Nomadelfia: nient’altro che Vangelo!

di PIERSANDRO VANZAN S.I. (Redattore di «La Civiltà Cattolica»)

La figura di don Zeno Saltini a sessant’anni dalla fondazione di Nomadelfia


Riprendiamo da Aggiornamenti sociali settembre-ottobre 2007 questo articolo di PIERSANDRO VANZAN S.I. (Redattore di «La Civiltà Cattolica») sulla figura di don Zeno Saltini

p. 626 Esperienze AS 09-10 [20071626-634

Piersandro Vanzan S.I. * Nomadelfia:nient’altro che Vangelo!

Sessant’anni sono trascorsi dal gesto che diede origine all’esperienza di Nomadelfia (l’occupazione dell’ex campo di concentramento di Fossoli (MO). Nell’imminenza delle celebrazioni che ne ricorderanno la riuscita ufficiale nel 1948 (RAI 1 sta preparando uno sceneggiato televisivo su don Zeno per la primavera del 2008), ricordiamo la figura del fondatore attingendo alla viva testimonianza di chi ha strettamente collaborato con lui e alla ricerca dell’intenzione che animò la sua avventura.

0 Oltre mezzo secolo fa, nel 1952, don Zeno Saltini, vulcanico, geniale ma tribolato fondatore di un esperimento d’avanguardia del «veniente Regno di Dio» - Nomadelfia, «dove la fraternità è legge» (1) -, saliva al triste onore delle cronache, anche giudiziarie, per aver coraggiosamente (o con poco discernimento?) inteso realizzare il Vangelo sine glossa, alla lettera. Nel presentare i tratti principali di questo singolare personaggio - nato a Fossoli di Carpi (MO) il 30 agosto 1900 e morto a Nomadelfia (GR) il 15 gennaio 1981 - e dell’incredibile opera che ha realizzato, attingiamo prevalentemente da quanto di recente ha scritto di lui chi per 10 anni gli fu segretario e confidente, anche se nel corso del testo citeremo qualche altra opera significativa (2).

Dall’insieme risulta evidente che don Zeno sfugge a ogni categoria e schema,

fatta eccezione per quelli dell’«utopia», correttamente intesa (3).Fin da piccolo, inconsapevolmente - secondo gli itinerari mai scontati della Grazia -, gli scorre nelle vene qualcosa di utopico. A 14 anni, infatti, rifiuta la scuola, perché «è lì che la società ci divide». Lavora con i braccianti del nonno, ne conosce le miserie, ne condivide le rivendicazioni. Nel 1920, soldato di leva a Firenze, un anarchico lo provoca: «Dite che siete fratelli e tra voi cristiani ci sono sfruttati e sfruttatori. Non m’interessa il singolo, ma l’insieme. Predicando la rassegnazione, Siete d’ostacolo al progresso umano. Perfino preti ricchi, preti poveri. Farabutti! Perché non fate quello che ha detto Cristo?». Quello scontro lo mette in crisi, non sa rintuzzare l’anarchico e confessa: «Mi ritiro sconfitto. Chiedo a Dio di morire. Mi butto sulla branda. Un braciere. Prendo una boccata d’aria alla finestra: Firenze, ai miei piedi, mi sembra il mondo intero. Fisso un punto lontano. Mi viene da dire: "Basta! Né padrone né servo, cambio civiltà in me stesso"» (p. 25).

1.      I primi passi dell’avventura

L’accennato bisogno di cambiamento - avendo preso coscienza del «peccato sociale» -, inizia con la ripresa degli studi e con l’impegno nell’Azione Cattolica: fonda un circolo sportivo e lancia un periodico, che diventerà addirittura nazionale; poi fonda una scuola d’arti e mestieri per piccoli delinquenti; ma non gli basta: «Diamo loro cibo, istruzione, lavoro ma noi, gratificati, loro, umiliati. Impossibile essere alla pari: noi assistenti, loro assistiti; noi al di sopra, loro al di sotto». Laureatosi avvocato (nel 1929), dice: «Potrei mitigare la pena ma sono stanco di fare del bene in modo che tutto rimanga come prima. Curare è bene, prevenire è meglio. Mi faccio prete» (p. 30). Ordinato sacerdote, alla prima Messa sconcerta tutti, presentandosi all’altare con un ex carcerato, il primo dei 4mila che via via saranno i suoi figli. Perché, dice: «La mia messa è quella lì: sposo la Chiesa, le do un figlio, non un assistito. Odio l’assistenza» (p. 32). È l’inizio di un modo nuovo di essere prete. Non per sentirsi buono, consolando le vittime, ma perché esse gli fanno sentire la sua complicità con i delitti sociali e, perciò stesso, lo incalzano a realizzare una nuova società. Come trasmettere Dio a un «figlio di nessuno», che del «padre» conosce solo le botte e l’abbandono? «È venuta da noi una ragazza con due figli avuti da suo padre. Umiliata, finita. Chi può dirle che Dio la ama come un papà?» (p. 114).

