UNA VIAGGIATRICE EUROPEA SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO: AFGHANISTAN 1969
- SECONDA PARTE -
di Daniela Zini
Gran parte dell’Afghanistan – dicevo – è steppa o deserto, ma, in pieno deserto, all’orizzonte possiamo scorgere catene di monti nevosi, perché il Paese è generalmente alto (Herat, 1300 metri; Kabul, 1800; Bamian, 2800) e, i monti, altissimi; basti rammentare il Pamir e l’Hindukush, con numerosi “seimila” e anche “settemila”. D’inverno e fino a primavera avanzata, domina il gelo. La neve scende fino a Kabul e più sotto e può facilmente bloccare le grandi vie di comunicazione.
Nonostante la neve, l’acqua scarseggia perché va dispersa o si concentra solo nei pochissimi fiumi, come l’Helmand, il Kurnar, il Kabul e, al confine con l’URSS, l’Amu Daria. Quindi, scarseggiano, salvo le eccezioni delle vallate, gli insediamenti umani. Ma villaggi e borghi hanno fisionomie espressive. Chi entra in Afghanistan dall’Iran, pochi chilometri dopo il confine raggiunge la sommità di un poggio da cui si domina una grande, misteriosa fortezza, cinta di alte mura. Ma non è una fortezza: è una borgata. Perfino certi villaggi vicini a Kabul, di costruzione recente, somigliano a baluardi. Esistono, le muraglie, perché da tempo immemorabile gli afghani hanno acquisito l’istinto della difesa.
O i villaggi morti, sparsi un po’ dovunque. Mura sbrecciate, cupolette cadenti e, dentro, il vuoto. Perché? Per via di incendi o perché vennero meno le condizioni di sussistenza, e la popolazione migrò. E i caravanserragli, anch’essi morti. Ingressi quasi monumentali, senso di spazio, resti di moschee, tracce di un certo fasto; e, dentro il vuoto. Perché? Perché il traffico delle carovane di mercanti, motivo dei caravanserragli, si è spento?
L’Afghanistan offre visioni di ogni genere. Durante i mesi freddi vi si pratica un gioco di origine mongola, detto buskashi, che oppone due grandi squadre di cavalieri, ognuna delle quali cerca di portare alla propria base la posta in palio, la carcassa di un montone scuoiato. Un altro spettacolo, tanto popolare quanto sanguinario, consiste nel duello di due cani feroci, cui le orecchie sono state mozzate fin da cuccioli perché sia difficile azzannarle. Analoghi duelli vengono combattuti anche dai maschi della coturnice locale o pernice di monte; la sera prima degli incontri, i padroni si portano a spasso, in gabbia, il loro campione, pavoneggiandosi al suo furibondo chioccolare.
Si caccia volentieri: l’orso, la pantera, il lupo, un meraviglioso uccello delle alte quote – il lofoforo – simile al pavone, e una specie di diffidente muflone, chiamato, a ricordo del viaggiatore veneziano, “capra di Marco Polo”. I famosi levrieri afghani sono pochi e cari. Quelli dal pelo lungo, che noi prediligiamo, localmente li si considera una varietà da salotto, e viceversa quelli più tradizionali, usati per la caccia alla lepre, hanno il pelo raso. La proprietà degli uni e degli altri spetterebbe soltanto al re, il quale, peraltro, può eccezionalmente chiudere un occhio; dei levrieri, di ogni specie, è vietata l’esportazione.
Nella parte più bassa del Nuristan, dove si coltiva il papavero, ho visto contadini raschiare l’essudato delle zucchette, o, in altre parole, raccogliere l’oppio. Altrove, anche a Kabul, nonostante le proibizioni si può comperare, con tutta facilità e a buon mercato, l’hashish; gli afghani lo fumano senza sotterfugi. L’hashish attrae molti “capelloni” europei, i quali viaggiano per lo più su veicoli da quattro soldi, che non danno nell’occhio; alcuni di questi “capelloni” fanno, poi, incetta di droga, la nascondono nei loro trabiccoli dall’aria innocua, e, poi, tornati in Europa rivendono a carissimo prezzo la micidiale mercanzia.
