«Obeso» e «inefficace» per i liberisti, lo Stato avrebbe bisogno di nuovi salassi. «Oppressivo» e «liberticida» agli occhi di un buon numero di progressisti, dovrebbe sbiadirsi affinché l’individuo si sviluppi. Infine, coloro che apprezzano la sua missione «sociale» e «protettrice» pensano che sia già morto, caduto sotto gli assalti dell’ «ultraliberismo». Negli Stati Uniti, in Unione Europea come in Russia, lo Stato non è scomparso, ma si riadegua in via permanente. La visione ugualitaria del dopoguerra ha subito violenti attacchi nel nome dell’ «efficienza» o dell’ «equità». Riforme varie sopprimono funzioni, trasferiscono competenze alle collettività locali o al settore privato, privatizzano settori interi dei trasporti e delle telecomunicazioni; altre ricalcano la gestione delle amministrazioni sui modelli delle imprese. Pertanto questo movimento generale appare difficile da interpretare. La «modernizzazione» è tecnica, settoriale, raram,ente uniforme. Da queste interferenze derivano tanto la sua forza quanto la debolezza delle resistenze che gli si oppongono. Nel solco della crisi finanziaria i centri di potere pubblici sono serviti come forze di soccorso di ultima istanza. Esse hanno nazionalizzato di fatto la General Motors, messo Wall Street sotto flebo, soccorso l’industria pesante, sovvenzionato l’innovazione. Questa mobilitazione, che sembra segnare il ritorno dello Stato al centro dell’economia, non annuncia piuttosto l’accelerazione dei mutamenti verso uno Stato manager, con campi d’azione più limitati ma anche più autoritari?
Dallo Stato assistenziale allo Stato manager
di Laurent Monelli e Willy Pelletier – rispettivamente autore de «La Francia ha paura. Una storia sociale dell’«insicurezza» (La France a peur. Une histoire sociale de ['«insécurité »), La Découverte, Paris, 2008 ; e sociologo, coordinatore generale della Fondazione Copernic. (traduzione dal francese di José F. Padova)
«Viviamo un’epoca strana… Si ha l’impressione di una specie di onda che ci sovrasta, ci schiaccia ed è in procinto di riversarsi». Il politologo Bernard Lacroix potrebbe riassumere così lo smarrimento di sindacalisti, intellettuali, di eletti o di cittadini messi di fronte alle ristrutturazioni dello Stato.
Le riforme si succedono apparentemente in ordine sparso; il loro tecnicismo le rende opache, i loro effetti non sono percepiti se non dopo che sono state compiute, quando i decreti di applicazione sono adottati e arriva la loro attuazione. E tuttavia, dietro questa nebbia, è all’opera una mobilitazione senza precedenti per fabbricare uno Stato ridotto nella sua superficie e rafforzato nelle sue strutture di comando.
La compressione delle dimensioni di quest’ultimo si esprime in modo particolarmente radicale nella revisione generale delle politiche pubbliche. Lanciata in Consiglio dei ministri il 20 giugno 2007, questa accelera (e rende coerenti) le iniziative anteriori, rinserrando l’attività pubblica in imperativi di bilancio, fissati a priori. Soltanto sei mesi più tardi novantasei provvedimenti programmano fusioni, raggruppamenti e soppressioni di servizi di Stato. Dall’ottobre 2007 gli alti funzionari della Cancelleria, nonostante le loro reticenze, modernizzano a marce forzate la mappa giudiziaria e progettano di sopprimere, il primo gennaio 2011, centosettantotto tribunali di primo grado e ventitre tribunali d’appello, in nome dell’«efficienza». L’Istruzione nazionale chiude le scuole medie inferiori con meno di duecento allievi, giudicate troppo costose. In conformità ai desideri del suo ex ministro, Claude Allègre, il Ministero «sfoltisce il mammut» ed elimina più di quindicimila posti di insegnamento all’anno.
Nel diniego, a tappe o attraverso aggiramenti
Nessun ministero, d’altra parte, si assume il rischio di rimanere fuori dal gioco. Al contrario, ognuno cerca di piazzarsi un passo avanti gli altri in materia di «resoconto d’utilizzo [del denaro pubblico]», nuovo imperativo categorico di uno Stato proclamato «in fallimento» dal primo ministro François Fillon nel settembre 2007. Al ministero dell’Interno prefetture e sottoprefetture [ndt.: comparabili a questure e commissariati] subiscono una cura dimagrante. I concorsi per la polizia nazionale previsti per settembre 2009 sono stati annullati e da oggi al 2012 saranno soppressi ottomila posti di lavoro previsti nel bilancio. Ministero vicino ma rivale, la Difesa aveva preceduto questo andazzo: chiusura di caserme e liquidazione di 45.000 impieghi prima del 2014. Il ministero della Sanità condanna le maternità degli ospedali pubblici, considerate troppo onerose per meno di trecento parti all’anno e impone una soglia di millecinquecento interventi annuali per i servizi di chirurgia. Al ministero degli Affari esteri decine di consolati scompaiono, e quello della Cultura ristruttura gli archivi nazionali. Le Finanze «razionalizzano» a tutti i livelli i loro servizi.
La compressione dello Stato si abbina a trasferimenti di attività pubbliche verso il privato, una specie di vendita al minuto delle aziende pubbliche. Queste privatizzazioni si fanno disconoscendole, a tappe o aggirandole. Esse seguono, accogliendole, le anticipazioni di redditività finanziaria degli acquirenti, ma anche la storia di questi settori, con le loro lotte passate e lo statuto specifico dei loro lavoratori. I diversi ritmi delle riforme di France Télécom e di La Poste lo illustrano. (…) Di già le telecom appaiono, effettivamente, come un’attività ad alta redditività, al contrario del settore postale, che ha bisogno di una importante mano d’opera, per di più ben nota per la sua combattività sindacale. Il trasferimento verso il privato si effettua raramente di fronte, ma piuttosto per scivolamento. Ciò che concorre alla sua efficacia, perché ogni fase è vissuta come un normale prolungamento di quella che la precede. (…).
