Gaza, 15 aprile 2011 ...
IL VIAGGIO DI "VIK" ARRIGONI, LE SCARPE DI PAPA RATZINGER E I VESTITI DEL CARDINALE BERTONE. Una nota di Angelo d'Orsi e una di Andrea Tornielli

(...) una foto di papa Ratzinger che in visita in Africa sfoggia un paio di meravigliose scarpette rosse firmate Prada. Vik la pubblicò, mettendole accanto l’immagine di un Gesù in croce, con i piedi trafitti, e ancora, un africano scalzo, e commentò: “Viene da pensare che se solo con queste calzature è lecito intraprendere le vie del Signore (...)


a c. di Federico La Sala

“Vik” Arrigoni, vivere per l’utopia

di Angelo d’Orsi (il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2012)

Non sentitevi sciocchi se, aprendo questo libro appena uscito (Il viaggio di Vittorio, di Egidia Beretta Arrigoni, Dalai editore, pagg. 185, 15,00), sentirete gli occhi inumidirsi. Proseguendo nella lettura, sfogliando frammento dopo frammento la breve esistenza, intensissima e generosa, di Vittorio “Vik” Arrigoni, vi sarà difficile trattenere le lacrime. Del resto Vik non si vergognava di piangere, quando, sotto i bombardamenti israeliani su Gaza City, tra gli ultimi giorni del 2008 e i primi del 2009, puntando la videocamera, rinunciava alle riprese. “Ho scoperto di essere un pessimo cameraman” , scriveva, “non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non riesco, perché piango anche io”.

Il lutto aleggia in queste pagine, giacché il lettore sa come andrà a finire: sa che il protagonista, un ragazzo che letteralmente si era dedicato alla causa degli ultimi, dovunque nel mondo, fu trucidato nella “sua” Gaza, il 15 aprile 2011.

NON SA, INVECE, il lettore, che tutta la breve vita di questo ragazzo (muore a 36 anni), fu dedicata ad alleviare le altrui sofferenze, in un viaggio che lo portò in Africa, nel-l’Est Europa, in America Latina, prima di giungere nel tormentato Medio Oriente, fermandosi infine in quel fazzoletto di terra, intriso di sangue, che sono i Territori palestinesi, sottoposti al pugno di ferro israeliano. Vik si è speso, in ogni modo, sempre pacificamente, sempre con uno sforzo volto non soltanto a testimoniare ma a operare concretamente: non volle mai essere un “cooperante”, un “osservatore”, e meno che meno un giornalista, sia pure solidale: fu uno di loro, volle essere operaio, pescatore, scaricatore, infermiere, cuoco...: volle essere vittima tra le vittime.

IN UNA LETTERA alla mamma - che oggi è facile leggere come tragicamente profetica - scriveva, da Nazareth: “Percorro strade che rappresentano la nascita, il viaggio esistenziale, il miracolo, il calvario di un Dio che di queste terre sembra essersi scordato”. Lo faceva anche un po’ per la mamma, cattolica osservante, donna impegnata come un po’ tutta la famiglia, una famiglia il cui mondo, scrive Egidia, “non è mai stato un mondo chiuso individualista, egoista”. Lei, mossa proprio da una passione genuinamente politica, fuori dai partiti, si impegnò nel sindacalismo e nell’associazionismo, in quel di Bulciago, il paese della Brianza, dove si erano trasferiti gli Arrigoni, da Besana, borgo non lontano, dove Vik era nato nel 1975). E nel 2004 divenne sindaco, confermata nel 2009: Vik ne era orgoglioso, quanto lei era orgogliosa di suo figlio, sia pure con le apprensioni di una mamma, apprensioni, purtroppo, più che giustificate.

Ma sia allora, sia ora che Egidia si è posta a riordinare i ricordi, e a tentare di renderli pubblici, non c’è amarezza, nel racconto; solo dolore, filtrato sempre da una serenità che giunge alla penna dell’autrice dalla sua fede religiosa e, soprattutto, alleviato dalla consapevolezza che quel ragazzo era stato sempre dalla parte giusta, dalla parte di quegli ultimi di cui il Cristo volle essere interprete e salvatore.

Uno dei tanti episodi che ci regala Egidia Arrigoni, riguarda una foto di papa Ratzinger che in visita in Africa sfoggia un paio di meravigliose scarpette rosse firmate Prada. Vik la pubblicò, mettendole accanto l’immagine di un Gesù in croce, con i piedi trafitti, e ancora, un africano scalzo, e commentò: “Viene da pensare che se solo con queste calzature è lecito intraprendere le vie del Signore, quanto sarà improbabile per gli scalzi miseri del-l’Africa avere accesso al Paradiso?”. Fu più volte arrestato, malmenato al limite della tortura dagli israeliani, che lo espulsero e lo dichiararono persona “non grata”. Ai suoi aveva scritto: “Rallegratevi del fatto che sono pronto a qualsiasi destino, perché vivere con ali recise non fa per me”.

