre. "C'è oggi...": ecco le parole che il giovane sente sue. Non solo quando realizza se stesso, ma perfino nella smorfia del disgusto e nella depressione della noia. “C’è oggi”: e le energie giovanili si preparano a entrare in movimento.
Trasmettere il testimone del processo storico richiede dunque una sintesi fra memoria e presente, fra racconto e scelte coerenti. La quale sintesi non è affatto scontata né innocua. "Coniugare memoria storica e presente - dice una riflessione compiuta a venti anni dal '68 dalla comunità dell’Isolotto - costituisce una scelta precisa e faticosa. E' un modo d'impostare la vita. Si radica nella fede, in ogni fede. Esige la capacità di avvertire, presente ed operoso, lo Spirito che soffia dove vuole, che assume tanti nomi quante sono le culture, tradizioni religiose, visioni della realtà (...). Il concetto biblico di resurrezione crediamo che indichi proprio questo intreccio fra memoria e presente come fondamento ultimo della realtà e della storia: non seppellire ma far rivivere (...)".

 
I segni dei tempi
C'è un altro concetto biblico che esprime la stessa sintesi: "scrutare i segni dei tempi". E' racchiuso nel simbolo del mandorlo, l'albero vigilante, capace di avvertire per primo i segni della primavera, ansioso di annunciare il risveglio con fiori dal colore dell'alba. Scrutare i segni dei tempi è un gesto che esprime la saggezza della maturità e al tempo stesso la curiosità creativa del neofita. Intreccia il passato e il presente e assapora il futuro.
Scrutare i segni dei tempi è stata sempre una fondamentale linea di ricerca della comunità di base. Per noi, la fede evangelica, da vivere e da spendere oggi in modo credibile, non può che essere ancorata a questa ricerca dei segni che lo Spirito dissemina nella storia attuale.
Fin dalla nascita dell’Isolotto, città nella città, era penetrato dentro ai nostri percorsi innovativi il fermento che faceva lievitare la realtà storica del dopoguerra. La storia dell’Isolotto è storia di tutto un territorio “fuori le mura” che si crea una identità alimentandosi a sorgenti antiche. E’ storia non solo della parrocchia ma di tanti altri poli associativi ugualmente importanti. E’ storia di un quartiere emarginato, discarica sociale, che vive e lotta per creare una nuova identità. Il tutto animato dal bisogno e dalla ricerca concreta di unificazione del mondo sotto il segno dell'arcobaleno, dopo che l'orrendo fungo della bomba aveva imposto l'unità del mondo nel segno della notte senza mattino. C'era la voglia di realizzare e testimoniare un nuovo patto di pace universale che unisse gli opposti attraverso l'unione di infinite sfumature di luce in cui nessun colore prevale.
Per noi, in concreto, negli anni della guerra fredda, arcobaleno significava abbattere le mura della "pulizia ideologica", allargare i pioli della tenda, far posto agli scomunicati, conoscere la cultura operaia, intrecciare una reciproca fecondazione, di culture e di prassi, fra territorio e fabbrica, fra liberazione religiosa e liberazione politica. E la chiesa parrocchiale fu pacificamente occupata dagli operai, comunisti e scomunicati, in lotta per difendere il primato dell’essere umano e del suo lavoro, con il consenso dell'ambiente sociale della parrocchia, fedeli e parroci, sostenuti dall'arcivescovo del tempo.
Arcobaleno era superare il confine di ogni esclusione ed emarginazione e saldare la separazione santi-peccatori, buoni-cattivi, eletti-reprobi. E i locali della parrocchia divennero luogo di riscatto per emarginati, riscatto autonomo, non dipendente dal piegarsi verso il basso di un volontariato segnato dal senso di superiorità e dalla nobiltà del cuore. Il paternalismo c'era, eccome!, controbilanciato però dalla ricerca del suo superamento progressivo in un rapporto di parità reale.
L'acquasantiera ribolliva non per baruffe clericali. Il conflitto penetrava negli spazi sacri quando questi si aprivano alla storia: Vietnam, Cecoslovacchia, Grecia, Spagna, Cile, Ché e Camillo Torres...., sollevazione dei neri d'America, rivolta studentesca, autunno operaio caldo.
Arcobaleno significava ricerca teologica, lettura biblica, catechesi, liturgia, liberate dalla presunzione della superiorità e dalla violenza dell'assoluto, tese ad arricchire il patrimonio multiforme della ricerca umana di verità e di senso.
Finché la cultura dell'arcobaleno arrivò ad incrinare il monolite aprendo fessure nelle quali si produssero germinazioni di straordinaria fecondità: il pontificato di papa Giovanni e il Concilio, il ’68-‘69 e le sue trasformazioni profonde, l’emergere a livello nazionale e mondiale di nuove soggettività politiche capaci di scuotere l’ordine stabilito e di dare gambe all’utopia di un mondo nuovo.
La riconquista della egemonia nella società da parte della reazione fu spietata soprattutto in Italia: riconquista "a tutti i costi" di ogni spazio economico, sociale e politico. Ed ecclesiale. Magistratura piduista, Servizi segreti nazionali e internazionali, neofascismo, Gladio, e nel Meridione perfino la Mafia, alleati fra loro per la riconquista, cercarono il sostegno delle Curie o le ricattarono per normalizzare la Chiesa italiana.
La paura, anzi il terrore, tornò ad imporre l'unificazione della necropoli.
Vennero gli anni ottanta e l'arcobaleno sparì dal cielo di piombo.
Ma non si era affatto annullato. Il processo di unificazione del mondo nel segno della reciproca fecondazione fra diversi, della liberazione e della speranza era piuttosto penetrato in profondità.
Restavano dei segni di resistenza, come focolai di un vulcano apparentemente addormentato.
Segni di resistenza
Fra i segni di resistenza, il "dissenso cattolico": termine improprio che colora di negatività e contrapposizione esperienze segnate invece tutt'ora da creatività costruttiva.
A parlar di "dissenso", l'impressione che si ha è di esser fuori moda. Oggi è tempo di restaurazione, non di dissenso. Le questioni emergenti sono tutte interne alle stanze dei bottoni: non riguardano più i conflitti fra la base della società e i vertici, non interessano la dialettica masse-potere; sono scontri fra poteri diversi.
Del resto non c'è tempo per reali dissonanze. La velocità con cui procede il cambiamento è tale da stritolare in breve ogni "anomalia". La coscienza critica e la creatività costruttiva sono un lusso o al più un sospiro fra un'esplosione e l'altra del bombardamento quotidiano di emergenze di ogni tipo. Un ambito di ricerca, un documento, una manifestazione, una lotta sono ancora possibili e perfino tollerate, purché tutto si chiuda lì. Niente agganci al passato, niente sogni di prospettive future: agganci e sogni sono considerati rigurgiti della ideologia.
Il pensiero deve essere "debole".
Partiti, sindacati, istituzioni, chiese sono tutti investiti da questo rullo compressore.