Il massiccio sciopero del personale nel 1994 aveva permesso formalmente di mantenere i relativi status di funzionari. Nondimeno: gradualmente, ma in modo continuativo, l’impresa pubblica diviene azienda privata nella sua organizzazione: mobilità obbligatoria, management per obiettivi e molestie che vanno di pari passo con incessanti ristrutturazioni dei servizi, compressione del personale (22.000 posti di lavoro in meno dal 2005 al 2008), intensificazione del lavoro, ecc. I tecnici elettronici devono riconvertirsi in venditori di servizi. Messa in concorrenza con Bouygues, SFR, Cegetel o Free, l’impresa telefonica statale, che ieri aveva come missione quella di dotare il Paese di reti di telecomunicazione e di potenziare così il territorio, non considera più altro che l’imperativo dei profitti e i ritorni sugli investimenti.
Alla posta o alla SNCF [ferrovie] il taglio del servizio pubblico prende una forma diversa. Il trasferimento delle attività verso il privato, più lento, più insensibile, è realizzato mediante frammentazione (costituzione di filiali e delega al privato) secondo i tipi di funzioni. La sig.ra Hélène Adam, del sindacato SUD-PTT, ricostruisce la meccanica: «L’apertura alla concorrenza si fa dapprima in funzione del peso degli oggetti da distribuire. Il pacco è il primo a essere aperto alla concorrenza e FedEx o DHL penetrano nel mercato domestico imponendogli il loro stile puramente commerciale. La garanzia, la sicurezza, tutto si paga in contanti. La Poste crea la sua filiale Geopost per allinearsi e gestire secondo i medesimi criteri di redditività pura. La forma giuridica scelta è quella di una holding diretta da uno dei direttori di La Poste (…).
Le risorse allocate non coprono gli oneri delle mansioni trasferite
Infine non si dovrebbe dimenticare il trasferimento di oneri verso le collettività territoriali. La decentralizzazione del 1982 (…) ha attribuito agli eletti locali un gran numero di nuove competenze: formazione professionale, trasporti, gestione degli immobili e del personale tecnico, degli operai e dei servizi dei licei e delle scuole medie, mentre gli interventi di carattere sociale dipendono ormai largamente dai Consigli generali e regionali. Molto spesso senza che i mezzi finanziari allocati dallo Stato coprano l’insieme di questi incarichi. (…)
La vice-presidente Verde del Consiglio regionale dell’Île-de-France, sig.ra Francine Bavay, fa la stessa osservazione per la formazione sanitaria e sociale: « Su un bilancio di 160 milioni dieci milioni di euro non hanno ricevuto copertura. E dopo tre anni di discussioni a oltranza, di rivalutazione delle entità trasferite e dopo quattro ricorsi siamo ancora al punto di partenza. De facto, non abbiamo ottenuto altro se non il mantenimento dell’esistente». E conclude dicendo che la motivazione della riforma «non è già quella di rendere le istituzioni più innovative o più vicine agli aventi diritto. Si tratta di limitare l’impegno pubblico dello Stato».
Serrare le catene di comando
Questo multiforme restringimento dell’area dello Stato si accompagna a un movimento meno visibile di «caporalizzazione» dell’azione pubblica: rafforzamento delle gerarchie e del controllo pesante sui funzionari del servizio pubblico e accorciamento delle catene di comando. Imporre politicamente nuove priorità alle istituzioni non ha nulla di facile. Si può nominare uomini di fiducia alla testa delle amministrazioni – i governi non ne fanno mai a meno –, ma senza garanzia dell’efficacia delle misure prese. Perché gli incaricati di metterle in opera le ritraducono, le aggiustano, le adattano alle routine professionali. Alcune elite di settore fanno perfino resistenza. Così medici, professori universitari, magistrati o ingegneri adducono il fatto di conoscere forse meglio del loro ministro le priorità del loro campo di attività. Lo stesso dicasi per una parte degli ispettori generali. Provenienti da amministrazioni nella bufera e, per loro funzione, avvocati delle riforme, essi vi introducono tuttavia sfumature, mediazioni che attenuano la radicalità dei progetti iniziali.
Una situazione inammissibile per i responsabili politici che ne sono all’origine. Ma anche per gli alti funzionari del ministero delle Finanze i quali, da anni, tentano d’imporre una nuova definizione di interesse generale, ridotta al mantenimento degli «equilibri finanziari» di fronte alle rivendicazioni di quelli che essi chiamano sprezzantemente i «ministeri spendaccioni». Fino ad allora il loro zelo era parzialmente contrastato dalle regole di funzionamento dell’amministrazione, che proteggevano certe fasce d’autonomia. Costoro hanno accolto quindi con entusiasmo i progetti politici che mettono in riga le vecchie strutture decisionali collegiali e a questo scopo nominano amministratori dotati di poteri allargati. È il caso dell’ospedale. Alla testa delle nuove Agenzie regionali della sanità (ARS) si trova ora un vero e proprio «prefetto della sanità», designato dal Consiglio dei ministri, responsabile di tutta la sequenza delle cure sanitarie a livello di regione. Nella prima versione della legge votata in luglio 2009 poteva perfino scegliere i direttori degli ospedali e revocarli in ogni momento. Questi ultimi si sono mobilitati con successo per fare emendare il testo della legge su questo punto, avendo beninteso cura di rafforzare la propria autorità nell’ambito dell’ospedale… La legge amplia quindi i loro poteri di fissare obiettivi e gestire il personale, secondo i desideri di Sarkozy, che auspicava dare «un capo e uno solo all’ospedale». Cosa questa che non facilita il dialogo. Come puntualizza il professor André Grimaldi, capo della diabetologia dell’Ospedale Pitié-Salpêtrière: «Prima si era in una logica di cogestione: il direttore doveva fare partecipare i medici alle sue decisioni. Adesso è finita, essi non avranno più voce in capitolo».
Si riprendono in mano settori che godono di una relativa autonomia
Nell’insegnamento superiore il movimento è similare in modo stupefacente. (…) «Con le riforme – quella fallita del 2003 e quella del 2007 – si è nel quadro di una gestione manageriale autoritaria», spiega il sociologo Frédéric Neyrat, «la legge attribuisce ai presidenti, che sono essenzialmente favorevoli, poteri cospicui nei confronti dei loro pari, professori universitari. Essi possono in particolar modo assumere funzionari o impiegati o annullare le decisioni collettive delle commissioni e dei consigli universitari.
