Libri
Farci carico delle vittime

di Enrico Peyretti

Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Oscar Mondadori 2009 (prima edizione 2007) , pp. 127, € 9,00


Il terrorismo continua a incidere sulla nostra storia, non solo con le ingiustizie e i dolori che ha inflitto, ma anche con le reazioni sane della coscienza umana alla violenza come strumento di lotta. Nella mia e nelle successive generazioni, chi ha accettato l’impegno per la pace nonviolenta, lo ha fatto in buona parte come risposta alla guerra del Vietnam e al terrorismo interno. Lì siamo nati alla politica come ricerca di nonviolenza attiva: cioè ripudio della violenza fisica e bellica, rottura delle violenze strutturali, critica della cultura violenta. Il male non nuoce soltanto, ma dimostra necessario il bene. Qualcosa in noi può «spingere più in là» il buio delle notti peggiori. Anche questo libro vuole farlo, per la sua parte.
L’Autore, giornalista, è figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano il 17 maggio 1972 da Ovidio Bompressi, di Lotta Continua. Una intensa campagna di stampa lo accusava della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, presenti nella stanza cinque agenti, ma non Calabresi stesso. L’ultima sentenza stabilì che la causa della caduta fu un “malore attivo” del Pinelli, dopo tre giorni di interrogatori serrati come sospettato per la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Per l’uccisione di Calabresi furono condannati nel 1997, in una serie di processi e sentenze diverse dal 1988 al 2000, oltre il Bompressi, anche Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani come mandanti. Bompressi, malato, è stato graziato nel 2006. Pietrostefani è fuggito in Francia. Sofri è stato in prigione dal 1997 al 2005, quando ha ottenuto il lavoro esterno e poi la sospensione della pena per gravi motivi di salute.
 
Mito e realtà   
Negli ultimi anni, la realtà e il mito del terrorismo internazionale hanno creato gli opposti miti e realtà delle guerre vendicative e preventive, contro i popoli più che contro i terroristi, in una spirale maledetta e stolta di cause ed effetti reciproci tra le due violenze, senza ricerca e impegno sulle cause. La lotta armata in Italia è stata superata più per il rifiuto popolare di riconoscerla che per la repressione statale. Il gen. Dalla Chiesa convinse Peci a pentirsi e fu l’inizio della fine delle BR (p. 116). Ma molti di noi meno giovani ne siamo stati toccati a fondo, almeno come rischio o minaccia, o vittime vicine. Bastava, a Torino, essere consiglieri di circoscrizione (come era mia moglie, e le riunioni erano dopo cena) per essere possibili bersagli. Tra le vittime io ho avuto Vittorio Bachelet e Pinuccio Taliercio, amici personali negli anni formativi della gioventù, e alcuni conoscenti, come Aldo Moro, il maresciallo Berardi, Carlo Casalegno. Un rapimento o un’uccisione, quando hanno un volto prossimo, sono molto più che una brutta notizia di cronaca. Comprendo bene come può ricordare e scrivere un figlio.
Eppure bisogna anche inquadrare documenti come questo libro nella storia politica sociale morale del nostro popolo. Calabresi afferma che, a fronte di tanti libri scritti da terroristi, dal loro punto di vista, non c’è «quasi nulla che racconti le vittime, le persone che sono morte, il loro lavoro» (p. 20). «Manca completamente l’altra voce» (p. 21). Cita solo Agnese Moro, Giovanni Fasanella, Giovanni Minoli. Forse questo giudizio è esagerato, bisognerebbe valutare bene le proporzioni. Però è vero e giusto che il dolore possa trovare, anche dopo anni, una voce serena, anche se amara, e impegnata a superare il risentimento, o peggio l’odio causato dall’odio, come fa in buona parte la voce di questo libro.
 