Se la situazione reale corrispondesse davvero alle apparenze, non resterebbe che fare il funerale del dissenso.
In realtà il dissenso non si misura sui tempi dell'emergenza e della moda: ha bisogno di tempi lunghi e di costanza.
Gandhi chiedeva "mille anni" perché la non-violenza diventasse evidente per tutti. L'Inghilterra per diventare una nazione ha fatto la guerra dei "cento anni" - egli diceva -; noi per fare la nuova India, anzi l'umanità nuova, abbiamo bisogno di una guerra pacifica di almeno mille anni.
E Gandhi i mille anni li avrà, perché la realtà può essere vista anche da una prospettiva diversa anzi rovesciata e l'attuale restaurazione può esser considerata come una veloce fluttuazione all'interno di un processo di crescita delle coscienze che viene da lontano ed è destinato a lunga vita.
Un alimento fondamentale di una tale crescita è l’intreccio fra la memoria e il presente che dà alla storia il senso di un processo unitario, i “mille anni” appunto.
La memoria unitaria dei “mille anni” di Ghandi
Non a caso la memoria unitaria della storia come processo è il grande nemico del liberismo mercantile e della religione del danaro, forse l’unico vero nemico rimasto in piedi. Annullare la memoria unitaria è perciò un obiettivo primario dei poteri del dominio mondiale. E la strategia per tale annullamento della memoria unitaria è la disarticolazione. Disarticolare la memoria per annullarla è una delle condizioni fondamentali dell'affermazione planetaria del liberismo mercantile globale. Il mercato ha vinto la battaglia tecnologica, politica e finanziaria. I centri che sono in grado di prendere le decisioni che contano si riducono ormai a poche istituzioni finanziarie mondiali senza patria. L’unico intralcio rimasto in piedi è la memoria.
Per la strategia liberista, la gente deve dimenticare il suo passato sociale e ripartire da zero per una esistenza senz'altro ideale e identità che la religione del danaro. Sono da seppellire le aspirazioni condivise di una vita felice per tutti senza confini, il senso di compiutezza umana provato nel lottare insieme per la giustizia, lo stupore sempre rinnovato nello scoprire che il proprio vissuto sociale ha una diffusione planetaria, la consapevolezza della consonanza profonda e dell'intreccio tra le grandi esperienze storiche dell'umanesimo sociale di tutti i tempi tipo l'esperienza generativa del Vangelo e delle altre esperienze spirituali e religiose nella loro genuinità originaria, prima che si piegassero alle esigenze del potere, genuinità che si è tramandata per lo più sotterraneamente nella storia, la constatazione che la fatica e il sangue versato sono seme e nutrimento, la speranza contro ogni speranza, l'esperienza che il pane condiviso è pane moltiplicato e fonte di vita per tutti. L'evoluzione liberista esige che la memoria di tutto questo sia annullata. Se ciò accadesse, sarebbe il disastro totale. Perché il pianeta non è in grado di reggere la guerra liberista di tutti contro tutti, né sul piano economico né ecologico né psicologico-sociale. Per questo è importante valorizzare e difendere la memoria.
Disarticolare la memoria vuol dire trasformare il processo storico in un insieme scoordinato di fatti separati fra loro. La resistenza, ad esempio, deve essere considerata come un episodio a sé, quasi senza passato e senza futuro. E in quanto episodio può essere considerata alla stregua di altri episodi del "mucchio" dei fatti storici. In tale logica l'adesione alla resistenza e l'adesione di "tanti giovani" alla Repubblica di Salò sarebbero due episodi diversi ma analoghi, specchio l’uno dell’altro, da valutare quasi con distacco per giungere alla pace sociale. E così il processo di umanizzazione sociale scompare per far posto a un indistinto divenire storico senz’anima, in cui tutte le vacche sono grigie. E la memoria è trasformata in ricordo, magari in nostalgia, come la foto del caro estinto posta sulla sua tomba, accanto alla tomba del suo avversario, nello stesso cimitero.
Il liberismo si nutre di tale disarticolazione della memoria. Perché è creatore di società-necropoli. Ha bisogno di produttoriconsumatori senza identità sociale.
Riaggregare i singoli frammenti della memoria è il compito che abbiamo davanti.
Ogni frammento deve riconoscersi come tale perché nessuno "possiede" la memoria complessiva. E riconoscendosi come frammento può intrecciarsi con gli altri, convergere e al contempo sentirsi valorizzato. E’ così che si realizza la resistenza della memoria.
Ognuno deve fare la sua parte in questa creazione e vivificazione della memoria.
La Comunità dell'Isolotto ha avvertito da sempre l'esigenza di contribuire a questa memoria unitaria dell'umanesimo sociale. Il primo e più importante contributo è di vita concreta, coerenza di scelte, continuità di esperienza. Ma c'è anche il contributo di documentazione, affinché nessuna briciola si perda. Per questo sta realizzando l’Archivio storico.
Il percorso del nostro Archivio è però un sentiero stretto attraverso le ambiguità insite nella memoria, ambiguità che del resto sono presenti in ogni aspetto della realtà.
Prima ambiguità: la memoria tende ad aprire la storia, gli dà continuità e spessore, offre l’orientamento, alimenta il senso della vita; al tempo stesso però la memoria tende a imbalsamare la storia e la vita, crea grandi monumenti che nutrono il sogno d’immortalità, mitizza fatti, persone, cose, sottraendole al flusso vitale e ipotecando attraverso i miti il futuro. Assolutizzare le tradizioni, imbalsamarle in dogmi senza storia, seppellirle in riti senza eventi, irrigidirle in norme morali spietate come il processo di putrefazione, non è altro che fare alleanza con la distruttività.
Seconda ambiguità: la memoria traduce la storia nel linguaggio e nell’immaginario dell’oggi rendendola fruibile, ma al tempo stesso la tradisce perché dà per scontato che la sua traduzione sia una specie di resurrezione dei fatti mentre è sempre solo la loro rappresentazione.
Terza ambiguità: la memoria ha sempre un contenuto di liberazione perché è solo ricordando che si può elaborare in positivo il lutto, si può superare la paura, si possono volgere in positivo i conflitti, si può dare senso e forza alla lotta per la pacificazione nella giustizia; mentre l’oblio offre solo illusioni, fascia le ferite rendendole invisibili, ma produce cancrene profonde. Al tempo stesso però la memoria ha in sé un limite che la rende facilmente strumentalizzabile: non si ricorda mai tutto ma solo ciò che ci serve. E’ su questo limite che il sistema del dominio epoca per epoca seleziona la memoria sociale e anche personale piegandola alle proprie esigenze di potere, imponendo solo la trasmissione dei fatti funzionali al potere stesso.
L’Archivio nostro oltre a dover affrontare le sfide poste da queste contraddizioni deve anche confrontarsi con le contraddizioni proprie della Comunità.