Nelle strade afghane la circolazione è minima o, addirittura, come nel deserto tra Kandahar e Herat, quasi nulla. Una buona strada asfaltata corre dal confine iraniano fino a quello pakistano, passando dal sud del Paese; un’altra, congiunge Kabul all’URSS. Una terza arteria, non buona ma discretamente percorribile, porta da Kabul fino alla vallata di Bamian. Entriamo a Kabul. La capitale si va avvicinando al mezzo milione di abitanti. Giace in una grande conca, incorniciata da colli e percorsa dal fiume Kabul, affluente dell’Indo; non ha pretese di monumentalità; la sua urbanistica sta cercando faticosamente una via attraverso eterogeneità, squilibri, demolizioni, edificazioni discutibili. Eppure Kabul piace. Dipende proprio dall’eterogeneità, per questo nella capitale vi è di tutto: dall’ambasciata colossale, come quella sovietica, alla carovana di nomadi; dal palazzo reale di stile europeo, con le sentinelle in impeccabile uniforme occidentale, alle vie dove i tintori creano caleidoscopi di tessuti sgargianti; dalle donne in burqa, il mantello tradizionale che copre rigorosamente anche il viso, alle studentesse moderne pressoché in minigonna, al forte Bala Hissar, carico di storia e impregnato di sangue inglese.
E, poi, una serie quasi infinita di spunti. Gli hazarà venditori di acqua, carichi di otri. L’erbivendolo che, lavate nel Kabul le sue verdure, si mette a nudo a lavare se stesso. L’unica chiesa cattolica del Paese, conglobata nel recinto dell’ambasciata d’Italia. I portatori di mestiere, sopraffatti da pesi inauditi. E semafori, avanguardia di progresso e motivo di perplessità per gli incolti. In periferia, i resti di un paio di vagoncini, unica traccia di una breve linea ferroviaria nata ai tempi di Amanullah, e, poi, svanita. Infine, a una ventina di chilometri da Kabul, la sorpresa di uno skilift, che va diffondendo anche tra gli afghani lo sport delle nevi.
Dopo Kabul, viene Kandahar con 120.000 abitanti; è importante come centro agricolo e per la vicinanza alla città pakistana di Quetta; conserva ricordi della prima guerra tra afghani e inglesi; gli americani vi hanno costruito un grande aeroporto intercontinentale. All’estremo ovest, Herat fu, a suo tempo, uno dei cardini della storia e della strategia di mezza Asia; oggi non ha più di 70.000 anime e dello splendore antico rimangono solo le rovine di pochi monumenti e la cittadella. Nell’estremo nord, la città santa di Mazar-i-Sharif è famosa per una splendida moschea. All’estremo est, Jalalabad trae ragione di essere da una vasta area agricola e dai traffici con l’adiacente Pakistan.
In questa rapida scorribanda visiva, ho lasciato volutamente per ultima la zona di Bamian e Band-e Amir. A parte le bellezze afghane composte di picchi eccelsi, che, di solito, sono difficilmente accessibili, Bamian offre il meglio dell’intero Paese. Ci troviamo in una vallata lunga, ampia, ricca di coltivazioni nonostante l’alta quota. Non siamo troppo lontani dalla valle del Wakhan, situata tra il Pamir e l’Hindukush, dove, fin da tempi antichissimi, passava la cosiddetta “via della seta”: una via che dalla Cina raggiungeva Bamian, per poi proseguire verso sud e ovest. Insieme alla seta a Bamian sorge sotto una parete di roccia, alta un centinaio di metri, verticale, lunghissima. Nella parete, monaci buddisti aprirono centinaia di fori, che sarebbero stati, poi, le loro celle, gli eremitaggi; sicché la parete di Bamian somiglia a un alveare.
Ma, tra le cavità minori, altre due se ne aprono. Sono gigantesche, con il disegno ben netto, come absidi; in fondo, nella roccia madre i buddisti scolpirono due statue del loro dio e ricoprirono le pareti di affreschi. Oggi, i volti di Buddha e gli affreschi sono deturpati o distrutti; dipende sia dall’avvento dell’islamismo al posto del buddismo, sia dall’intemperanza fanatica di un condottiero dello scorso secolo. Ma, entrambe le statue sopravvivono e, attraverso gallerie nella roccia, se ne può raggiungere il capo. Una è alta circa 40 metri; l’altra, 53. Neppure i quattro Ramses II di Abu Simbel arrivano a tanto.
Là dove la valle di Bamian si chiude in una strettoia, domina, da un poggio con le pareti precipiti, un gruppo fantasmagorico di castelli, di torri. In basso dilaga il verde di un bosco di pioppi, mentre le pareti e le torri hanno color d’ocra e di sanguigno. Gli afghani le chiamano Città Rossa. Rossa di sangue. Erano la cittadella che difendeva la valle di Bamian. Gengis Khan, attraverso la “via della seta”, irrompe nella valle afghana; pare che la cittadella, in un primo tempo, si sottomettesse e, poi, tradisse, e, in proposito, è nata più di una leggenda; di certo, vi è che Gengis Khan ordinò di distruggerla. Fece passare a filo di spada uomini e animali; da qui il sangue che ancora arrosserebbe rocce e mura. E ordinò, Gengis Khan, di considerare la Città Rossa come un posto maledetto, da non più abitare, da non riedificare mai più. Così avvenne. Così è.