Tante vittime
Ma, in verità, le vittime di quella violenza politica non sono le più dimenticate: hanno la voce dello Stato. Molto di più sono prive di voce udibile, e di interpreti, le vittime delle ingiustizie sociali, del lavoro, del profitto, gli “esuberi” della competizione selettiva. Già le vittime pubbliche della mafia sono riconosciute e sofferte dai più. Ma quante sono le vittime invisibili? Quante le masse umane, senza nomi né volti, immolate allo sviluppo diseguale e sacrificale, che noi cavalchiamo, e chiamiamo progresso, e difendiamo con le armi e i “respingimenti”? Scommetto che le vittime, nel loro paradiso, non vogliono gerarchie e primati.
Calabresi fu accusato e ucciso per la morte di Pinelli. Il figlio incolpa la campagna di stampa vendicativa, specialmente del quotidiano Lotta Continua, ma riconosce l’indignazione per quella morte, che tutti noi provammo, e scrive parole gravi: «Se fossi stato un giornalista allora mi sarei indignato. La polizia e la questura avevano il dovere di spiegare cos’era successo, senza opacità, senza reticenze, dovevano accertare con severità e chiarezza come era stato possibile che un uomo arrivato in questura sul suo motorino e rimasto sotto interrogatorio per tre giorni [si veda a p. 52: quasi digiuno, e senza poter dormire!] fosse caduto da una finestra, morendo poco dopo. Invece ci furono ambiguità, chiusure, quel pezzo di Stato per il quale lavorava mio padre, che faceva capo al Viminale e aveva sede in via Fatebenefratelli a Milano, diede una pessima prova di sé e con le sue reticenze insultò il Paese e avallò i più terribili sospetti. L’indignazione e poi la rabbia e infine il linciaggio pubblico non si concentrarono però sul questore Marcello Guida, che si precipitò subito a presentare ai giornalisti il suicidio come un’autoaccusa da parte di Pinelli di complicità nella strage, né contro il capo dell’ufficio politico Antonino Allegra, responsabile della durata del fermo [senza autorizzazione della magistratura, p. 53-54]. Si concentrarono su Luigi Calabresi, che era il più giovane, il più visibile, il più dialogante» (p. 43).
Egli infatti – racconta il figlio – era dell’idea che non si dovesse puntare sulla repressione, e dunque andava a casa di Feltrinelli, discuteva con i manifestanti. Una volta, seguendo in servizio una manifestazione, camminava proprio vicino a Pinelli, il quale disse a Marco Pannella che Calabresi era «una bravissima persona». Anche in altri casi i terroristi “punirono” rappresentanti più “moderati” del sistema statale, nell’idea che il “tanto peggio tanto meglio” avrebbe favorito il grande scontro risolutivo. Ma perché i funzionari superiori non ripararono Calabresi, se avevano una verità che lo scagionava? L’ipotesi che farà D’Ambrosio lascia gravi dubbi sul sistema inquisitorio, che subì deviazioni accanite contro gli anarchici.
 
Un motivo di fondo
L’Autore lamenta che il ricordo pubblico di suo padre venga sempre associato a quello di Pinelli, e cita Penati che, nel 2007, avrebbe definito una «sbavatura» questo dovere «legare il suo nome a quello di Pinelli», quasi per pareggiarli (pp. 46-47). Dopo l’uscita del libro, il 9 maggio di questo 2009, giornata della memoria delle vittime del terrorismo, il Presidente Napolitano ha ricevuto insieme le vedove Calabresi e Pinelli, che si sono incontrate cordialmente, e ha parlato di «onore restituito» a Pinelli, innocente della strage di piazza Fontana.
Quando Calabresi fu scagionato per la morte di Pinelli, era già stato ucciso. Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, che indagò sul caso (ed è lo stesso giudice che liberò gli anarchici da ogni accusa per la strage di piazza Fontana), riassume nel 2006: «Non c’era nessuna prova che Pinelli fosse stato ucciso. Nessuna prova. L’ipotesi più probabile è che, dopo l’interrogatorio, abbia aperto la finestra per prendere una boccata d’aria, che il digiuno, la stanchezza, la tensione abbiano provocato un giramento di testa, una vertigine, e che, quindi, sia caduto dalla ringhiera» (p. 53). È quello che poi sarà chiamato un “malore attivo”. Se non è stato ucciso da una persona, Pinelli è stato ucciso dall’interrogatorio.
Il figlio di Calabresi racconta che sua madre parlava di Pinelli ai figli con delicatezza, «legava i due destini, non li ha mai contrapposti». Una volta gli diede da leggere l’Antologia di Spoon River, rivelandogli che era stato proprio Pinelli a regalarla a papà, un Natale. «In casa nostra Pinelli non è mai stato un nemico» (p. 54).
La figlia di un’altra vittima, un medico, ricorda comportamenti beffardi e offensivi degli imputati durante il processo, e lamenta anche lei che ora i terroristi abbiano troppa voce pubblica: «Dovrebbero essere almeno condannati al silenzio sociale: non hanno da insegnare niente» (p. 62-63; v. anche p. 71). Il male semina semi amari. Chi ha dato dolore dovrebbe conservare umiltà e delicatezza. Non merita il perpetuo bando civile, ma l’aver scontato il carcere non cancella i dolori inflitti. «Mia madre – scrive Calabresi – è una persona focalizzata sull’idea di camminare e guardare sempre avanti, di lavorare per la riconciliazione, il perdono, la sostiene una fede vitale e fortissima», ma, dopo aver incontrato la vedova sconsolata di quel medico, gli dice: «Ho ripensato (…) a quello che ci hanno fatto, a quanto siamo stati tutti lasciati soli, e come tutto sia passato in cavalleria e mi ha preso lo sconforto: siamo stati tutti troppo buoni, troppo pazienti» (p. 66). Questo giudizio, sebbene alternato ad altri toni, sembra un motivo di fondo del libro.
 