Una fra tutte: la tensione fra creatività e conflitto. Tutti i processi di trasformazione profonda vivono una tale tensione. Il nuovo che nasce è sempre avvertito come destabilizzante per le abitudini consolidate, per i ritmi consueti, per le sicurezze acquisite. Produce reazioni di difesa. I sistemi di dominio si sentono minacciati e sfruttano paure e angosce alimentando e infuocando il conflitto, sia il conflitto personale, interiore, quello che viviamo dentro fra vecchio e nuovo, sia il conflitto sociale e politico. La realtà nuova è sottoposta a una grande tensione: può affrontare il conflitto arroccandosi in una reazione di fanatismo e al limite tentando di rispondere alla violenza con altrettanta violenza o al contrario arrendendosi e spengendosi. E la memoria è in pieno dentro tale tensione, pressata fra due poli: la mitizzazione del nuovo e l’oblio. Ambedue sono sbocchi distruttivi.
Una terza possibilità è la gestione positiva del conflitto che porti al superamento delle paure e conduca a una serena accettazione del nuovo. La memoria è indispensabile anche per questa terza opzione. E’ significativa una affermazione di Paolo Prodi, professore di storia moderna all’Università di Bologna, in un Convegno sulla creatività che si è svolto qui a Firenze nel 2004: “La creatività della storia non consiste nella ricostruzione del passato ma nel liberarci dall’oppressione del presente, nel conoscere le molteplici e intricate strade che abbiamo percorso: questo ci aiuta a capire dove stiamo andando e almeno ci dimostra che domani saremo ancora diversi”. La memoria dunque come aiuto ad accettare il più serenamente possibile la trasformazione come condizione perenne, compresa la trasformazione estrema della finitezza della esistenza, quella che si chiama morte, sia quella personale sia quella delle costruzioni umane con le quali tentiamo e c’illudiamo di sopravvivere.
Ma è un sentiero molto stretto e aspro.
L’Archivio nostro è nato, si è sviluppato e vive nel tentativo di trovare un tale passaggio.
DOPO LE RELIGIONI
PER UN NUOVO PERCORSO DI RICERCA SUL SIGNIFICATO DI ESISTERE
Gruppo Inedito Cammino
1. Uno degli elementi che contraddistingue la specie umana, fin dalla sua comparsa sulla terra, risiede nella ricerca di un senso da assegnare al proprio vivere e morire. Si può dire che questa dimensione sia un tratto specifico di tutta la condizione umana. In fondo siamo animali che, sebbene abbiano sviluppato un potere pressoché smisurato sul mondo naturale, sono costantemente riportati alla propria vulnerabilità e finitezza. Da qui la domanda di senso.
2. Ma accanto alla fragilità c’è una spinta, un’energia interiore che ci conduce a pensare e ad agire. E, nonostante ripetuti e continui sforzi, facciamo fatica a inquadrare e a controllare tale forza, che ci precede e ci eccede. Ci muoviamo per tentativi ed errori. La domanda di senso viene così continuamente reiterata e riformulata.
Non solo. Tale domanda di senso in molti contesti è stata una domanda radicale; vale a dire, pur riconoscendo la condizione particolare e soggettiva da cui nasceva e prendeva forma, ha cercato di risalire alla radice di tutto il nostro vivere e morire. Sintetizzando, possiamo dire che la radicalità di questa domanda è stata per secoli appannaggio, pressoché esclusivo, delle religioni, le quali si sono assunte il ruolo di custodi esclusive della ricerca. Alle domande seguirono le risposte; le risposte divennero dogmi; i dogmi, formulati con un linguaggio metafisico, divennero norme indiscutibili (il cui disconoscimento ha potuto condurre, per secoli, alla galera e perfino alla morte).
3. D’altro canto è ormai luogo comune riconoscere la crisi in cui versano le istituzioni religiose, soprattutto nel cosiddetto primo mondo (Europa e Italia incluse, dunque), anche se alcuni avvenimenti di rilevanza pubblica e spettacolare vorrebbero dimostrare il contrario. E’ sufficiente consultare alcuni dati statistici. Sembra che sia in corso un nuovo esodo costituito da una moltitudine di soggetti che a vario titolo non si riconoscono più nelle varie Chiese: perplessi, scettici, scontenti, agnostici, atei e altro ancora. Parliamo di molti uomini e donne che, magari in forma confusa e poco articolata, cercano fuori dai recinti delle Chiese luoghi ove poter formulare in piena libertà le proprie domande. Non solo: parliamo di molti uomini e donne che non sono disposti a cedere sull'assecondare i riti di una nuova religione globale e oggi veramente dominante: quella del mercato, del denaro, del capitale.
4. A questo proposito c’è chi parla della necessità di una ri-evangelizzazione per i nostri tempi, coniugata con un rinnovamento sul piano teologico (ad es. si veda il dibattito in corso sul post-teismo nato per lo più in ambito protestante, che sta muovendo i primi timidi passi anche nel mondo cattolico), giocando anche sulle aperture che l’attuale pontificato consente. Qui, al contrario e senza nulla togliere alla serietà e all’impegno di chi percorre vie più tradizionali (e alle testimonianze positive che comunque il passato ha trasmesso fino a noi), secondo noi i segni dei tempi sollecitano altra direzione: seguire, assecondare, prendere parte viva a questo esodo, fino in fondo.
5. In questo senso condividiamo le analisi compiute da alcuni autori (come ad es. J.M. Vigil): le istituzioni religiose sono uno degli esiti della rivoluzione neolitica e delle civiltà monumentali (quindi un prodotto relativamente recente rispetto alla storia dell’essere umano); esse hanno svolto un ruolo fondamentale in diverse epoche, ma, come ogni fenomeno storico, dopo una fase aurorale, dopo quella dello sviluppo e della maturità, si stanno incamminando verso uno stadio crepuscolare, declinante. Noi stiamo vivendo questo passaggio, vi siamo immersi.
6. Parlare di una fase declinante delle istituzioni religiose non significa però liquidare quella domanda di senso radicale che l’esperienza religiosa racchiude (ad es. molte delle persone che oggi in Europa si dichiarano non-religiose, affermano comunque di credere che esista una sorta di spirito o forza vitale).
Come si è già detto, l’essere umano che noi tutti siamo, quello che gli scienziati chiamano homo sapiens sapiens, ha una vita assai più antica di tutte le grandi civiltà del passato con le loro religioni. Così come è esistita, in un remoto passato, una religiosità prima delle religioni, oggi i tempi sollecitano una riflessione su una religiosità dopo le religioni. L’attuale società della conoscenza e dell’informazione, globalizzata e post-industriale, sembra che stia sollevando queste domande. Noi vogliamo essere parte integrante di questa ricerca. Stiamo muovendo i primi passi lungo un cammino per lo più ancora inedito. Non si tratta di liquidare le importanti testimonianze del passato, ma di leggerle e praticarle alla luce delle acquisizioni e della sensibilità della cultura del tempo in cui viviamo.