Infine, Band-i-Amir: siamo ancora nella regione di Bamian, oltre un passo alto tremilacinquecento, percorso da una strada piuttosto ardua. Spazi desolati; villaggi radi, con influssi tibetani; carogne di cavalli, sbranati dai lupi; vette sull’ordine dei cinquemila e più; d’un tratto, un lago. Ma non è che il primo di sette; sette laghi digradanti, separati l’uno dall’altro come da semplici gradini, a 3.300 metri sul livello del mare, la quota della nostra Marmolada.
Tuttavia il fascino ispirato dal selvaggio Afghanistan non deve far dimenticare i suoi problemi concreti. Kabul inizia ad avere una grande università, ma almeno i quattro quinti della popolazione afghana sono analfabeti. Qualche ospedale è nato; le Nazioni Unite hanno creato una scuola di infermieri, che dovrebbero distribuirsi capillarmente nel Paese; ma i medici scarseggiano e in fatto di salute pubblica le necessità sono ancora imponenti. Il tenore di vita si può sintetizzare con poche cifre: un funzionario percepisce dalle 30 alle 60.000 lire al mese; un domestico, a Kabul, dalle 12 alle 20.000; un manovale, circa 4.000.
La voce delle esportazioni ha un certo peso, grazie alla produzione di frutta squisita. Ricercatissima in Pakistan e, soprattutto, in India –, e, poi, di lana, di cotone allo stato greggio e di pelli del famoso karakul, l’agnellino di latte con cui in Afghanistan si confezionano i tipici copricapo locali e, da noi, le pellicce di cosiddetto “persiano”; si esportano anche tappeti di pregio, che, spesso, per non disorientare l’acquirente occidentale, assumono, a loro volta, la qualifica spicciola di “persiani”; e finalmente l’Afghanistan esporta in Russia, con impianti diretti, i suoi idrocarburi. Ma, tutte queste voci equivalgono soltanto a trentacinque miliardi di lire. Viceversa occorrerebbe importare quasi tutti i prodotti finiti; quindi, per tenere la bilancia commerciale in pareggio o, perfino, in attivo, si rinuncia al necessario.
Le limitate risorse del Paese escludono che l’attuale situazione possa capovolgersi. Ma, può migliorare. Dipende in gran parte dalla soluzione del problema idrico; dipende, in altri termini, dalla costruzione di dighe e canali e da una razionale distribuzione delle acque. L’agricoltura è suscettibile di larghi progressi anche mediante l’applicazione di nuove tecniche: basti dire che la maggioranza dei contadini afghani usa tuttora l’aratro a chiodo. Parallelamente all’agricoltura potrebbe svilupparsi anche la zootecnia.
Se a questi e ad altri fattori aggiungiamo determinati fermenti morali, come l’aspirazione degli studenti di Kabul o di coloro che hanno studiato nelle università straniere, all’ammodernamento del Paese, all’eliminazione di vecchie pastoie e all’instaurazione di una democrazia – oggi, ancora in gestazione – di tipo occidentale, giungiamo a una conclusione di moderato ottimismo. Sarebbe, invece, il contrario se prevalessero gli elementi retrivi, che ancora influenzano vaste categorie, specie di livello sociale inferiore.
Ma, vi è un’altra pedina da valutare, quella della politica estera. Le antiche aspirazioni zariste verso i mari caldi e l’India, sono divenute aspirazioni sovietiche. L’antico schieramento britannico contro la pressione russa è divenuto schieramento pakistano: perché il Pakistan, nemico dell’India, è, invece, amico della Cina e, finora, ostile all’URSS. Dunque, l’Afghanistan svolge la sua funzione di Stato-cuscinetto, oggi, anche più di ieri.
Solo che la partita si è complicata per il contrasto tra Ovest ed Est e per la presenza di nuove possibilità. Nella loro tradizionale pressione verso sud, i russi si trovavano svantaggiati dall’esistenza, a metà Afghanistan, di una poderosa propaggine dell’Hindukush; d’altra parte, questa propaggine ostacolava l’unità afghana; ebbene, poiché nel caso specifico gli interessi sovietici e quelli afghani collimavano, i russi hanno potuto costruire la strada, di cui dicevo prima, lungo la direttrice nord-sud, che dal loro confine raggiunge Kabul. La strada, detta del Salang, costata un’enormità, sale a quota 3.300 e attraversa in galleria la montagna più alta; in questo modo è nata una ragguardevole novità politica e strategica.