Il miracolo dei bimbi
Nel luglio 2004 viene votata una legge in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi. Ma nel 2009 non ha ancora completa attuazione. «Questa sensazione di disinteresse, d’abbandono è la causa che coltiva il malessere». Quando Napolitano firma la grazia a Bompressi, pratica già istruita da Ciampi, nessuno avverte la famiglia Calabresi, che rimane malissimo. Non occorreva certo il permesso, ma un po’ di sensibilità, dice l’Autore. L’indomani Napolitano telefona, spiega, salda un rapporto che era già di stima e rispetto (p. 68-70).
Un forte «fastidio» genera nei familiari delle vittime l’elezione alla Camera di Sergio D’Elia, responsabile di aver ucciso un agente, sebbene da tempo impegnato contro la pena di morte. Ha scontato la pena e riacquistato i diritti civili, ma viene addirittura promosso come segretario di Montecitorio. C’è dibattito, ma formale, senza un cenno di rammarico o ricordo per chi è stato ucciso. Solo alcuni politici esprimono solidarietà alla figlia della vittima. Casi analoghi sono quello di Roberto Del Bello e di Susanna Ronconi, nominata dal ministro Ferrero consulente sulle tossicodipendenze, illegalmente perché ancora interdetta dai pubblici uffici. Le sue dichiarazioni, però, sono più chiare e sincere. Altri comportamenti di insensibilità hanno toccato anche le vittime di via Fani. Ad una lettera in argomento Corrado Augias risponde su Repubblica che per i colpevoli c’è il “fine pena”, ma la pena non finisce mai per i familiari degli uccisi, e denuncia che «la disparità di trattamento tra chi uccise e chi venne ucciso è irreparabile, continua negli anni» aggravata dalle esibizioni pubbliche dei colpevoli e dall’abbandono delle vittime (pp. 70-75). «Da chi si sente dimenticato (…) come si può pretendere serenità di giudizio? Come si può chiedere il coraggio della clemenza?», scrive Calanresi (p. 92).
C’è del vero, ed è doloroso. Ma su questa linea non “si va avanti” molto (secondo quel bell’atteggiamento che l’Autore nota in sua madre), e non si esce dal passato. La giustizia più sana aiuta tutti a rigenerarsi, colpevoli e vittime. L’esperienza di “Verità e Riconciliazione” in Sudafrica negli anni ‘90, che vari libri e articoli hanno illustrato, è una giustizia più avanzata, che richiede e promuove una spiritualità e una umanità più fine e coraggiosa.
E’ bello che la vita vada avanti, anche in casa Calabresi. Tonino è un nuovo papà, che sa far ridere i bambini, a cui insegna mille cose, e scrive poesie. Un suo amico designer ha messo a punto la bandiera della pace. Nasce anche un nuovo fratellino, che un giorno dice la verità dei bimbi: «Voglio bene ai fratelli e mi dispiace che il loro papà è morto, ma se non fosse successo io non sarei nato». Il miracolo dei bimbi è che fanno ricominciare tutto, sempre, contro le forze negative. E le madri aiutano la vita (pp. 76-83).
 