7. Dinanzi a ciò ci interessa non solo la teoria ma anche la pratica. Ci interessa la sfera interiore quanto quella esteriore. Riteniamo infatti che sia stato un errore avere dissociato la dimensione spirituale da quella politica, laddove entrambi sono elementi che partecipano alla medesima esperienza di vita (e non è un caso se A. Potente ha avvertito la necessità di coniare il termine misticopolitica). Per realizzare tutto ciò vogliamo mettere al centro della nostra esperienza la dimensione della relazione e della condivisione. Non siamo interessati solamente a compiere approfondimenti intellettuali, che oggi si rendono necessari nella fase storica che stiamo vivendo, ma vogliamo poter riversare nella pratica e nel sociale il nostro sentire, attraverso momenti comunitari e di condivisione che possano aprirci a orizzonti esistenziali più aperti e più intensi.
8. Abbiamo il desiderio di incontrarci fin da subito con chi si riconosce nelle linee generali del presente scritto, per verificare la possibilità di costruire momenti di incontro in cui scambiare esperienze e speranze. Siamo convinti che siano maturi i tempi per dare vita a qualcosa di radicalmente nuovo. Lo ripetiamo: stiamo muovendo i primi passi lungo un cammino inedito, tutto da costruire. Facciamolo insieme!
IL CRISTIANESIMO CHE VERRÀ: AL DI LÀ DI DOGMA, DOTTRINA E RELIGIONE
Oltre il teismo verso nuove immagini di Dio
John Shelby Spong
Adista Documenti n° 23 del 22/06/2019
Fu per me un momento piuttosto insolito. Mentre sbrigavo i miei compiti in una delle chiese della nostra diocesi, una semplice laica si avvicinò a me e chiese: «Vescovo, è possibile essere cristiani senza essere teisti?». La sua domanda m’impietrì. Le persone di chiesa di solito non fanno questo genere di domande. La maggior parte delle volte formulano la domanda in modo tale che la risposta rafforzi o affermi ciò in cui già credono. Questa donna, invece, stava varcando i confini del consenso istituzionale, apparentemente pronta a inoltrarsi verso qualche altra possibilità. Inoltre, mi stava presentando in un luogo pubblico, proprio la questione che il mio studio mi stava obbligando a prendere in esame.
Se solo riuscissimo a mettere da parte il teismo, allora altre vie per esplorare Dio si aprirebbero davanti ai nostri occhi. (...) Se le analogie umane proiettate verso il cielo sono finite in bancarotta, allora forse dovremmo prendere in esame quegli aspetti dell’esperienza umana in cui ci sentiamo spinti ad avventurarci oltre i normali limiti o verso nuovi orizzonti. Forse possiamo esprimere l’esperienza cristiana con immagini non teistiche. Vale certamente la pena di provare.
Molte fonti della storia umana c'incoraggiano a esplorare questa nuova strada. La tradizione buddista, per esempio, non è una religione teistica. Da nessuna parte, nel buddismo classico, s'ipotizza l’esistenza di una divinità esterna. Quando i buddisti fanno esperienza, nella meditazione, della beatitudine o della trascendenza, non attribuiscono questo al contatto con il soprannaturale. Essi presuppongono che tali stati siano naturali per l’umanità e possano essere appresi da chiunque viva rettamente e apprenda le adeguate tecniche spirituali. Fare esperienza della beatitudine comporta lo svuotamento dell'io in modo da superarne i limiti sia della soggettività sia dell'oggettività per essere Uno con l’Essere stesso, che i buddisti descrivono senza tempo e non creato. Tuttavia, difficilmente sarebbe corretto affermare che i buddisti sono atei, a meno che l’ateismo possa essere definito come qualcosa di profondamente religioso.
Durante la mia visita in Cina di alcuni anni fa, ho avuto l’esperienza di condurre un dialogo interreligioso in un tempio buddista con un monaco e sant’uomo chiamato il Venerabile Kok Kwong. Esplorare il terreno delle fonti della santità di un’altra persona e permettere a lei di esplorare la mia, è stata una commovente e profondamente vera esperienza spirituale. (...). I buddisti credono chiaramente in Dio, ma non in una divinità che sia definita in termini teistici. Esplorare i livelli di significato che si possono trovare in una tradizione di fede orientale può aiutarci a imparare ad avere uno sguardo che attraversa parole così limitate come teismo. Rivela pure che le nostre antiche definizioni occidentali di Dio non esauriscono la realtà di Dio.
Ricordiamo, inoltre, che a Socrate venne fatta bere la cicuta, finché non lo raggiunse la morte, perché anche lui fu giudicato colpevole di essere ateo. Chiunque legga Socrate oggi sa quanto profondamente ignorante fu ed è tale giudizio. Socrate aveva una visione diversa. Vedeva la realtà di Dio attraverso lenti diverse, che le menti ristrette del suo tempo non hanno saputo abbracciare. Le divinità popolari dell’Olimpo non erano semplicemente abbastanza grandi o abbastanza vere per sopravvivere alla transizione da un’età a un’altra del genere umano. Così Socrate disse no a queste divinità e iniziò a esplorare nuove possibilità. Ciò gli costò la vita. Oggi però, circa 2400 anni dopo, è diventato un modello per i credenti che rifiutano il contenuto tradizionale di Dio senza rifiutare Dio.
Karen Armstrong, nel suo acuto libro A History of God, ha dimostrato che ebrei, cristiani e musulmani furono tutti a loro volta accusati di essere atei quando le loro idee iniziarono a sfidare la sapienza religiosa popolare della loro epoca. È piuttosto tipico delle persone religiose trasformare in idoli le parole religiose. Forse nella loro ricerca di sicurezza, essi identificano il loro concetto di Dio con Dio. Quando questo concetto viene messo in discussione, pensano che Dio venga messo in discussione. Ecco perché nessun concetto di Dio può essere più di un limitato costrutto umano, e le parole che personalizzano Dio, dobbiamo imparare ad ammettere, non rivelano Dio ma il nostro stesso desiderio. Quindi, i credenti in esilio sono costretti ad affrontare oggi il fatto che tutte le Bibbie, i credo, le dottrine, le preghiere e gli inni non sono altro che artefatti religiosi creati per permetterci di parlare della nostra esperienza di Dio in un punto precedente della nostra storia. Ma la storia ci ha spinti in un luogo dove il contenuto letterale di questi artefatti è interamente senza senso, le definizioni tradizionali inefficaci e i simboli non più appropriati indicatori della realtà. Parte della natura dell’esperienza di esilio è di segnare l’ora della morte di Dio per come l’abbiamo conosciuto. L’angoscia dell’esilio è dovuta al fatto che nella storia umana nessun concetto morente di Dio è mai stato poi risuscitato. Il teismo, come modo di concepire Dio, è diventato palesemente inadeguato, e il Dio del teismo non solo sta morendo, ma è anche probabile che non possa essere riportato in vita. Se la religione del futuro dipenderà dal mantenere in vita le definizioni del teismo, allora il fenomeno umano che chiamiamo religione sarà giunto alla fine. (...). «Si può essere cristiani senza essere teisti?» diventa quindi una domanda decisiva.
