«Bertolaso restaura un modello gią fallito»

scritto da Ga.P.

Intervista a Giovanni Nimis, architetto


ven 24 lug, 2009 05:56
«Il nostro è il paese delle rimozioni. Riusciamo a cancellare non solo le tragedie ma pure le cose buone che facciamo. Vale anche per i terremoti, per come affrontarli e per come uscirne». Giovanni Pietro Nimis, architetto e urbanista, trent'anni fa ha curato la pianificazione per la ricostruzione dei comuni friulani disastrati dal sisma del 1976. Ora ha pubblicato un libretto (Terre mobili, dal Belice al Friuli, dall'Umbria all'Abruzzo, Donzelli, 14 euro), scritto di getto, con l'introduzione di Guido Crainz. Alla luce della sua esperienza professionale analizza e boccia il modello proposto e realizzato dal duo Berlusconi-Bertolaso per l'emergenza e la ricostruzione abruzzese.

Cosa la sorprende tanto da averla convinta a scrivere questo libro?

Il fatto che dopo le esperienze fatte in Friuli, Basilicata, Umbria e Marche, e con alle spalle i fallimenti del Belice, ci saremmo dovuti aspettare l'esistenza di una sorta di «protocollo» con cui affrontare le ricostruzioni, una metodologia fondata sul decentramento dei poteri decisionali e sul coinvolgimento delle popolazioni locali. Invece è come se tanti anni ed esperienze fossero state cancellate. Per tornare indietro.

Cosa c'è che non va in quel che succede in Abruzzo?

Il ritorno al tradizionale centralismo, quello dei disastri del Belice, con il trasferimento coatto delle popolazioni e lo stato che decide tutto. Nel '68, in Sicilia - ma vale anche per il Vajont di qualche anno prima -, ci si illuse di costruire ex novo, calando sui territori interessati un modello deciso al centro. Fu un fallimento che aveva alle spalle un'idea di stato ottocentesco e si nutriva delle illusioni di un'urbanistica ideologica: demiurghi che decidevano dall'alto della loro sapienza quale fosse «il bene» delle popolazioni sinistrate. Poi, con il Friuli, il modello è stato capovolto: lo stato finanziava, ma erano regioni e comuni a gestire il come ricostruire. E le popolazioni - anche grazie al volontariato e ai «movimenti» - potevano intervenire su soggetti politici a loro più vicini e condizionarne le scelte. Ora in Abruzzo si torna indietro di quarant'anni.

Perché?

Un po' per il protagonismo del Presidente del Consiglio, un po' per il tentativo di prendere tempo in una fase economica molto difficile, con risorse molto limitate. Ma ci deve essere qualcosa di più. Forse un efficientismo un po' velleitario, che rimuove i problemi.

Secondo lei era meglio inondare L'Aquila di prefabbricati piuttosto che costruire gli alloggi «provvisori» del progetto C.a.s.e.?

I prefabbricati avrebbero consentito una convivenza pacifica dei terremotati in attesa delle ricostruzione. Li avrebbero messi in condizione di vivere in modo decente il tempo necessario per elaborare il lutto e esprimere le proprie proposte (quella «meditazione» necessaria a ogni comunità dopo un evento che la colpisce in maniera disastrosa). E sarebbero costati molto meno delle C.a.s.e.. Che, invece, rimandano a una data indefinita la ricostruzione, smembrano le comunità e sono soggette a imprevisti e ritardi che potrebbero prolungare la permanenza delle persone nelle tendopoli fino all'inverno inoltrato.

In questa scelta ha inciso il potere e la cultura emergenziale della Protezione civile?

Non conosco i particolari, ma certo è che la Protezione civile esercita una delega forte, non prevista dalla Costituzione, a scapito degli enti locali.

Ma anche Zamberletti, in Friuli come commissario straordinario, aveva grandi margini di manovra...

Non così assoluti. Il commissario si misurava con il tessuto democratico del territorio, il suo principale compito era rimuovere i blocchi burocratici e permettere un utilizzo rapido delle risorse pubbliche. Bertolaso, invece, gestisce direttamente tutto, almeno per ora. Tra l'altro si assume grandi responsabilità, in un gioco pericoloso anche per lui.

Una controargomentazione a chi critica il centralismo del Decreto-Abruzzo è rappresentata da ciò che è successo in Irpinia e dallo spreco di risorse avvenuto in Campania.

Certo, in quel caso ci sono stati inefficienze e abusi, ma non è andata così in Umbria e nelle Marche, anzi. Io non dico che un modello - ad esempio quello del Friuli - sia esportabile tout court, né che il ricostruire «dov'era e com'era» debba essere una religione, perché soprattutto sul «come» ci si deve rapportare alle realtà concreta. Ma dico èche in Abruzzo è in corso la restaurazione di un modello fallimentare. E anche autoritario, a scapito delle popolazioni e delle istituzioni locali.
 


Sabato 25 Luglio,2009 Ore: 16:43