Noi che abbiamo l’età
C’è anche l’11 settembre, nel libro, e tante altre cose che fanno pensare e sentire l’umanità. Calabresi vorrebbe in Italia un luogo memoriale delle vittime della violenza politica, come c’è negli Stati Uniti quello delle 58.202 vittime della guerra in Vietnam. Vittime, sì, ma della loro guerra! Anche gli aggressori diventano vittime, come scrive Makoto Oda, giapponese, in Ichigo Ichie (Ogni incontro è irripetibile). Ma le vittime aggredite sono tantissime di più, in Vietnam. E così nel mondo. Gli Usa ricordano forse le vittime fatte da loro?
Noi che abbiamo l’età per aver vissuto quei giorni, e averli avuti a ridosso, e sofferti dentro, e ne scriviamo da quarant’anni, sappiamo di non avere mai dato la minima indulgenza all’uso della morte per liberare la vita, all’ingiustizia omicida contro le ingiustizie mondiali e nazionali. Mai indulgenza. Però, a differenza di tante voci potenti e conformizzanti, mentre condannavamo l’ingiustizia totale dei mezzi violenti usati dai terroristi, riconoscevamo la giustizia astratta del loro fine, sebbene cercato in modo del tutto contraddittorio, perciò tradito. Ogni contatto umano era oggettivamente impossibile con chi credeva che le armi potessero fare giustizia. Qualche caso di cammino personale, consapevole, dignitoso, non di convenienza, di uscita dalla cultura violenta, lo abbiamo conosciuto e stimato, dopo anni. Gli equivoci sono inevitabili: lo stesso Autore, figlio di padre ucciso dai terroristi, si è sentito apostrofare «amico dei terroristi» (p. 99).
Soprattutto, dall’intera vicenda abbiamo imparato e reimparato la lezione antica e sempre un passo davanti a tutti, che Gandhi ha dato in modo eminente: il fine giusto richiede mezzi giusti; il fine non rende giusti i mezzi ingiusti; questi determinano l’ingiustizia del risultato; solo se affrontata con la forza costruttiva della verità e dell’anima, la violenza è smascherata dell’aura sacra che si attribuisce, è svergognata davanti alle coscienze, e questo è il vero efficace inizio della sua fine. Allora ci mettemmo a studiare Gandhi e le lotte gandhiane nel mondo e nella storia. Molti se la cavavano con lo slogan “Né con lo Stato né con le BR”. Ernesto Balducci scriveva invece, con viva intelligenza storica ma non statica (su Bozze, la rivista di La Valle): “Con lo Stato, oltre lo Stato”
E il vescovo dei poveri Helder Camara ci insegnò che la violenza non comincia con la ribellione, ma nasce con l’oppressione, viene imitata e quasi confermata dalla ribellione inutilmente violenta, infine si vendica con la repressione. E i poveri sono sempre offesi, sono vittime degli uni e degli altri, dimenticati e traditi tre volte.
«Farsi carico delle vittime», insiste l’Autore (p. 91 e ss.). Malamente e ferocemente i combattenti della lotta armata volevano farsi carico delle masse di vittime dei sistemi violenti. Non vedevano, succubi della stessa cultura che odiavano, che la logica sacrificale-anti-sacrificale esaspera e non libera dai sacrifici umani. L’unico “sacri-ficio” (“sacrum facere”, azione grande, superiore, sacra) è giocare se stessi nella libera novità donativa, nella resistenza alternativa, senza in nulla imitare la violenza odiata. Alcuni avevano anche uno spirito di sacrificio, ma, alla maniera di Sansone, della truffaldina retorica militare, del sui-omicidio del kamikaze, erano pronti a morire per uccidere: un modo di morire che di più non potrebbe contraddire la vita, uccidendo ogni speranza e ogni paradiso, nella storia o nell’aldilà.
Delle vittime fatte da loro, in tale accecamento, giustamente dobbiamo farci carico. L’onore maggiore che si possa fare ad una vittima di violenza è la costruzione di una cultura, una politica, un’economia, una gestione dei conflitti e della giustizia, un costume quotidiano, che abbia come primo scopo di liberare ogni vittima, la più invisibile, e di impedire che si faccia alcuna nuova vittima. Chi è morto di violenza politica, oggi, dal mondo superiore di verità e giustizia, guarda alle vittime attuali della violenza economica, sistematica e silenziosa, quella che spara solo quando non le basta affamare e soffocare, quella che strozza anche le anime convincendole che la giustizia è impossibile. Quei morti ci chiedono di farci carico di queste masse di vittime.
Il libro porta ancora vicende successive: come arrivano a volte le firme di personaggi noti agli appelli pubblici, e come sia difficile correggere giudizi lanciati in fretta (pp. 111-115). Calabresi documenta certamente la rabbia dei familiari, i loro atroci rimpianti. Davanti ad una foto di Sofri con la nipotina: «Ricordatevelo, nostro padre il nonno non lo ha potuto fare». Ma quando Bompressi è condannato, la madre dell’Autore piange. Perché? «Per la figlia di Bompressi, oggi ha perso il padre» (pp. 101, 102). I figli di Marco Biagi ricordano l’educazione del padre ad essere giusti. I figli di Walter Tobagi sono stati educati dalla madre a crescere «senza odio per nessuno (…) liberi da ogni sentimento di rancore e di odio» (p. 123). Questo vale di più e fa più futuro, di ogni memoriale e di ogni medaglia commemorativa.
Enrico Peyretti, 28 agosto 2009


Martedì 01 Settembre,2009 Ore: 15:07