Il Dio adorato dagli ebrei prima del loro esilio babilonese non era lo stesso Dio che scaturì dall’esilio. (...). Gli ebrei uscirono da Babilonia come persone di fede, con un Dio che era stato trasformato rispetto alla divinità tribale del passato d'Israele. Possiamo noi uscire dal nostro esilio con un Dio trasformato rispetto ai concetti teistici dell’antichità? Questa sembra essere l’unica nostra strada che abbiamo davanti. Può Dio essere reale sebbene non situato in un luogo esterno come un essere soprannaturale? Può Dio essere reale se non è un’entità divina che possa essere invocata per venirci incontro nei momenti di bisogno? Può Dio essere reale se tutte le immagini di Dio come un super-genitore, e quindi come una divinità personalizzata, venissero scartate?
Non "chi", ma "cosa"
Per andare oltre queste definizioni, è necessario porre le domande religiose senza pretendere di avere una fonte divina di rivelazione, bensì guardando l’esperienza umana in un modo diverso.
(...). Esiste, ci chiediamo ora, una dimensione profonda della vita che sia, in ultima analisi, spirituale? Se è così, di cosa si tratta? C’è un nucleo sia della nostra vita sia della vita del mondo che in qualche modo ci leghi a una presenza che chiamiamo «trascendente» e «oltre», e che, ciononostante, non sia mai lontana da ciò che siamo e da ciò che è il mondo? Se è così, di cosa si tratta? C’è una presenza nel cuore della nostra vita che non possa mai essere invocata come un essere ma alla quale, tuttavia, si possa accedere come a una realtà divina e infinita? Se è così, di cosa si tratta? Se potessimo aprirci a una realtà di questo genere, diventare intensamente consapevoli di essa e avere sia il nostro essere sia la nostra coscienza ampliati da essa, potremmo usare la parola Dio per descrive quel modo di essere? Potrebbe essere ugualmente una presenza profonda anche se non fosse definita come una presenza esterna? Alcuni sicuramente sosterranno che si tratta solo di un gioco di parole, dal momento che è così in contrasto con i concetti religiosi tradizionali, tuttavia sostengo che queste domande potrebbero aprirci una strada verso un’esperienza di Dio oltre l’esilio. Credo che questa sia almeno una strada meritevole di essere esplorata. È anche una strada che è sempre stata presente come una sorta di rapporto di minoranza nella storia religiosa, se uno sa come cercarla.
Una antica parola ebraica per Dio, ad esempio, era ruach. Letteralmente, questa parola significava "vento", un concetto naturale e persino impersonale. Il vento o ruach veniva osservato non come un essere, ma come una forza vitalizzante. Non aveva né confini né una destinazione riconoscibile. Tra gli ebrei si diceva che il ruach o vento di Dio si fosse librato sul caos nella storia della creazione al fine di generare la vita. Lentamente questo ruach si è poi evoluto e si è personalizzato e venne chiamato Spirito. Ma è importante notare che in origine ruach era una forza di vita impersonale, un’esperienza di «cosa», non di «chi». Il ruach o vento di Dio non era esterno. Era emerso piuttosto dall’interno del mondo ed era inteso come il suo stesso fondamento, la sua realtà vitale.
Questo ruach era anche pensato in qualche modo connesso al nephesh o respiro umano. Anche questo era ed è un concetto impersonale. Il respiro è una forza che sgorga da dentro ognuno di noi ed era concepito in un certo senso come identico alla nostra vita.
Ancora un’altra immagine impersonale di Dio, che si trova nelle Scritture ebraiche, era contenuta nella parola roccia. Sicuramente non si può concepire un’immagine meno personale di una roccia. Eppure troviamo nel libro di Samuele la frase: «Non c’è roccia come il nostro Dio» (1Sam 2,2), e l’aspetto roccioso di Dio era celebrato nelle Scritture ebraiche. Il Salterio proclama: «Signore, mia roccia, mia fortezza» (Sal 18,3); e più avanti: «Chi è roccia, se non il nostro Dio?» (Sal 18,32). Paolo addirittura chiama Cristo la roccia dalla quale gli ebrei bevvero l’acqua durante gli anni nel deserto (1Cor 10,4).
Se qualcosa di così impersonale come il vento, il respiro o la roccia poteva essere usato dai nostri antenati per concepire Dio, allora sicuramente dovremmo essere più coraggiosi e uscire dalle nostre immagini personalistiche e iniziare a elaborare nuovi significati e figure retoriche radicalmente diverse nella nostra ricerca di Dio.
In altre parole, gli antichi quasi intuitivamente riconoscevano i gravi limiti dei loro concetti teistici di Dio. Era come se conoscessero la loro inadeguatezza e improprietà ma non sapessero bene cosa fare al riguardo. Agli ebrei fu vietato, per esempio, pronunciare il sacro nome di Dio. (...). I musulmani, per la stessa ragione, non erano autorizzati a rappresentare il Divino in qualunque modo visivo. Si pensava che tali rappresentazioni fossero troppo limitanti.
I mistici di ogni tradizione religiosa hanno sempre gridato contro ogni specifica definizione di Dio. (...). Il misticismo presuppone che tutta la creazione sia alla fine in grado di rivelare il divino dal più profondo del proprio essere. Quindi per il mistico, il Dio di una persona non è mai identico al Dio di un’altra persona. (...). Ogni persona è chiamata al viaggio nel mistero di Dio lungo il percorso della propria personalità in espansione. Ogni persona, perciò, è ritenuta in grado di essere una ruach un segno della presenza di Dio, ma nessuna persona, istituzione o forma di vita può esaurire questa rivelazione
Oggi i critici appartenenti ai sistemi ecclesiastici tradizionali del mondo occidentale sono pronti a definire e a respingere queste idee mistiche quasi universali come «panteismo», ossia l’affermazione che Dio non è altro che la somma di tutto ciò che è. Se sono leggermente più sofisticati, lo chiamano «panenteismo», l’affermazione che Dio è in tutte le cose, ma non è necessariamente la somma di esse. (...). Per il mistico, tuttavia, Dio non è da identificare con ciò che è; piuttosto, tutto ciò che è diventa la fonte attraverso la quale può essere visto il Dio ultimamente vero. Dio, per i mistici, si trova nella profondità della vita, mentre lavora negli esseri di questo mondo e attraverso di loro, chiamando l’intera creazione, che rivela il nostro potenziale più profondo, alla trascendenza. Si tratta di un concetto di Dio più facilmente avvicinabile, credo, se ci spostiamo dalla domanda «chi» alla domanda «cosa», e poi da ciò che percepiamo sia Dio a ciò che è la nostra esperienza di Dio.
