IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL SOGNO DELLA FEDE DI BENEDETTO XVI: UNA CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GIOVANNI XXIII, IL DISCORSO DELLA LUNA, I TRE FILI DEL CONCILIO. A 50 anni dal Vaticano II, i cardinali Bruno Forte e Gianfranco Ravasi ricordano (su "Il Sole-24 ore"). I loro testi - con alcune note di "aggiornamento"

La Chiesa intendeva parlare il linguaggio del suo tempo, per comunicare con tutti, per lanciare a tutti ponti di amicizia e di dialogo su cui far passare il tesoro della bellezza di Dio custodito nella sua fede (...)


a c. di Federico La Sala

 

L’ottimismo della fede contro i profeti di sventura

di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2012)

È la sera dell’11 ottobre 1962. Volge al termine la giornata di apertura del Concilio Vaticano II. Giovanni XXIII - inizialmente titubante, come testimonierà il suo fedele segretario, Mons. Loris Francesco Capovila - decide di affacciarsi alla finestra dell’appartamento pontificio. Toccato dallo spettacolo della folla raccolta in Piazza San Pietro, le rivolge alcune parole, passate alla storia come i1 "discorso della luna":

«Cari figlioli - dice il Papa -, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera - osservatela in alto - a guardare questo spettacolo... Noi chiudiamo una grande giornata di pace... Sì, di pace: "Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà"... La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore... Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà... Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: "Questa è la carezza del Papa". Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza... E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino».

Sin dal primo momento queste parole suscitarono un’ondata universale di tenerezza commossa, che a distanza di anni pare ancora non spegnersi. Con Giovanni XXIII la Chiesa sembrava farsi vicina a tutti, amica di tutti, pronta a condividere con tutti la gioia e la fatica di vivere. Una Chiesa dell’amore, della speranza e della pace, offerte a ogni cuore. Quelle parole erano il frutto di una consapevolezza profonda, che lo stesso Papa aveva espresso al mattino dello stesso giorno in un discorso, cui aveva lavorato personalmente con grande impegno, fino a limarlo più volte.

Si trattava dell’allocuzione inaugurale del Concilio, intitolata "Gaudet Mater Ecclesia" - "Gioisce la Madre Chiesa" dalle parole con cui si apriva. Pronunciato in latino, il discorso non ebbe l’effetto immediato di quello "della luna". Ne costituiva, però, la premessa, il quadro ragionato, l’impostazione programmatica di fondo. A 50 anni da quel giorno - che sarà solennemente commemorato da Benedetto XVI e dai rappresentanti dei vescovi di tutto il mondo riuniti nel Sinodo sulla nuova evangelizzazione, che si apre oggi a Roma - le parole di Papa Giovanni suonano più che mai attuali, capaci di suscitare ancora gioia e stupore.

In primo luogo, il Pontefice incoraggiava tutti alla fiducia e all’ottimismo della fede, pronunciando un "no" tanto convinto, quanto netto a ogni genere di profeti di sventura, di allora, come di ogni tempo: «Alcuni, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori... A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo».

Se di questo sguardo ottimista c’era bisogno allora, ai tempi della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi contrapposti, è innegabile che ce ne sia bisogno anche oggi: la crisi che attraversa il "villaggio globale" appare di una gravità con pochi precedenti e la tentazione del pessimismo rischia di farsi strada nei cuori. La storia sembra aver dato ragione alla fiducia del Papa buono con l’impensabile evoluzione che ha portato alla fine dei totalitarismi ideologici e della fin troppo scontata contrapposizione ad essi. Così è presumibile che il futuro darà ragione a chi continua a scommettere sull’uomo, a credere nelle vie misteriose della Provvidenza e a seminare un seme oggi, anche dinanzi a quanti sembrano prevedere che il mondo finirà domani...

Un secondo punto toccato da Papa Giovanni nel discorso del mattino dell’11 Ottobre 1962 riguardava la natura e la finalità del Concilio: si trattava di intraprendere un coraggioso lavoro di "aggiornamento" dell’intera comunità ecclesiale, che in nessun senso voleva essere un abbandono della secolare ricchezza della fede, aprendosi alla riforma e al rinnovamento della Chiesa nell’obbedienza ai segni dello Spirito operante nella storia. Diceva Giovanni XXIII: «Altro è il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale».

La Chiesa intendeva parlare il linguaggio del suo tempo, per comunicare con tutti, per lanciare a tutti ponti di amicizia e di dialogo su cui far passare il tesoro della bellezza di Dio custodito nella sua fede. La finalità pastorale non poteva non presupporre la profondità teologica e questa si lasciava sollecitare dall’urgenza di offrire a tutti i tesori del Vangelo, raccogliendo una sfida non così diversa da quella che oggi chiamiamo "nuova evangelizzazione".