Una dinamica simile viene attuata nella giustizia. Innanzitutto nelle procure, con la legge del 9 marzo 2004 che pone i procuratori sotto l’autorità gerarchica del loro ministro, conferendo a quest’ultimo un potere d’intervento e di orientamento della procedura in ogni causa. E poi nei confronti dei giudici, l’indipendenza dei quali è limitata dalla «mobilità». Se pure non possono essere spostati geograficamente, possono vedersi destinati a funzioni diverse in rapporto agli imperativi gestionali del tribunale. Come ricorda il magistrato Gilles Sainati: «Un giudice competente per la detenzione preventiva, le cui sentenze appaiono troppo “lassiste” rispetto alle norme di competenza prefettizia per l’espulsione alle frontiere degli stranieri, potrà essere senza difficoltà spostato a gestire cause di diritto famigliare o di tutela dei minori…». Per completare la costruzione, dal 2009 i magistrati nel Consiglio superiore della magistratura (CSM), incaricato della loro nomina e dei provvedimenti disciplinari, sono in minoranza rispetto a personalità esterne, nominate dalla Presidenza della Repubblica e dai presidenti di Camera [Assemblée Nationale] e Senato.
Questo rafforzamento del controllo si effettua ugualmente col riprendere in mano settori che godevano di relativa autonomia. (…) I candidati a questi nuovi posti di manager pubblico non mancano. Per accedervi sono determinanti i legami personali col principe o i suoi consiglieri – i quali per questo formano attorno a sé una clientela di riconoscenti. Queste nomine non comportano solamente retribuzioni simboliche: premi e compensi indicizzati su «obiettivi» completano o sostituiscono le griglie salariali della funzione pubblica.
«Si è dimenticato che l’ospedale curava i poveri»
Una simile volontà di controllare le amministrazioni non è cosa nuova. Parlamento, Corte dei conti, ispettorato delle Finanze se ne occupano da molto tempo. Ma solo recentemente gli «indicatori di performance» hanno preso il sopravvento su ogni altre considerazione. (…) Nella pratica ogni attività è ridotta a una logica contabile, simile ai bilanci finanziari delle imprese. Come riassume il professor Grimaldi per quanto riguarda l’ospedale: «Si è creata artificialmente l’idea che esistono pazienti remunerativi e altri che non lo sono. Che cosa è remunerativo? In sostanza, ciò che è facilmente quantificabile, esprimibile in numeri, vendibile. Sono le procedure tecniche, di gravità media, programmabili, con gente che non ha problemi psicologici e sociali. La cataratta semplice, fatta in serie. E che cosa non è redditizio? Tutto ciò che si trova nell’ambito della complessità: la patologia cronica, il soggetto in età avanzata, i fattori psicologici e sociali. (…) Ci si è semplicemente dimenticati che l’ospedale curava i poveri e i casi gravi…».
I compromessi di questo modello gestionale sono noti. Se i quadri occupano molto del loro tempo e delle loro energie per riempire gli indicatori, imparano anche ad addomesticarli. Come lo segnalava questo alto responsabile della polizia al 32° congresso del sindacato dei commissari e funzionari di polizia nazionale a Montluçon nel 2003: «Il rischio evidente è quello di presentare un rapporto “pulito”. Non si imbroglia con le cifre, ma si diventa furbi». Così, per fare diminuire la delinquenza registrata e aumentare i “tassi di chiarimento” (…) l’immaginazione degli agenti è frenetica: rifiuto di accogliere le denunce, rinvio di un denunciante da un commissariato all’altro, riassunto o riconversione dei fatti constatati, concentrazione dell’attività di servizio sui crimini più «redditizi» statisticamente (gli stupefacenti o gli stranieri). La pressione per la produzione di numeri «buoni» va al di là delle forze di polizia, ma si è imposta a tutti i livelli della gerarchia del servizio pubblico.
Nel quotidiano l’esercizio del mestiere diventa impossibile
Ritornare alla storia fa afferrare l’estensione di questa modernizzazione manageriale. In Europa occidentale lo sviluppo dell’amministrazione è stato la condizione per la nascita di una ragione di Stato distinta da quella del monarca. Si è così passati da una gestione privata e personale degli affari pubblici (la Casa del re) a quella, collettiva e impersonale delle amministrazioni. La costruzione dello Stato moderno si è fondata sull’emergere di una visione del servizio pubblico come attività «disinteressata», orientata verso scopi universali. Ora, proprio questa rappresentazione delle funzioni dello Stato è sotto tiro.
Con la ridefinizione dei ruoli – sia alle imposte, con i consiglieri delle agenzie per l’impiego, sia presso gli insegnanti o altrove – si sfascia il rapporto verso professioni ieri vissute come «servizi resi». Un buon numero di funzionari vivono ormai la loro professione con dolore, in una situazione di equilibrio precario che avviluppa tutta la loro attività lavorativa. La percezione del proprio compito (e di sé stessi mentre lo si adempie) entra in contraddizione con i nuovi criteri di valutazione. Giorno dopo giorno la professione diventa mission impossible nei rapporti con gli utenti. L’esaurimento professionale che ne consegue è incompatibile con le diverse forme di «management per obiettivi».
Resta la fuga: suicidi, tentativi di suicidio, interruzioni del lavoro per malattia, psicofarmaci per i funzionari sottoposti al «complesso di colpa dei numeri. Ogni mattina si viene al lavoro di malavoglia. Le discussioni fra colleghi girano attorno all’argomento della pensione, quanti tempo ti resta prima di andarci?», confida Pierre Le Goas, del servizio imposte ai privati di Lannion. Resta il crollo. «L’atmosfera è talmente tesa, con l’aumento dei carichi di lavoro, che i funzionari piangono sui posti di lavoro», testimonia la sig.ra Delphine Cara, responsabile per la Vandea del SNU- Pôle emploi.