L'esperienza di Dio in tempi di esilio
Il mondo della teologia accademica professionale è diventato consapevole della propria schiavitù nei confronti dei concetti teistici del passato, che non hanno più potere o significato. Almeno dal XIX secolo i teologi cristiani di frontiera hanno cercato di liberarsi dal morente Dio teistico. (...).
La fine del teismo iniziò con il collasso del letteralismo biblico in Germania, nei primi anni del 1800. Dagli studi biblici, passò agli scritti teologici, quando fu evidente che le dottrine teologiche dell’antichità non potevano più basarsi sui testi letterali che un tempo le tenevano salde. Rudolf Bultmann, probabilmente il più importante studioso del Nuovo Testamento del secolo scorso, portò questo studio a una maggiore intensità rendendoci consapevoli che tutti i materiali del Vangelo sono racchiusi nella mitologia dell’antichità e che, pertanto, non possono essere presi alla lettera. La comprensione teistica di Dio era parte di questa mitologia. Bultmann però suggerisce che se potessimo demitizzare quei testi potremmo ancora trovarvi le intuizioni di una verità salvifica.
Alfred North Whitehead, che iniziò la sua vita professionale come matematico, espose il quadro teologico per percepire Dio non solo come un essere esterno ma come un processo divino che viene in essere all’interno della vita di questo mondo. (...). Questo Dio era, per Whitehead, la fonte costante di tutte le possibilità. La scuola di pensiero conosciuta come teologia del processo deve a Whitehead il merito di questa idea radicale, sulla quale si basava.
Dietrich Bonhoeffer richiamò il mondo verso qualcosa che lui nominò «cristianesimo non religioso» e suggerì, dalla sua prigione nella Germania nazista, in attesa dell’esecuzione come traditore del Terzo Reich, il bisogno di vivere in questo mondo «come se Dio non ci fosse». (...).
Paul Tillich, mio maestro ed egli stesso un rifugiato dalla Germania nazista, scrivendo nei lontani anni Trenta e Quaranta del novecento, suggeriva di abbandonare le immagini di altezza esteriore con cui il Dio teistico era stato storicamente percepito e di sostituirle con immagini di profondità interiore di una divinità che non è separata da noi ma che è il nucleo e il fondamento di tutto ciò che è. Questo Dio non sarebbe un potere teistico, un essere tra gli esseri, della cui esistenza potremmo dibattere. Questo Dio non sarebbe il tradizionale divino facitore di miracoli e magie, il distributore di ricompense e punizioni, benedizioni e maledizioni. Nemmeno, questo Dio, sarebbe il capriccioso super-genitore celeste che ci consolava, ascoltava le nostre grida e diventava il terrestre Signor tappabuchi per alcuni mentre lasciava altri a sopportare il loro dolore fino alla fine in un mondo radicalmente ingiusto.
Il Dio al quale Tillich faceva riferimento era l'infinito centro della vita. Questo Dio non era una persona ma, piuttosto, secondo le intuizioni dei mistici, questo Dio era la presenza mistica in cui ogni personalità poteva fiorire. Questo Dio non era un essere ma, piuttosto, la forza che chiamava l'essere in ogni creatura. Questo Dio non era una forza personale ed esterna che poteva essere invocata, bensì una realtà interiore che, quando sperimentata, ci apriva al significato della vita stessa.
Per Tillich, non esisteva la possibilità d’implorare un potere esterno a servizio delle nostre esigenze. Piuttosto, si sperimentava una crescente consapevolezza del Fondamento dell’essere e del proprio rapporto con tutti coloro che pure condividevano quell’infinito e inesauribile fondamento. Tillich pensava che la parola Dio fosse stata catturata, corrotta e distorta dalle morenti immagini esterne del consenso teologico teistico di ieri. Era convinto che quelle immagini dovessero morire prima che la parola Dio potesse essere usata di nuovo con significato. Esortò a una moratoria sull’uso della parola Dio per almeno cento anni. Ma questa esortazione non ha avuto seguito. I discorsi su Dio abbondano, e molti di essi sono ancora teistici. C’è qualcosa però di tipicamente diverso nel parlare di Dio quando si è in esilio. In questo periodo di esilio tutte le idee di Dio sono aperte al dibattito. (...).
Dio è sempre stato identificato con ciò che dà vita. (...). Dietro (...) il contenuto di ogni immagine di Dio c’era il significato di Dio come datore di vita, fonte della stessa vitalità. Perciò Tillich invitava i suoi lettori a esaminare l’esistenza e a scoprire cos’è che chiama le persone alla vita e, una volta individuato, a riconoscerlo come una manifestazione del divino se non la fonte divina stessa.
Un nuovo programma per la vita religiosa
Ad alimentare questo punto di vista teologico hanno contribuito anche intuizioni provenienti dalle nuove scienze psicologiche. Fra queste intuizioni troviamo la considerazione che l’amore è anche fonte e creatore di vita. Senza l’amore noi esseri umani avvizziamo. (...). L’amore apre l’intera creazione alla vita e invita tutte le cose a essere. A livello umano, l’amore è la forza fondamentale che approfondisce i nostri rapporti e, allo stesso tempo, espande la nostra propria umanità. Quanto più l’amore ci rende liberi di essere noi stessi, tanto più siamo capaci di dare la nostra vita agli altri. (...). Quanto più esploriamo le profondità della vita, tanto più scopriamo che la vita è interdipendente, interconnessa e indivisibile. Al centro dell’essere umano non esistono cose come la separazione e la solitudine. Ognuno di noi partecipa integralmente di un complesso organismo vivente, i cui elementi costitutivi muoiono e nascono in ogni istante del tempo. Eppure ogni parte di questa totalità viva partecipa all’eternità dell’essere unita a un fondamento ultimo di ciò che lentamente ma sicuramente potremo un giorno imparare a chiamare Dio.
La chiamata quindi di questo Dio interno che troviamo nelle nostre profondità diventa innanzitutto una chiamata a essere. È una chiamata che non ha nulla a che vedere con la religione in sé. È una chiamata che rimette a fuoco ciò che è conosciuto come la dimensione religiosa. Il compito della Chiesa, per esempio, diventa meno quello d’indottrinare o di mettere le persone in relazione con un potere divino esterno e più quello di fornire opportunità alle persone di toccare l'infinito centro di tutte le cose e di crescere in tutto ciò che sono destinate a essere. In questo modo potrebbero scoprire che nella loro stessa personalità il Santo Dio, che è il Fondamento del loro essere, si rivela come qualcosa di diverso dal Dio teistico del passato.
(...). Questo modo d’intendere Dio aggiunge qualità alla vocazione della Chiesa, quella di opporsi a qualsiasi legame che ci vincoli a qualcosa di meno della piena espressione della nostra umanità.
(...). Con questa nuova visione di Dio, compare allora un nuovo programma per la vita religiosa.
