ARTE, TEOLOGIA, E FILOLOGIA. Una gerarchia senza Grazie (in greco, Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas") e dell'Uomo Supremo ("Dominus Iesus").
CHE MOSTRA! In Vaticano non hanno le Grazie (in greco, acc. plurale - "Chàritas") e riaprono il dialogo tra fede e arte per celebrare la bellezza della vera "ricchezza" e della buona-"carestia" teorizzata da Benedetto XVI ("Deus caritas est")! Una nota celebrativa di Bruno Forte, con una premessa

(...) occorre riconoscere il Tutto nei frammenti della vita e dell’opera dei giorni. È a questo precisamente che educa la bellezza: essa è perciò decisiva per la fede, chiamata a riscoprire come Colui in cui si crede, oltre a essere il vero e il bene, sia il bello da amare e da cui lasciarsi amare, capace di dare senso alla vita (...)


a c. di Federico La Sala

PREMESSA SUL TEMA: Note (cliccare sui titoli, per accedere ai testi).


AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.

 LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!

RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant

LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’. Bruno Forte fa una ’predica’ ai politici, ma non ancora a se stesso e ai suoi colleghi della gerarchia. Una sua nota, con appunti (Federico La Sala)

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Tra fede e arte dialogo riaperto

La Chiesa incontra l’arte contemporanea, voce delle nostre inquietudini, ma anche segno della nostalgia del Totalmente Altro, che ha pervaso le culture specialmente dell’Occidente dopo il tramonto dei «grandi racconti» delle ideologie.

di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2011)

Come aveva intuito Friedrich Nietzsche con la sua critica alla «volontà di potenza», queste sono entrate in crisi a causa proprio del potenziale di violenza che hanno generato specialmente nelle avventure totalitarie del Novecento. Per tutti è necessario oggi trovare ragioni di vita e di speranza, lontane dagli orizzonti totalizzanti delle ideologie.

La bellezza è una via singolare perché questo avvenga: e perciò essa incontra in modo nuovo la fede. Cifra intensa di questo incontro si annuncia la mostra organizzata in Vaticano per festeggiare il sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI, celebrato il 29 giugno scorso. Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha invitato a partecipare all’esposizione, che verrà inaugurata domani a Roma, sessanta artisti di fama mondiale, domandando loro di esprimersi in un «gesto di omaggio al Santo Padre».

Tra pittori, scultori, architetti, fotografi, scrittori, musicisti e registi che esporranno loro opere in omaggio al successore di Pietro, ci saranno il brasiliano Oscar Niemeyer, ultracentenario maestro dell’architettura, lo spagnolo Santiago Calatrava, lo svizzero Mario Botta, il greco Jannis Kounellis, gli italiani Ennio Morricone, Renzo Piano, Pupi Avati, Mimmo Paladino, Paolo Portoghesi, Arnaldo Pomodoro, Ettore Spalletti, Omar Galliani, Mimmo Jodice, e - fra gli scrittori - Roberto Mussapi, Luca Doninelli e Davide Rondoni. Come ha detto Ravasi, intento della mostra - intitolata "Lo splendore della verità, la bellezza della carità" - è «approfondire la ricerca di un dialogo che si è interrotto, quello tra arte e fede, che insieme in passato hanno prodotto grandi capolavori, ma le cui strade da tempo si sono divaricate... Si tratta di un dialogo necessario, vista la parentela di questi due aspetti dell’animo umano che, su strade diverse, tendono entrambi all’infinito».

Come e perché? La risposta che vorrei dare parte dalla meditazione di Hans Urs von Balthasar - una delle menti più alte del cosiddetto "secolo breve", oltre che uomo di straordinaria erudizione - per il quale il bello è l’offrirsi del "Tutto nel frammento" ("das Ganze im Fragment"), l’evento di una donazione che supera l’infinita distanza. Come può l’infinito abitare in ciò che è minimo? O l’eterno abbreviarsi senza annullarsi? O l’immenso contrarsi senza negarsi? La risposta che una vasta tradizione del pensiero occidentale dà a queste domande è che questo è possibile o mediante la proporzione della forma, che riproduca l’armonia del Tutto - formosus è il bello! -, o attraverso lo splendore, per cui il Tutto irraggia nel frammento per via d’irruzione e di rapimento: speciosus, splendido è il bello!