NON ERA, insomma, Vittorio Arrigoni un ragazzo qualunque: la mamma rifiuta appellativi roboanti, da eroe a martire, ma a me piace invece esattamente riproporli, con assoluta convinzione. Se non è stato un eroe Vik, un eroe inattuale quanto necessario, di questi tempi orribili, chi lo è? Quanto al martirio non v’è alcun dubbio. Ve ne sono invece, e forti, su chi abbia organizzato il suo assassinio: che significa anche chiedersi a chi poteva giovare la morte di un militante pacifico della causa di quegli ultimi, che, dal 2002, furono i palestinesi.

Le pagine sulle giornate di aprile 2011, quando si affastellano le notizie sulla cattura e poi l’assassinio di Vik sono strazianti. L’intera nazione palestinese lo pianse, onorando come un fratello caduto nella lotta comune lui che, però, a differenza di loro, aveva scelto quel destino, in nome di valori che percepiva come imperativi. Scrisse l’ebreo dissidente, scrittore e militante contro le demolizioni delle case palestinesi, Jeff Halper, che con Vik condivise molte battaglie: “Tu eri e sei la forza terrena della lotta contro l’ingiustizia”. Non v’è molto da aggiungere; se non l’invito a leggere il libro (i proventi sono destinati alla Fondazione Vittorio Arrigoni - Vik Utopia).  

 

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Bertone: l’abito fa il prete

di Andrea Tornielli (La Stampa, 16 novembre 2012)

L’ abito deve fare il monaco, almeno in Vaticano. Lo scorso 15 ottobre il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha firmato una circolare inviata a tutti gli uffici della curia romana per ribadire che sacerdoti e religiosi devono presentarsi al lavoro con l’abito proprio, e cioè il clergyman o la talare nera. E nelle occasioni ufficiali, specie se in presenza del Papa, i monsignori non potranno più lasciare ad ammuffire nell’armadio la veste con i bottoni rossi e la fascia paonazza.

Un richiamo alle norme canoniche che rappresenta un segnale preciso, di portata probabilmente maggiore rispetto ai confini d’Oltretevere: nei sacri palazzi, infatti, i preti che non vestono da preti sono piuttosto rari. Ed è probabile che il richiamo ad essere più ligi e impeccabili, anche formalmente, debba servire da esempio per chi viene da fuori, per i vescovi e i preti di passaggio a Roma. Insomma, un modo di parlare a nuora perché suocera intenda e magari faccia altrettanto. 
 
Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che «i chierici portino un abito ecclesiastico decoroso» secondo le norme emanate dalle varie conferenze episcopali. La Cei ha stabilito che «il clero in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman», cioè il vestito nero o grigio con il colletto bianco. Il nome inglese rivela la sua origine nell’aerea protestante anglosassone: è entrato in uso
anche per gli ecclesiastici cattolici, all’inizio come concessione per chi doveva viaggiare.

La Congregazione vaticana del clero, nel 1994, spiegava le motivazioni anche sociologiche dell’abito dei sacerdoti: «In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista» è «particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità».

La circolare di Bertone chiede ai monsignori di indossare «l’abito piano», cioè la veste con i bottoni rossi, negli «atti dove sia presente il Santo Padre» come pure nelle altre occasioni ufficiali. Un invito rivolto anche ai vescovi ricevuti in udienza dal Papa, che d’ora in poi dovranno essere decisamente più attenti all’etichetta.

L’uso degli abiti civili per il clero è stato legato, in passato, a particolari situazioni, come nel caso della Turchia negli anni Quaranta o del Messico fino a tempi molto più recenti, con i vescovi abituati a uscire di casa vestiti come manager. L’usanza ha poi preso piede in Europa: non si devono dimenticare le ben note immagini del giovane teologo Joseph Ratzinger in giacca e cravatta scura negli anni del Concilio.
 
Ma è soprattutto dopo il Vaticano II che la veste talare finisce in soffitta e il
prete cerca di distinguersi sempre meno. Da anni ormai, soprattutto nei giovani sacerdoti, si registra però una decisa controtendenza. Una svolta «clerical» messa ora nero su bianco anche nella circolare del Segretario di Stato.

 

     

 

 

 



Sabato 17 Novembre,2012 Ore: 02:33