Questo programma non è agevole per tutti. La domanda sempre posta da coloro che non riescono a intravedere Dio se non in categorie teistiche sovraumane è se una visione di Dio come il Fondamento dell’essere non sia impersonale, un «esso» al posto di un «tu». A loro sembra un declassamento del sacro. Certamente molto della natura confortante del Dio teistico del passato non è presente in questo concetto. È difficile pregare in modo tradizionale il «Fondamento di tutto l’essere». Non c’è, in questo nuovo modo di pensare Dio, nessuna delle motivazioni esterne per essere buoni o fedeli al culto che era parte del Dio del passato. Il cristianesimo istituzionale perde il potere derivato da un Dio esterno che giudica e che impone motivanti ricompense e punizioni sulla base di quel giudizio. (...). Questa presa di coscienza potrebbe servire a riportarci al credo originario dei cristiani. Era di tre semplici parole: «Gesù è il Signore». Tutti gli altri credo non erano altro che un commento a queste tre parole e furono concepiti per servire i bisogni del potere istituzionale della Chiesa, che si autodefiniva come la fonte di tutta la verità, e destinati a escludere coloro che rifiutavano di assoggettarsi all’autorità ecclesiastica.
Soprattutto, questa visione di Dio solleva una domanda fondamentale anche per i credenti in esilio. Il Fondamento dell’essere è reale, o è un’astrazione filosofica che serve solo per attutire il nostro risveglio nella radicale solitudine di vivere in un mondo senza Dio? Sicuramente quell’obiezione sarà sollevata dagli spaventati difensori del teismo. Essi potranno anche chiedersi se si può trovare significato nella vita una volta accantonato l’apparato teologico del passato. Si chiederanno se vi è alcuna base per il comportamento morale in tale visione di Dio. Senza una istituzione religiosa che controlli il comportamento, riterranno che la civiltà affonderà nell’anarchia morale, dove la forza diventerà l’arbitro finale di ciò che è giusto. (...).
Queste sono domande potenti e ansiogene, cui possono rispondere, in ultima analisi, non coloro che le pongono nella paura, ma piuttosto coloro per i quali le immagini teistiche di ieri non sono riportabili in vita. Possono rispondere solo coloro che vivono in esilio. Tutti gli altri si precipiteranno a difendere le braci morenti delle convinzioni di ieri che si stanno dissolvendo oppure ad abbandonare tutti i sistemi religiosi come inutili chiacchiere, espressione dell’immaturità del genere umano che aveva bisogno di una figura genitoriale celeste per sopportare il trauma dell’esistenza.
Un nuovo canto
Cerchiamo però di essere chiari. Se Dio non è più da concepire come un essere «Altro e personale», vuol dire che il cuore e il fondamento di tutta la vita è impersonale? Questo rende Dio meno personale o, misteriosamente, ancora più personale ma ancora oltre le nostre limitate categorie e comprensioni umane? Queste domande, in ultima analisi, non trovano risposta. Esse, tuttavia, stimolano una serie di altre domande: l’essere di Dio non si manifesta nell'essere intensamente una persona? Si può adorare il Fondamento dell’essere in altro modo se non con il coraggio di essere tutto ciò che si può essere? Si può adorare la Fonte della vita in altro modo se non con il coraggio di vivere pienamente? Si può adorare la Fonte dell’amore in altro modo se non con il coraggio di amare dispendiosamente e abbondantemente? Ci sono eventuali categorie che potrebbero essere considerate più personali di quelle che chiamano ognuno di noi a essere, a vivere, ad amare? Una vita che riflettesse queste qualità non rivelerebbe l’immagine di Dio che è dentro ogni persona? Questa realtà non riflette un nuovo modo di vedere e di capire il detto biblico che «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò»? È possibile che portiamo l’immagine di Dio perché siamo parte di ciò che Dio è? Questi sono i concetti che stimolano la nostra riflessione come credenti in esilio.
Sì, è spaventoso pensare che non ci sia nessun genitore celeste in cielo che si prenderà cura di noi. (...). Stiamo prendendo atto che noi esseri umani siamo soli e quindi responsabili di noi stessi, che non possiamo appellarci a un potere superiore per la protezione. Stiamo imparando che il significato della vita non è esterno ma dev’essere scoperto nel profondo di noi stessi e applicato alla vita con un atto della nostra volontà. Veniamo informati che la vita non è giusta e non verrà necessariamente resa giusta in questa vita o in un’altra. Così che dobbiamo decidere come vivere ora con questa realtà.
Non ci sono a quanto pare facili risposte. Non ce ne sono mai nell’esilio. L’unica cosa certa è che bisogna andare avanti. Non c'è ritorno ai sistemi di sicurezza del passato ormai abbandonati. Nessun adulto può tornare alla casa dei genitori una volta raggiunta la maturità. Quando lo spirito umano ha raggiunto la maggiore età, non può tornare all’immagine di Dio come celeste genitore. Il cancello verso il passato è sbarrato, se non da angeli con spade fiammeggianti (Gn 3,24), almeno dalla consapevolezza che il Dio teistico di ieri non c’è più.
Quando gli ebrei furono portati in esilio a Babilonia nei primi anni del sesto secolo a.C., sapevano di non potere più cantare di nuovo il canto del Signore, perlomeno non i canti di Sion. Sapevano che Dio non avrebbe mai potuto essere adorato in futuro nel modo in cui era stato adorato in passato. Dovevano imparare un nuovo canto o non cantare mai più. Questo, io penso, è esattamente il destino del cristiano moderno. Credo che il nuovo canto si stia sviluppando e voglio far parte della generazione che lo canterà. L’avvicendamento del Dio teistico del passato con il Dio imprescindibile che è il Fondamento dell’essere è, a mio avviso, il presupposto per far risuonare il possente coro del futuro.
Così inizio da qui. Non c’è un Dio esterno alla vita. Dio, piuttosto, è la profondità ineludibile e il centro di tutto ciò che è. Dio non è un essere superiore a tutti gli altri esseri. Dio è il Fondamento dell’essere stesso. E molto discende da questo punto di partenza. Gli artefatti della fede del passato devono essere intesi in modo nuovo se ci devono accompagnare oltre l’esilio, e ciò che non può essere inteso diversamente dovrà essere messo da parte. Il tempo c’informerà su gli uni e gli altri.
La Bibbia: libro aperto
Appunti per l’incontro del 29 maggio 2000.- Enzo Mazzi
Due immagini emblematiche, di spessore molto diverso, ma accomunate da un comune percorso dentro uno stesso processo storico.
Una Bibbia perennemente aperta posta sull’altare laterale di sinistra della chiesa dell’Isolotto fin dal momento della sua consacrazione, prima chiesa in Italia, a quanto mi risulta, a realizzare una tale iniziativa. Siamo nel 1957.
Dopo 5 anni, una Bibbia aperta posta nel presbiterio della basilica di S. Pietro accoglie i 2540 padri conciliari l’11 ottobre 1962 all’apertura del Concilio e lì rimane per tutta la durata dell’evento conciliare.
Ambedue nascondono un confronto.