Ma la «modernizzazione» dello Stato penetra nei fatti, perché si intromette fino negli atti più anodini degli impiegati nel settore pubblico. Perché, indipendentemente dai sacrifici, dalle sofferenze, dallo scombussolamento e dalle tensioni, gli stipendiati che la subiscono non hanno altra scelta se non quella di prendervi parte e di applicarla in ogni momento. Vivendola alla loro maniera. Adattandovisi. Meglio: trovano da parte loro i modi migliori di fare, perché stiano in piedi situazioni insostenibili, malgrado il sovraccarico di lavoro. Fra l’altro, perché della situazione precedente delle professioni di Stato sopravvive una forma di dedizione che, ieri, costituiva la «missione di servizio pubblico». Ciò che spinge, fra tanti altri, Marie-Jo, del Pôle emploi di Nizza, a salvare le sue schede professionali sulla sua chiavetta USB personale, per rivederle a casa sua. Perdurano ancora i modi, appresi in tempi anteriori, di compiere il proprio dovere, «quando si aveva davanti la gente, non i dossier», commenta Françoise, del Pôle emploi di Grasse.
Essere graditi al ministro, al capo di gabinetto, al presidente
In materia di smantellamento dello Stato l’efficienza porta a questo paradosso: la situazione precedente di assolvimento del servizio pubblico – il rapporto con la professione, le disposizioni sociali (di dedizione, d’implicazione) che ne erano costitutive – permette l’applicazione delle riforme che distruggono le forme abituali del suo esercizio e i motivi per esserne coinvolti.
Questa trasformazione non può quindi essere ridotta alla mobilitazione delle alte nobiltà di Stato che la promuovono e se ne gloriano, dagli opuscoli d’istruzioni fino ai bilanci appagati. Certamente vi contribuiscono le competizioni «per piacere» - al ministro, al capo di gabinetto, al presidente della Repubblica – e le rivalità che l’attraversano, come pure il loro incessante passaggio dal pubblico al privato e al contrario.
Ma l’avvento di uno Stato manager risulta anche, ogni giorno, dall’attività incessante e accumulata di migliaia di funzionari pubblici, che forse non ne sono determinati, ma che, applicando la loro professionalità, ad ogni costo, «sopportano» e l’integrano come meglio possono alle «cose da fare».
Certamente le proteste abbondano. Magistrati, avvocati, cancellieri si sono mobilitati contro le disposizioni giurisdizionali. Quasi 46.000 salariati del Pôle emploi erano in sciopero, nell’ottobre 2009. gli insegnanti della scuola superiore hanno a lungo rifiutato la riforma della loro professione. In primavera i medici ospedalieri manifestavano nelle vie per salvare l’ospedale pubblico. I professori delle scuole primarie e secondarie moltiplicano le loro giornate di protesta. Eppure, nelle loro preoccupazioni professionali, nei loro patrimoni (economici e culturali), nelle loro origini sociali e nei loro modi di agire (perfino nel mobilitarsi), i professori universitari di medicina non sono postelegrafonici, funzionari del collocamento, cancellieri di tribunale o poliziotti. Come potranno gli uni prendere cura degli altri, spontaneamente e, a maggior ragione, nella pratica?
Nessuno sembra allora in grado di dare sostegno ad alcuno, ciò che alimenta la sensazione generale di sopraffazione. Ora, questa ondata di trasformazioni ricava la sua forza proprio dai nuovi raffronti che essa suscita (fra utenti e funzionari pubblici, e fra funzionari pubblici di diverso livello e di differenti settori). E dalla loro dissimulazione. Restituirne i meccanismi nel loro insieme è già contrastarle e significare che è in gioco la difesa di un modello di civiltà.
Testo originale:
Le Monde Diplomatique, décembre 2009, n° 669
Comment vendre à la découpe le service public
«Obèse» et «inefficace» pour les libéraux, l'Etat nécessiterait de nouvelles saignées. «Oppressif» et «liberticide» aux yeux de bien des progressistes, il devrait s'effacer afin que l'individu s'épanouisse. Enfin, ceux qui regrettent sa mission «sociale» et «protectrice» estiment qu'il serait déjà mort, tombé sous les assauts de l'«ultralibéralisme». Aux Etats-Unis, dans l'Union européenne comme en Russie, l'Etat n'a pas disparu : il se réagence en permanence. La vision égalitariste d'après guerre a subi de violentes attaques au nom de l'« efficacité » ou de l'«équité» (lire l'article de Jérôme Tournadre-Plancq page 2I). Des réformes suppriment des fonctionnaires, transfèrent des compétences aux collectivités locales ou au secteur privé, privatisent des pans entiers des transports (lire l'article d'Olivier Cyran pages 22 et 23) et des
télécommunications; d'autres calquent la gestion des administrations sur le modèle des entreprises. Pour autant, ce mouvement général apparaît difficilement lisible. La «modernisation» est technique, sectorielle, rarement uniforme. De ce brouillage découlent tant sa force (lire l'article ci-dessous) que la faiblesse des résistances qu'on lui oppose. Dans le sillage de la crise financière, les puissances publiques ont servi de pompier de dernier recours. Elles ont nationalisé de fait General Motors, perfusé Wall Street, secouru l'industrie lourde, subventionné l'innovation. Cette mobilisation, qui semble marquer le retour de l'Etat au centre de l'économie, n'annonce-t-elle pas plutôt l'accélération des mutations vers un Etat manager, aux domaines d'action plus restreints, nais aussi plus autoritaires ?
De l'Etat-providence à l'Etat manager
Par Laurent Bonelli Et Willy Pelletier - * Respectivement auteur de
«Nous vivons une drôle d'époque... On a l'impression d'une espèce de vague qui nous surplombe, nous écrase et qui est en train de déferler.» Le politiste Bernard Lacroix pourrait ainsi résumer le désarroi de syndicalistes, d'intellectuels, d'élus ou de citoyens confrontés aux restructurations de l'Etat (1).
Les réformes se succèdent apparemment en ordre dispersé; la technicité les rend opaques; leurs effets ne sont perçus qu'après coup, lorsque, les décrets d'application adoptés, arrive leur mise en pratique. Et pourtant, derrière ce brouillard, une mobilisation sans précédent est à l'oeuvre pour fabriquer un Etat réduit dans sa surface et renforcé dans ses structures de commandement.