Nel primo caso, il Tutto può dimorare nel frammento in quanto questo si offra come determinazione spazio-temporale dell’infinito grazie alla riproduzione della corrispondenza dei rapporti: è l’idea della bellezza classica, consacrata specialmente dai capolavori della Grecia antica e assunta dall’anima cristiana di Agostino, ad esempio nel suo De Musica. Nel secondo caso, il Tutto irrompe nel frammento come movimento che sorge dall’alto o dal profondo, e schiude una finestra verso l’illimitato, sì che il minimo appaia come "abbreviazione" dell’eternità nel tempo, dell’infinito nel finito.

È la meditazione che ha portato a considerare la bellezza come "bonicellum", piccolo bene, "verbum abbreviatum" dell’eterno splendore di Dio: da questa considerazione cristiana medioevale si forma in tutte le lingue romanze il termine per dire la bellezza ("bello" in italiano, "bonito" nelle lingue della penisola iberica, "beau" in francese e "beautiful" in inglese). Qui l’anima greca s’incontra con la novità cristiana.

Qui il cristianesimo assume e tradisce Atene, perché - mentre aspira anch’esso a contemplare il Tutto nel frammento - confessa che l’evento della bellezza si è compiuto una volta per sempre nel giardino fuori di Gerusalemme, dove sulla roccia del Calvario sta la Croce della bellezza. È convinzione essenziale della fede cristiana che il Verbo eterno si dica in questo mondo per via della contrazione suprema, grazie all’atto per il quale - in nulla costretto dall’infinitamente grande - il Figlio si è lasciato contenere dall’infinitamente piccolo.

Veramente divino è questo contrarsi: "Non coërceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est" - "Non essere costretti dal più grande, ma lasciarsi contenere dal più piccolo, questo è divino" (la frase, "elogium sepulcrale" di Sant’Ignazio di Loyola, è stata usata da Hölderlin nel 1794 come esergo al frammento di romanzo Hyperion)! Questa estasi del divino è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire all’estasi dal mondo, a quel trasgredire verso il mistero che è il rapimento della bellezza che salva, reso possibile appunto dall’"abbreviarsi" del Verbo nella carne. Il Tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: il Dio Crocifisso è la forma e lo splendore dell’eternità nel tempo. Sulla Croce il "Verbum abbreviatum" - "kenosi" del Verbo eterno - rivela la bellezza come dono di amore e offerta di senso e di speranza per tutti!

Perché questo è così importante per noi, donne e uomini del "post-moderno"? E perché al servizio di questa causa fede e arte devono lavorare insieme? Dopo l’utopia delle grandi visioni ideologiche, assetate di totalità e divenute totalitarie e violente nei loro effetti storici, la grande tentazione è la decadenza, la rinuncia a pensare in grande e a sognare e impegnarsi per un domani più bello per tutti, degno dell’umano che è in noi.

A questa tentazione occorre reagire offrendo orizzonti di senso e di speranza, che non siano asfissianti come quelli delle ideologie: occorre riconoscere il Tutto nei frammenti della vita e dell’opera dei giorni. È a questo precisamente che educa la bellezza: essa è perciò decisiva per la fede, chiamata a riscoprire come Colui in cui si crede, oltre a essere il vero e il bene, sia il bello da amare e da cui lasciarsi amare, capace di dare senso alla vita. E la bellezza è decisiva per la cultura e per l’arte, perché sulle sue vie gli umani potranno riscoprire la nostalgia del senso perduto e cercarla in forme non violente come quelle della ragione ideologica, ma tanto vere, quanto umili e vivificanti.

È insomma la bellezza a operare quel miracolo, che Mario Luzi - altissima voce poetica del Novecento - chiamò «il battesimo dei nostri frammenti». Chi di noi può dire di non averne veramente bisogno? La mostra in Vaticano potrà ricordarlo a tanti...



Lunedì 04 Luglio,2011 Ore: 13:32