Infine, il Papa buono confessava il suo sogno: promuovere l’unità nella famiglia cristiana e umana, al di là di ogni steccato. «La Chiesa Cattolica - diceva - ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre nell’imminenza del suo sacrificio; essa gode di pace soavissima, sapendo di essere intimamente unita a Cristo in quelle preghiere; di più, si rallegra sinceramente quando vede che queste invocazioni moltiplicano i loro frutti più generosi anche tra coloro che stanno al di fuori della sua compagine».

In un abbraccio veramente universale, il cuore del grande Pontefice si dilatava a voler raggiungere tutti. A distanza di 50 anni quest’ansia non è meno bella e attuale. Oggi, come allora, ha abitato e abita il cuore dei grandi protagonisti della storia cristiana, a cominciare dai Papi che sono seguiti a Giovanni XXIII. Oggi, come allora, esige una scelta di vita da parte di tutti, per cercare uniti il bene comune, aldilà di ogni corta visione di parte, con speranza e impegno fiducioso, ben sapendo che - come diceva l’umile e grande Pontefice - siamo ancora soltanto all’aurora: «Il Concilio che inizia sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. È appena l’aurora: eppure, già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole nascente!». Oggi, come allora: «Tantum aurora est!». E questo basta per impegnarsi a quanti si riconoscano "prigionieri della speranza" (Zaccaria 9,12) e vogliano tirare nel presente degli uomini qualcosa della futura, promessa bellezza di Dio.

Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto


 

 


I tre fili del Concilio

di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore - Domenica, 7 ottobre 2012)

L’11 ottobre prossimo si aprirà ufficialmente l’ "Anno della fede" voluto da Benedetto XVI e destinato a chiudersi il 24 novembre 2013. La scelta della data iniziale è emblematica perché scandisce i cinquant’anni dell’inaugurazione solenne del Concilio Vaticano II. È difficile per me resistere alla memoria autobiografica: giunsi a Roma, non ancora ventenne, per iniziare i miei studi in teologia proprio nel pomeriggio dell’11 ottobre 1962.

Ero, quindi, anch’io presente quella sera nell’immensa folla che, in piazza S. Pietro, ascoltava l’ormai celebre "discorso della luna" di Giovanni XXIII, così come sono stato tra coloro che, tre anni dopo, l’8 dicembre 1965 assistevano alla solenne conclusione dell’assise conciliare con Paolo VI, per non parlare poi delle varie volte in cui - attraverso la presentazione di un vescovo - avevo partecipato alle sessioni in S. Pietro, seguendo gli interventi dei Padri consiliari.

Il Concilio Vaticano II, però, è intrecciato con la mia vita non solo per ragioni biografiche. Lo è per un dato più radicale che è condiviso anche da tutti quei sacerdoti o fedeli che non misero mai piede a Roma in quegli anni, eppure furono in modo benefico "contaminati" da quell’evento.

Naturalmente, di fronte alla massa enorme della documentazione conciliare e alla relativa sterminata bibliografia dalle tonalità più diverse e fin antitetiche (preziosa in questo è stata l’opera di raccolta e di analisi condotta dall’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna creato dal prof. Alberigo), davanti anche soltanto all’eredità ufficiale di quell’assise con le sue quattro costituzioni, nove decreti e tre dichiarazioni, è difficile identificare in maniera semplificata un nodo d’oro che tutto tenga insieme, ne decifri il senso ultimo e ne delinei l’anima genuina. Preferirei, allora, ricorrere piuttosto a una trilogia fatta di fili robusti che percorrono e reggono quel tessuto così complesso, ornato e policromo.

-  Il primo di questi fili è, in verità, molto fluido, simile quasi a una trama che ha attraversato, fin dall’annuncio dell’indizione da parte di Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 nella basilica di S. Paolo, tutto il Concilio e l’intero mezzo secolo che abbiamo alle spalle. Si è, infatti, respirata e vissuta un’atmosfera intensa e unica, un fremito che paradossalmente faceva guardare la Chiesa lungo due direzioni antitetiche eppure complementari.

Da un lato, infatti, ci si proiettava verso il mondo in evoluzione e, quindi, verso orizzonti futuri, facendo risuonare quella parola allora un po’ emozionante, "aggiornamento". D’altro lato, però, si voleva liberare dal manto un po’ polveroso di una storia secolare il cuore pulsante del Vangelo, la vitalità delle origini cristiane, la matrice ecclesiale originaria, compiendo così una sorta di sguardo retrospettivo.

Proprio per quest’ultimo aspetto alcuni Padri considerati "progressisti" ribattevano ai colleghi obiettori di essere loro stessi i veri servatores, i "conservatori" dello spirito genuino della matrice originaria cristiana e della sua grande Tradizione mentre gli oppositori in ultima analisi si rivelavano novatores, sostenendo tesi o prassi posteriori.