La compression du format de ce dernier s'exprime de manière particulièrement radicale dans la révision générale des politiques publiques (RGPP). Lancée en conseil des ministres, le 20 juin 2007, celle-ci accélère (et met en cohérence) les entreprises antérieures enserrant l'activité publique dans des impératifs budgétaires, fixés a priori. Six mois plus tard seulement, quatre-vingt-seize mesures programment fusions, regroupements et suppressions de services d'État. Dès octobre 2007, les hauts fonctionnaires de la chancellerie, nonobstant leurs réticences, modernisent à marche forcée la carte judiciaire et projettent que, au ter janvier 2011, cent soixante-dix-huit tribunaux d'instance et vingt-trois tribunaux de grande instance seront supprimés, au nom de l'« efficacité ». L éducation nationale ferme les collèges de moins de deux cents élèves, jugés trop coûteux. Conformément aux souhaits de son ancien ministre, M. Claude Allègre, elle « dégraisse le mammouth » et élimine plus de quinze mille postes d'enseignant par an (2).
Dans la dénégation, par étapes ou par contournement
Aucun ministère, d'ailleurs, ne prend le risque de demeurer hors jeu. Chacun cherche au contraire à disposer d'un coup d'avance en matière de «rendu d'emplois», nouvel impératif catégorique d'un Etat proclamé «en faillite» par le premier ministre François Fillon en septembre 2007. Au ministère de l'intérieur, préfectures et sous-préfectures subissent une cure d'amaigrissement. Les concours de police nationale prévus en septembre 2009 ont été annulés, et huit mille postes budgétaires seront supprimés d'ici à 2012 (3). Ministère voisin mais rival, la défense avait précédé le mouvement : fermetures de casernes et liquidation de quarante-cinq mille emplois avant 2014. Le ministère de la santé condamne les maternités des hôpitaux publics, considérées comme trop onéreuses à moins de trois cents accouchements par an, et impose un seuil de mille cinq cents actes annuels, pour les services de chirurgie. Des dizaines de consulats disparaissent au ministère des affaires étrangères, et celui de la culture restructure les archives nationales. Les finances «rationalisent» à tous niveaux leurs services.
La compression de l'Etat s'accompagne de transferts d'activités publiques vers le privé, sorte de vente à la découpe des entreprises publiques. Ces privatisations s'opèrent dans la dénégation, par étapes ou par contournement. Elles épousent les anticipations de rentabilité financière des acquéreurs, mais aussi l'histoire de ces secteurs, avec leurs luttes passées et le statut spécifique de leurs salariés. Les tempos différents des réformes de France Télécom et de La Poste l'illustrent. Des mécanismes proches déterminent les trajectoires de Gaz de France (GDF) et d'Electricité de France (EDF), ou de la Société nationale des chemins de fer français (SNCF).
Le retrait de l'Etat débute à chaque fois par la séparation structurelle des branches de l'entreprise publique. Ainsi, la dissociation des «postes» et des «télécommunications », en 1990, démarque le segment d'activité à «ouvrir à la concurrence ». Déjà, les télécoms apparaissaient, en effet, comme une activité à haute ren tabilité, à l'inverse du secteur postal, qui nécessite une importante main-d'oeuvre (4), connue de surcroît pour sa combativité syndicale. Le transfert vers le privé s'opère rarement de front, plutôt par glissement. Ce qui concourt à son efficacité, chaque étape étant vécue comme un prolongement normal de la précédente. La première ouverture du capital de France Télécom a ainsi lieu en 1997, la deuxième en 2000. Et, malgré l'investissement de 78 milliards d'euros pour renflouer le déficit de l'entreprise (dû à l'éclatement de la bulle spéculative autour d'Internet et des téléphones mobiles), l'Etat passe en 2004 sous le seuil des 50 % du capital, puis sous la barre du tiers — qui constitue la minorité de blocage — en 2005.
La grève massive des personnels en 1994 avait formellement permis le maintien de leur statut de fonctionnaire. Il n'empêche : graduellement, mais en continu, l'entreprise publique devient firme privée dans son organisation : mobilité obligée, management par objectifs et harcèlements qui vont avec d'incessantes restructurations des services, des compressions de personnel (vingt-deux mille emplois en moins de 2005 à 2008), l'intensification du travail, etc. Les techniciens de l'électronique doivent se reconvertir en vendeurs de services. Mise en concurrence avec Bouygues, SFR, Cegetel ou Free, l'entreprise, qui avait hier mission d'équiper le pays en réseaux de télécommunications et d'aménager ainsi le territoire, ne retient plus qu'impératifs de profits et retours sur investissement.
A La Poste ou à la SNCF, la découpe du service public prend une forme différente.
Le transfert d'activité vers le privé, plus lent, plus insensible, est réalisé par morcellement (filialisation et délégation au privé) suivant les types de missions. Mme Hélène Adam, du syndicat SUD-PTT, restitue la mécanique : «L'ouverture à la concurrence se fait d'abord en fonction du poids des objets à distribuer. Le colis est le premier à être ouvert à la concurrence, et FedEx ou DHL pénètrent les marchés domestiques en imprimant leur style purement commercial. La garantie, la vitesse, tout se paye comptant. La Poste crée sa filiale Geopost pour s 'aligner et gérer selon les mêmes critères de rentabilité pure. La forme juridique choisie est celle d'une holding dirigée par l'un des directeurs de La Poste [le directeur de la branche colis et logistique]. La holding "chapeaute "plusieurs filiales, dont Chronopost; dix-neuf mille agents sont employés des filiales de la holding Geopost, tandis que sept mille sont restés à la maison mère dans la branche correspondante. Le deuxième secteur "rentable", les services financiers, est lui aussi déjà filialisé par l'intermédiaire de la création d'une holding, La Banque postale, qui s 'aligne sur les activités de n'importe quelle banque. »
A Pôle emploi, le mode opératoire est proche. Faute d'embauche d'agents publics, le suivi de trois cent vingt mille demandeurs d'emploi a été délégué à des cabinets de recrutement (Sodie) ou à des agences d'intérim (Manpower). C'est aussi par l'organisation d'un mélange entre salariés de statuts divers (publics et privés) qu'imperceptiblement s'effectuent les privatisations. «Le personnel de La Poste, rappelle Mme Adam, est de plus en plus précarisé et divisé entre agents publics et salariés sous contrats privés des multiples filiales très cloisonnées par l'intermédiaire des holdings. Le recrutement de fonctionnaires a cessé en 2002. Pas celui de salariés de droit privé [en contrat à durée indéterminée ou déterminée]. L'effet ciseau, avec le vieillissement des fonctionnaires et leur retraite, joue à plein. En 2003, La Poste comptait 315364 agents : 200 852 fonctionnaires, 114 512 agents de droit privé. En 2008, sur 295 742 employés, elle compte 152 28 7 fonctionnaires et 143 455 salariés privés. Cette année les deux statuts feront jeu égal. » La privatisation de La Poste est déjà engagée. Elle précède, de beaucoup, la loi qui ouvrira son capital — et qui, par élargissements successifs, finira par la transformer officiellement en société anonyme.