All’Isolotto, durante il periodo della progettazione definitiva e costruzione della chiesa ambienti della Curia premono perché si torni al progetto iniziale che non prevedeva l’altare centrale voltato verso i fedeli, pericoloso cedimento alla secolarizzazione, e inoltre contrastano l’idea della Bibbia aperta perché vi vedono un cedimento al protestantesimo e al modernismo. Il confronto viene risolto per l’intervento diretto del cardinale Dalla Costa consigliato da mons. Enrico Bartoletti.
Anche la Bibbia aperta nell’aula conciliare nasconde un confronto.
Potenti ambienti curiali, che fanno capo al card. Ottaviani, segretario del sant’Uffizio, vogliono un Concilio dottrinale che riconfermi solennemente l’autorità assoluta della gerarchia nella trasmissione della verità, unica e universale, e ribadisca la condanna degli errori. E’ la Chiesa, nella sua costituzione gerarchica, che ha le chiavi, che quindi apre e chiude la Bibbia. Altri ambienti della Curia vaticana, che fanno capo al card. Bea, capo del Segretariato per l’Unione dei cristiani, vogliono invece un Concilio aperto, pastorale e non dottrinale. Sono ambienti molto minoritari nella Curia, ma hanno dalla loro parte leaders di spicco dell’episcopato europeo: i cardinali Montini di Milano, Léger di Montreal, Liénart di Lilla, Alfrink di Utrecht, chiamati a Roma, contro il parere di Ottaviani, per contribuire a redigere gli schemi preparatori del Concilio. Ma soprattutto sono ispirati e sostenuti da papa Giovanni. Per loro e per noi, insisto nel dire anche per noi cioè per le formichine delle periferie ecclesiali e sociali, la Bibbia aperta significa l’irruzione della vita nella lettura e nella interpretazione del testo ispirato. E’ la linea profetica di papa Giovanni.
Accenno soltanto: molti di voi conoscono la Pacem in Terris con l’accoglienza alla irruzione dei segni dei tempi, ma pochi forse ricordano il messaggio radiofonico al mondo, l’11 settembre 1962, nel quale papa Giovanni invita di nuovo ad accogliere questa irruzione della vita: “Il Concilio dovrà rispondere - dice – alle aspirazioni umane alla libertà, alla pace, all’uso delle forze della natura e della tecnica per l’esclusiva promozione spirituale ed economica per la soluzione dei problemi sociali che gridano vendetta al cospetto di Dio….in faccia ai paesi sottosviluppati, la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri”. E’ aperta la strada alle comunità di base che in tutto il mondo e non solo in America Latina, anzi a quel tempo non soprattutto in America Latina, hanno la Chiesa dei poveri come fulcro della loro esperienza e come orizzonte per tutta la realtà ecclesiale, è il via libera alla loro teologia della riappropriazione dal basso della Bibbia e alla Teologia della liberazione.
La vita dunque irrompe nella Bibbia aperta a tale irruzione. Ma la vita che irrompe porta con sé aspirazioni, esperienze, idee, mentalità, valori che in qualche modo trasformano il testo biblico. Con la vita irrompe la diversità, la pluralità delle interpretazioni, che si riallaccia alla pluralità depositata nello stesso Dna generativo della Bibbia. Perché Dio che ispira è unico ma le persone ispirate sono diverse.
Finché la Bibbia è fatta propria dalla vita stessa. E’ la Bibbia aperta non più solo su un altare, in una chiesa, ma nella piazza. E’ la Bibbia che i campesinos del Nicaragua, del Salvador, del Gautemala portano nelle loro riunioni di celebrazione e di lotta e che a un certo punto, nel pieno del massacro, Mons. Romero prima di essere ucciso consiglia di sotterrare perché chi la possiede rischia la vita. E’ la Bibbia aperta nel crocicchio in modo che chiunque passa, fosse pure un samaritano, un nemico, un eretico, un ateo, un laico, possa leggere e interpretare con la propria prassi laica di amore del prossimo. La Bibbia aperta nella piazza significa che un qualsiasi figlio di falegname di una qualsiasi Nazaret, o che si chiami Isolotto o Ugnano o Le Piagge o perfino Il Poderaccio, luoghi insignificanti di periferie sperdute, può dire “oggi qui, in questo percorso di liberazione, vedo realizzarsi la Scrittura”.
E’ quanto sostiene nel primo numero del ’99 della rivista Concilium il noto teologo Christian Duquoc, professore emerito delle facoltà cattoliche di Lione. Non dice cose nuove ma per lui restano le cose da dire oggi. La Bibbia, egli dice, interpretata all’interno della cultura e della tradizione occidentale, è un monumento del passato, è muta di fronte ai problemi e alle domande esistenziali che sorgono in una comunità viva. In realtà la Bibbia appartiene a tale tradizione fino a un certo punto. Può la Bibbia essere letta e intepretata con categorie culturali diverse da quelle della tradizione occidentale? Può la Bibbia essere vista come la divesità, l’alterità che attacca potenzialmente ogni cultura perché si rifiuta di integrarsi, rifiuta la chiusura di senso che ogni cultura comporta, rifiuta come una prigione il sistema di verità che ogni cultura promuove? Tale ipotesi, conclude Duquoc, esige rotture con la tradizione istituita, richiede conversione con la fede nell’inedito di Dio.
Non è che sia tanto facile. Perché anche il card. Ottaviani aveva le sue ragioni. Cedere le chiavi della Bibbia non è come cantare i salmi col roch o il credo ai ritmi africani. La tradizione istituita va vista in tutti i suoi aspetti. Può essere un monumento del passato, può costituire una chiusura di senso di fronte alle domande esistenziali dell’oggi, può essere un ceppo che frena la ricerca della verità col suo sistema di verità senza uscite, come dice il teologo di Lione. Ma è lì ed è punto di riferimento per molti. Rompere con la tradizione può voler dire rompere con persone in carne ed ossa.
Forse ha ragione un altro grande teologo che scrive un magistrale contributo nello stesso primo numero di Concilium dello scorso anno: Sean Freyne, professore di teologia al Trinity College di Dublino, in altre università negli Stati Uniti e in Australia. Ciò che si richiede oggi, egli dice in sostanza, è un dialogo critico, non soltanto fra gli esegeti e i teologi di professione, ma anche fra le persone e le comunità che leggono la Bibbia in relazione alle proprie esperienze di vita di oppressione e alle esperienze di emarginazione. Ognuno, continua il teologo irlandese, dovrebbe contribuire con i propri carismi di intelligenza e di sapienza, senza sentirsi inibiti dalla necessità di trovare un’artificiosa unità, quindi di conseguenza, mi sembra, senza discriminazioni dovute al distruttivo concetto purtroppo tutt’ora dominante del dentro/fuori, liberi anche dall’obbligo di inserire per forza tutti in una particolare interpretazione di ciò che costituisce l’ “unità” e la “cattolicità”.
Mi sembra che sia quanto stiamo facendo proprio in questo incontro.



Sabato 06 Luglio,2019 Ore: 19:13