Il clima di riscoperta delle radici cristiane come autentica "novità’ era vissuto allora in modo forte, talora forte talora frenetico: si spiegano così anche certe sucessive degenerazioni e il parallelo allentarsi di quella tensione spirituale. Tuttavia, penso che questa eredità di indole generale non si sia mai spenta, tant’è vero che ancor oggi l’aggettivo "conciliare" suscita sempre un palpito, una vibrazione, una scossa interiore, un appello a vivere più efficacemente il cristianesimo.

-  Un secondo filo che si dipana non solo in tutti i documenti conciliare, ma che è divenuto un raggio solare che ha illuminato fino ai nostri giorni tutta la Chiesa, è stato quello del primato della Parola di Dio. Essa, certo, ha avuto la sua stella polare nella Costituzione significativamente denominata Dei Verbum. Inizialmente si era ipotizzato un titolo più riduttivo, De Sacra Scrittura, rimandando esclusivamente alla Bibbia.

Poi, però, si è marcato il fatto che la Parola di Dio precede ed eccede la Sacra Scrittura: quest’ultima, infatti, è l’attestazione oggettiva della Rivelazione di Dio che però echeggia già nella creazione e nella storia e che si effonde illuminando la lettura e l’attualizzazione della Scrittura nella Tradizione. Si compiva, così, quanto suggestivamente dichiarava S. Gregorio Magno: Scrittura cum legente crescit. Ecco, allora, il titolo finale di quel documento: De divina Revelatione .

La Bibbia col Concilio ha, così, illuminato la liturgia, la catechesi, la spiritualità, la pastorale, la cultura, la teologia. A quest’ultimo proposito, ricordo in quegli anni l’ardua transizione che i miei docenti dell’Università Gregoriana avevano dovuto compiere, rendendo i loro corsi sempre più modellati sulla S. Scrittura come sorgente, superando l’uso secondo cui era la riflessione speculativa a convocare i passi biblici a supporto delle tesi già elaborate. Un’inversione metodologica che ora è normale nei trattati teologici ma che allora sembrava una rivoluzione, anche se in realtà si trattava di un ritorno alle origini. I Padri della Chiesa, infatti, come è stato fatto notare da molti, non parlavano (o scrivevano) della Bibbia, ma parlavano la Bibbia.

-  Giungiamo, così, al terzo e ultimo filo, quello del confronto e del dialogo col mondo, con la società e con la cultura contemporanea. Emblematico, al riguardo - come tutti riconoscono - fu il documento conciliare Gaudium et Spes, un ampio testo di ben 93 paragrafi, capace di dipingere un affresco dell’orizzonte nel quale la Chiesa si trovava immersa. In realtà, tutto il patrimonio dottrinale e pastorale del Vaticano II era in filigrana animato dall’istanza di comprendere e di incontrare un mondo che si rivelava sempre più complesso e incline ad allontanarsi dalla fede non solo cristiana, ma anche dal puro e semplice ambito del religioso e del sacro. Ecco, allora, la necessità di un’antropologia che potesse frenare la corsa alla secolarizzazione, alla dissacrazione, all’indifferenza.

È così che il Concilio volle delineare il ritratto della persona umana nella sua dignità di "immagine" divina, nella sua libertà, coscienza, intelligenza, nei suoi splendori e miserie. Questo ritratto era collocato all’interno della società attraverso la ricerca del bene comune e l’affermazione dell’autonomia della politica e delle realtà terrene. Senza ignorare le degenerazioni che intaccano il singolo, la famiglia, la comunità universale, l’approccio adottato era, però, sempre positivo, anche quando ci si confrontava con fenomeni articolati e delicati come la scienza, l’economia e persino l’ateismo e le crisi spirituali. Certo, la mappa socio-culturale descritta dal Concilio può risultare in alcune aree superata o datata (si pensi solo all’attuale civiltà informatica).

Ma questo si trasforma proprio in un insegnamento. Certo, il cuore del messaggio evangelico è in ogni tempo unico, è «lo stesso ieri, oggi e sempre», come affermava per il Cristo la Lettera agli Ebrei (13,8). Esso, però, deve continuamente incarnarsi nelle mutevoli coordinate storiche entro le quali siamo innestati. Questa "contemporaneità" permanente di Cristo e della sua parola è il grande monito costante del Concilio Vaticano II.

Un po’ come scriveva il filosofo danese Soeren Kierkegaard: «L’unico rapporto che si può avere con Cristo è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette solo di ammirarlo». Il Vivente, invece, com’è il Cristo risorto, «mi costringe a giudicare la mia vita in senso definitivo». Ed è ciò che il Concilio Vaticano II ha ribadito con passione e convinzione a tutta la Chiesa. 



Domenica 07 Ottobre,2012 Ore: 16:39