Les moyens alloués ne couvrent pas les charges transférées
Enfin, il ne faudrait pas oublier le transfert de charges vers les collectivités territoriales. La décentralisation de 1982, et son acte II, impulsé dès 2002 par le premier ministre Jean-Pierre Raffarin — qui la qualifiait de «mère de toutes les réformes» —, ont donné aux élus locaux nombre de compétences nouvelles : formation professionnelle, transports, gestion des locaux et des personnels techniques, ouvriers et de service (TOS) des lycées et collèges, action sociale relèvent désormais largement des conseils généraux et régionaux. Sans, bien souvent, que les moyens alloués par l'Etat couvrent l'ensemble de ces missions. Comme l'indique M. Gilles Garnier, président du groupe communiste du conseil général de Seine-Saint-Denis, on a considéré que, sur un certain nombre de droits, comme le revenu minimum d'insertion [RMI], les compteurs s'arrêtent le jour du transfert. Le 1er janvier 2004, tous les allocataires du RMI devaient être payés par la collectivité territoriale, avec bien sûr les sommes afférentes, mais tout nouvel allocataire devient un allocataire départemental, qu'il faut financer».
La vice-présidente Verte du conseil régional d'Ile-de-France, Mme Francine Bavay, fait la même observation pour la formation sanitaire et sociale : «Dix millions d'euros sur un budget de 160 millions n'ont pas été couverts. Et nous en sommes là après trois années de discussion pied à pied, de réévaluation des masses transférées et de quatre recours. De facto, nous n 'avons obtenu que le maintien de l'existant.» Et l'élue de conclure que la motivation de la réforme a n'est pas d'essayer de rendre les institutions plus innovantes ou plus proches des ayants droit. Il s'agit de limiter l'engagement public d'Etat».
Resserrer les chaînes de commandement
Ce rétrécissement multiforme de la surface de l'État s'accompagne d'un mouvement moins visible de « caporalisation » de l'action publique : renforcement des hiérarchies et du contrôle pesant sur les agents du service public, et resserrement des chaînes de commandement. Imposer politiquement de nouvelles priorités aux institutions n'a rien de facile. On peut nommer des homme de confiance à la tête des administrations — les gouvernements ne s'en privent pas — mais sans garantie de l'effectivité des mesures prises. Car les agents chargés de les mettre en oeuvre les retraduisent, les aménagent, les adaptent aux routines professionnelles (5). Certaines élites sectorielles font même de la résistance. Médecins, universitaires, magistrats ou ingénieurs arguent ainsi qu'ils connaissent peut-être mieux que leur ministre les priorités de leur champ d'activité. Il en va de même pour une partie des inspecteurs généraux. Issus des administrations dans la tourmente et, par fonction, avocats des réformes, ils y introduisent néanmoins des nuances, des médiations qui atténuent la radicalité des projets initiaux.
Une situation inadmissible pour les responsables politiques qui sont à leur origine. Mais aussi pour les hauts fonctionnaires du ministère des finances qui, depuis des années, tentent d'imposer une nouvelle définition de l'intérêt général réduite au maintien des «équilibres financiers », face aux revendications de ceux qu'ils nomment avec mépris les ministères « dépensiers» (6). Jusqu'alors, leur zèle était partiellement contrarié par les règles de fonctionnement de l'administration qui protégeaient certaines plages d'autonomie. Ils ont donc accueilli avec enthousiasme les projets politiques qui mettent au pas les anciennes structures collégiales de décision, et nomment à cette fin des gestionnaires dotés de pouvoirs élargis.
C’est le cas, á l'hôpital. A la tête des n'uvelles Agences régionales de santé (ARS), se trouve maintenant un véritable « préfet sanitaire », désigné en conseil des ministres, responsable de toute la chaîne de soins au niveau de la région. Dans la première version de la loi « Hôpital, patients, santé et territoires », votée en juillet 2009, il pouvait même choisir les directeurs d'hôpitaux et les révoquer à tout moment. Ces derniers se sont mobilisés avec succès pour faire amender le texte sur ce point. Tout en prenant bien soin de renforcer leur propre autorité au sein des établissements... La loi élargit ainsi leur pouvoir pour fixer des objectifs et gérer les personnels, conformément aux vœux de M. Nicolas Sarkozy qui souhaitait donner « un patron et un seul à l'hôpital ». Ce qui ne facilite pas le dialogue. Comme l'indique le professeur André Grimaldi, chef du service de diabétologie à l'hôpital Pitié-Salpêtrière : « Avant, on était dans une logique de cogestion. Le directeur devait associer les médecins à ses décisions. Là, c'est fini, ils n 'auront rien à dire ».
Une reprise en main des secteurs jouissant d'une relative autonomie
DANS l'enseignement supérieur, le mouvement est étonnamment semblable. La loi relative aux libertés et responsabilités des universités (LRU), qui instaure l'« autonomie», affaiblit tout pouvoir collégial. « Avec les réformes — celle avortée de 2003 et celle de 2007 —, on est dans le cadre d'une gestion managériale autoritaire», explique le sociologue Frédéric Neyrat. La loi donne aux présidents, qui y sont pour l'essentiel favorables, des pouvoirs considérables face à leurs pairs universitaires. Ils peuvent notamment recruter des fonctionnaires ou des contractuels, ou casser les décisions collectives des commissions et des conseils de l'université.