I russi influiscono sull’Afghanistan non già con il criterio, ormai sperato, del satellitismo, ma con metodi intelligenti: a esempio concedono numerose borse di studio, favoriscono traffici, acquistano prodotti afgani, soprattutto quando le relazioni tra Kabul e Rawalpindi si raffreddano, e forniscono all’esercito afghano molti materiali indispensabili, come benzina, pezzi di ricambio, munizioni, missili terra-aria. Inoltre, hanno influito costruendo metà di un’altra strada, quella che da Kabul raggiunge Herat e, poi, il confine iraniano.
Ovviamente, gli Stati Uniti si preoccupano dell’attività russa. E hanno risposto, tra l’altro, costruendo l’altra metà della strada di Herat. Così, nel contrasto tra due mondi, l’Afghanistan si è inopinatamente trovato a possedere arterie di importanza vitale. Ma, il loro costo è stato assorbito solo dagli Stati Uniti e dall’URSS. Gli afghani non hanno speso un dollaro né un rublo.
Dopo l’URSS, gli Stati Uniti e il Pakistan, quarto contendente della parità afghana è la Cina. L’Afghanistan confina con la Cina. L’Afghanistan confina con la Cina per soli 93 chilometri; sono quelli del Wakhan, la valle dove passava la “via della seta”. Un secolo fa, il Wakhan non era presieduto da nessuno. Gli inglesi, quando vi mandarono una missione per delimitare i confini del nuovo Stato-cuscinetto, raggiunsero un passo ad alta quota, dove giaceva abbandonata una capanna; allora, proseguirono oltre lo spartiacque e, finalmente, si incontrarono con alcuni armati, i quali dissero che là era la Cina. Più tardi, una commissione anglo-russa fissò i confini del Wakhan senza neppure recarvisi; né gli afghani di allora ebbero interesse a insediare guarnigioni in una zona tanto remota.
Ai nostri tempi, il discorso cambia. Salvo la Mongolia – sulla cui dipendenza effettiva, peraltro, si discute –, l’Afghanistan è l’unico Paese al mondo a confinare sia con la Cina sia con l’URSS. Kabul si è, quindi, preoccupata di avere, al confine cinese, una situazione chiara. Vi fu, nel 1962, una visita di re Zaher a Pekino e, più tardi, ebbero inizio, sul terreno del Wakhan, i lavori di una commissione mista. Furono lavori positivi, senza particolari ostacoli. La linea di frontiera venne fissata di comune accordo. Una lunga serie di pali infissa nel terreno porta, da un lato, in caratteri arabi, la scritta “Afghanistan” e, dall’altro lato, in caratteri latini e in lingua inglese, la scritta “China”. Così il problema della frontiera cino-afghana sembra risolto.
Ma, non si tratta soltanto di frontiera, bensì di tutto un complesso di fattori. A esempio, gli afghani hanno finora bloccato ogni tentativo di infiltrazione politica cinese. Hanno accolto, qualche anno fa, un folto gruppo di profughi cinesi, giunti attraverso il Wakhan. Nel frattempo, i rapporti tra Kabul e Pekino sono rimasti buoni. Ma, la Cina bada all’attività russa in Afghanistan non meno di quanto facciano gli Stati Uniti; la Cina non vorrebbe continuare a vedersi aggirata, sulla tradizionale direttrice dei mari caldi, dalla Russia. Quindi, vorrebbe, a sua volta, costruire una strada.
Dove?
Sulla “via della seta”, di Gengis Khan, di Marco Polo: in altre parole, dalla sua regione di Sinkiang – quella degli esperimenti atomici – all’Afghanistan, attraverso i 3.300-3.500 metri dei passi del Wakhan. Insomma, così come i russi hanno creato una strada nord-sud, che li avvicina all’India, i cinesi vorrebbero creare la strada est-ovest, che neutralizzasse, strategicamente parlando, l’arteria russa.
Ci si chiederà: in questa situazione intricata, gli afghani per chi parteggiano?
Non parteggiano per nessuno.
Dal contrasto altrui, cercano solo di trarre vantaggi.
Si proclamano lo Stato più neutrale di tutto il terzo mondo.
Dunque, Stato-cuscinetto: ma un cuscinetto duro e spinoso, su cui nessuno si adagia. Ed è logico che sia così, per un popolo che ha forgiato la sua indipendenza con millenni di sangue.
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Luned́ 02 Novembre,2009 Ore: 17:04 |