Une même dynamique est à l'œuvre dans la justice. Au parquet, d'abord, avec la loi du 9 mars 2004 qui place les procureurs sous l'autorité hiérarchique de leur ministre, conférant à ce dernier un pouvoir d'intervention et d'orientation de la procédure dans chaque affaire. Chez les juges du siège ensuite, dont il s'agit de limiter l'indépendance parla «mobilité ». S'ils ne peuvent être mutés géographiquement, ils peuvent se voir affectés à des fonctions diverses en fonction des impératifs de gestion du tribunal. Comme le rappelle le magistrat Gilles Sainati : « Un juge de la liberté et de la détention dont la jurisprudence apparaîtrait trop "laxiste" en regard des normes préfectorales de reconduite à la frontière des étrangers pourra sans difficultés être renvoyé aux affaires familiales ou aux tutelles »... Pour couronner l'édifice, depuis 2009, les magistrats sont minoritaires au sein du Conseil supérieur de la magistrature (CSM), chargé de leur nomination et de leur discipline, face à des personnalités extérieures, désignées par l'Elysée et par les présidents de l'Assemblée nationale et du Sénat.
Ce renforcement du contrôle passe également par la reprise en main de secteurs qui jouissaient d'une relative autonomie. Ce que relève M. Noël Daucé, secrétaire général du Syndicat national unitaire de Pôle emploi, qui parle d'« étatisation» pour décrire la fusion entre l'Agence nationale pour l'emploi (ANPE) et des Associations pour l'emploi dans l'industrie et le commerce (Assédic) dans le nouvel ensemble Pôle emploi, en janvier 2009. I; ANPE était un établissement public à caractère administratif, l'Unedic — qui chapeaute les Assédic — une association de droit privé, gérée paritairement par les organisations patronales et syndicales. Le regroupement au niveau local des deux structures renforce largement le poids des acteurs étatiques.
Le conseil d'administration de Pôle emploi comprend cinq représentants de l'Etat et deux personnalités qualifiées choisies par le ministre, aux côtés des cinq membres représentant les employeurs et des cinq délégués des salariés (7). Quant au délégué général — actuellement M. Christian Charpy, membre du cabinet du premier ministre de 2003 2005, puis directeur de l'ANPE —, il est nommé directement par le gouvernement, l'avis du conseil restant consultatif. On pourrait également citer le cas de la gestion des fonds du 1 % logement — dont on pouvait certes critiquer l'opacité —, mais qui échappe aujourd'hui largement aux partenaires sociaux, pour passer sous tutelle de l'administration.
Les candidats à ces nouveaux postes de manager public ne manquent pas. Pour y accéder, sont déterminants les liens personnels avec le prince ou ses conseillers — qui par là se constituent une clientèle d'obligés. Ces nominations ne sont pas seulement rétributions symboliques : primes, salaires indexés sur les «objectifs» viennent compléter ou remplacer les grilles indiciaires de la fonction publique.
«On a oublié que l'hôpital soignait les pauvres»
UNE TELLE VOLONTÉ de contrôler les administrations n'est pas nouvelle.
Le Parlement, la Cour des comptes, l'inspection des finances s'y emploient depuis longtemps. Mais ce n'est que récemment que des «indicateurs de performance » ont pris le pas sur toute autre considération. En l'espèce, la loi organique relative aux lois de finances (LOLF), votée en 2001, signe plus que toute autre le triomphe des conceptions des hauts fonctionnaires du ministère des finances, convertis aux idées managériales (8). La LOLF impose un pilotage stratégique des administrations, avec des objectifs à atteindre et des indicateurs à renseigner. Les fonctionnaires chargés de l'action publique doivent présenter un projet annuel de performance (PAP) dont ils sont responsables (9).
Dans les faits, toute activité est réduite à une logique comptable, proche des bilans financiers des entreprises. Ce que résume le professeur Grimaldi pour l'hôpital : «On a créé artificiellement l'idée qu'il existe des patients rentables et non rentables. Qu'est-ce qui est rentable ? Au fond, ce qui est facilement quantifiable, numérisable, vendable. Ce sont les procédures techniques, de gravité moyenne, programmables, chez des gens qui n'ont pas de problèmes psychologiques et sociaux. La cataracte simple, faite en série. Et qu'est-ce ce qui n'est pas rentable? Tout ce qui est dans la complexité la pathologie chronique, le sujet âgé, les facteurs psychologiques et sociaux. (...) On a simplement oublié que l'hôpital soignait les pauvres et les cas graves... »
Les accommodements de cet idéal gestionnaire sont connus. Si les personnels d'encadrement consomment beaucoup de leur temps et de leur énergie pour remplir les indicateurs, ils apprennent aussi à les domestiquer. Comme le signalait ce haut responsable policier lors du 32e congrès du Syndicat des commissaires et hauts fonctionnaires de la police nationale (SCHFPN), à Montluçon en 2003: «Le risque évident est de présenter une copie "propre". On ne triche pas avec les chiffres, mais on devient malin. » Ainsi, pour faire baisser la délinquance enregistrée et augmenter les taux d'élucidation, qui constituent les priorités du PAP de la police nationale, l'imagination des agents est débordante : refus de prendre les plaintes, renvoi du plaignant d'un commissariat à l'autre, regroupement ou requalification des faits constatés, concentration de l'activité des services sur les délits les plus «rentables» statistiquement (les stupéfiants ou les étrangers) (10). La contrainte de la production de «bons» chiffres dépasse la police. Elle s'est imposée à tous les niveaux de la hiérarchie du service public.
Au quotidien, le métier devient impossible
REVENIR à l'histoire fait saisir l'am- pleur de cette modernisation mana‑
gériale. En Europe occidentale, le développement de l'administration a été la condition de la naissance d'une raison d'Etat distincte de celle du monarque. On est ainsi passé d'une gestion privée et personnelle des affaires publiques (la Maison du roi) à celle, collective et impersonnelle, des administrations. La construction de l'Etat moderne s'appuya sur l'émergence d'une vision du service public comme activité «désintéressée », orientée vers des fins universelles (11). Or c'est précisément cette représentation des fonctions de l'Etat qui est au centre des tirs.
Avec les redéfinitions des métiers — que ce soit aux impôts, avec les conseillers des agences pour l'emploi, parmi les enseignants ou ailleurs — se défait le rapport à des professions hier vécues comme «service rendu ». Bien des fonctionnaires vivent désormais leur fonction douloureusement, dans une situation de porte-à-faux qui enveloppe toute leur activité professionnelle. Le sens de sa tâche (et de soi-même l'accomplissant) entre en contradiction avec les nouveaux critères d'évaluation. Quotidiennement, le métier devient mission impossible dans les relations aux usagers. L'épuisement professionnel qui s'ensuit est incompatible avec les diverses formes de «management par objectifs ».
Reste la fuite : suicides, tentatives de suicide, arrêt-maladie, psychotropes chez les agents soumis à la «culpabilité du chiffre» . «On vient au boulot chaque matin à reculons. Les discussions entre collègues tournent autour de la retraite, combien de temps te reste-t-il à tirer?», confie M. Pierre Le Goas, du service des impôts des particuliers de Lannion (12). Reste l'effondrement. «Les ambiances sont tellement tendues, avec l'augmentation de la charge de travail, que les agents pleurent sur les sites », témoigne Mme Delphine Cara, responsable vendéenne du SNU-Pôle emploi (13).
Mais la «modernisation» de l'Etat entre dans les faits, car elle s'immisce dans les actes les plus anodins des employés du secteur public. Parce qu'indépendamment des sacrifices, des souffrances, du déboussolement et des tensions, les salariés qui la subissent n'ont d'autre choix que d'y participer et de la mettre en ceuvre à tout instant. En l'habitant à leur manière. En s'en accommodant. Mieux : ils trouvent d'eux-mêmes les meilleures façons de faire, afin que tiennent des situations intenables, malgré la surcharge de travail. Entre autres, parce que subsiste de l'état antérieur des métiers d'Etat une forme de dévouement hier constitutif de la «mission de service public ». Ce qui pousse, cas parmi tant d'autres, Marie-Jo, du Pôle emploi de Nice, à sauvegarder ses fichiers professionnels sur sa clé USB personnelle, pour les regarder à la maison. Survivent encore les façons auparavant apprises d'accomplir son devoir, « lorsqu'on avait des gens, pas des dossiers», commente Françoise, du Pôle emploi de Grasse (14).
Plaire au ministre, au chef de cabinet,au président
EN MATIÈRE de démantèlement de l'Etat, l'efficacité tient à ce paradoxe : la situation antérieure d'accomplissement du service public — la relation au métier, les dispositions sociales (de dévouement, d'implication) constitutives de celle-ci — permet l'application des réformes qui détruisent les formes habituelles de son exercice et les raisons de s'y impliquer.
Cette transformation ne peut donc être réduite à la mobilisation des noblesses d'Etat qui la promeuvent et s'en font gloire, de plaquettes d'instructions en bilans satisfaits. Bien sûr, les compétitions «pour plaire» — au ministre, au chef de cabinet, au président de la République — et les rivalités qui les traversent, de même que leur incessante circulation du public au privé et inversement, y contribuent.
Mais l'avènement d'un Etat manager résulte aussi, chaque jour, de l'activité incessante et cumulée des milliers d'agents publics, qui peut-être n'en veulent pas, mais qui, réalisant leur métier, quoi qu'il en coûte, «font avec», et l'intègrent comme ils peuvent aux « choses à faire ».
Certes, les protestations abondent. Magistrats, avocats, greffiers se sont mobilisés contre la carte judiciaire. Près de quarante-six mille salariés de Pôle emploi étaient en grève en octobre 2009. Les enseignants du supérieur ont longuement refusé la réforme de leur métier. Les médecins hospitaliers défilaient au printemps pour sauver l'hôpital public. Les professeurs du primaire et du secondaire multiplient les journées d'action. Mais, dans leurs soucis professionnels, dans leurs patrimoines (économiques et culturels), dans leurs origines sociales et leurs façons d'agir (même pour se mobiliser), les professeurs de médecine ne sont pas des postiers, des conseillers pour l'emploi, des greffiers ou des policiers. Comment les uns se soucieraient-ils des autres, spontanément, et a fortiori pratiquement?
Personne ne semble alors pouvoir soutenir personne, ce qui alimente le sentiment général d'écrasement. Or c'est précisément des confrontations nouvelles qu'elle installe (entre usagers et agents publics, et entre agents publics de différents niveaux et de différents services) que cette vague de transformation tire sa force. Et de leur dissimulation. En restituer les mécanismes dans leur ensemble, c'est déjà les contrarier et signifier qu'est en jeu la défense d'un modèle de civilisation.
LAURENT BONELLI ET WILLY PELLETIER.
(1) Cet article reprend les grandes lignes d'un colloque intitulé a L'Etat démantelé », organisé par Le Monde diplomatique et la Fondation Copernic à l'Assemblée nationale en juin 2009. Les interventions auxquelles il est fait référence seront publiées dans un ouvrage à paraître aux éditions de La Découverte au printemps 2010.
(2) Avec, conjointement, l'allégement du nombre d'heures de cours dispensées aux élèves, l'accroissement de la taille des classes, le non-remplacement des professeurs absents et l'incitation à ne pas inscrire les enfants en maternelle avant 3 ans.
(3) Le Figaro, Paris, 17 août 2009.
(4) La Poste comptait trois cent mille agents, quasiment tous fonctionnaires en 1991.
(5) Cf. notamment Vincent Dubois, La Vie au guichet. Relation administrative et traitement de la misère, Economica, Paris, 2003.
(6) Sur les politiques volontaristes d'assèchement des recettes de l'Etat comme levier de réforme, cf. Sébastien Guex, «La politique des caisses vides. Etat, finances publiques et mondialisation », Actes de la recherche en sciences sociales, n°146-147, Paris, mars 2003.
(7) Loi n°2008-126 du 13 février 2008 relative à la réforme de l'organisation du service public de l'emploi. Le conseil comporte également un représentant des collectivités territoriales.
(8) Cf. Philippe Bezes, Réinventer l'Etat Les réformes de l'administration française (1962-2008), Presses universitaires de France, Paris, 2009, p. 451-455.
(9) L'ensemble des PAP est accessible sur vovw.performance-publique.gouv.fr/farandole/2010/pap.html
(10) On trouvera une liste étoffée de ces pratiques dans l'ouvrage de Jean-Hugues Matelly et Christian Mouhanna, Police. Des chiffres et des doutes, Michalon, Paris, 2007.
(11) Pierre Bourdieu, La Noblesse d'Etat. Grandes écoles et esprit de corps, Editions de Minuit, Paris, 1989, p. 544.
(12) L'Humanité, Paris, 21 octobre 2009.
(13) Le Monde, 22 octobre 2009.
(14) L'Humanité, 20 octobre 2009.
Martedì 05 Gennaio,2010 Ore: 08:30