Intanto ne inventa di tutte per stare con la gente più semplice: burattini, radio, circo, cinema, libri, giornalino, mensa per bambini poveri. Nel 1933 nasce l"Opera Piccoli Apostoli, la sua famiglia. Si sparge la voce, la canonica si riempie di abbandonati e la coscienza di interrogativi: «Va bene accoglierli ma così diventiamo servi del sistema, che produce vittime e chi gliele cura? È meglio battersi in piazza, perché sono frutto di una politica sbagliata. Se non si cambiano le strutture, non cambia niente» (p. 49). Nel 1937 arrivano le suore. Mensa appartata, vincolate alle pratiche di pietà, la sera si eclissano. Gli regalano una gallina. Acena trova i ragazzi alle prese con le zampe e le ali. In cucina sorprende le religiose in azione sulle cosce e il petto. Le rispedisce in convento. «E’ la troppa preghiera che le ha rovinate. Il ripetersi d’atti d’amore spirituali, non attuati quindi astratti, ha sdoppiato la loro anima. Che paradosso crederci qualcosa più degli ultimi e curare le anime divise dal corpo! In gran parte è una spiritualità evanescente. Quando va male, i primi a sentirne gli effetti, anche nel fisico, dobbiamo essere noi, non i fanciulli né il popolo» (p. 42).

Di fatto, anche il popolo è orfano, e allora don Zeno va sulle piazze, nelle osterie, fisarmonica a tracolla, Vangelo nel cuore. Invita le donne a venire a far da mamma e le famiglie a fraternizzare tra loro. Nel 1941 arrivano le "mamme di vocazione" e si formano delle famigliole. Per Zeno accogliere questi orfanelli non è facoltativo, ma atto di giustizia: se un bimbo perde il genitore bisogna restituirglielo. L’elemosina è umiliante, l’assistenza inadeguata. A Pompei (1943) si imbatte nella Casa per i figli dei carcerati. «Il prete ha il coraggio di chiamare così coloro che Dio ha scelto, perché rifiutati dagli uomini? Disprezzati dal mondo è un conto ma anche dalla Chiesa non è troppo? E’ lecito commettere di questi guai?» (p. 66}. Come hanno fatto i religiosi a canonizzare l’assistenzialismo? Nel 1943 una dozzina di preti abbracciano la sua causa e accolgono in canonica gli abbandonati. Cura i figli di nessuno, perché vuole risalire alle radici del male. Dirà al questore: «La meraviglia che io, Sacerdote, mi dedico alla lotta sociale? Nomadelfia accetta le vittime dei disordini al fine di sanarne le cause» (p. 1613). E gli spiega che «a un abbandonato devo poter dire con i fatti: la morte dei tuoi cari non è irreparabile. Io, facendomi tuo padre, sono per te resurrezione e vita. Non ti do una famiglia ma una comunità. perché i genitori passano, il popolo rimane».

A guerra finita, nel 1947, i suoi figli occupano 1’ex campo di concentramento di Fossoli (MO). La stampa parla di «guerra degli angeli». Il campo di morte si trasforma in «Città di Dio, Città di fratelli». Alle mamme si aggregano preti e coppie di sposi, disposti ad accogliere come propri i figli accolti. Nel 1948, con la stesura della Costituzione del «popolo nuovo», Zeno vede realizzato il suo sogno: è possibile fraternizzare le famiglie, applicare il Vangelo "come legge". Accolgono 120 «scartini» del brefotrofio di Roma e Pio XII lo riceve in udienza. Sosterrà di aver ricevuto dal Papa questo «mandato»: «Faccia, faccia lei la rivoluzione dal basso» (p. 115). Nel 1949 a Milano, per impulso di p. Turoldo e della contessa Albertoni Pirelli, sorge il Comitato pro-Nomadelfia. Esaltato dalla stampa, lodato dalle autorità religiose, il vento dello spirito in poppa, coinvolge nella sua utopia non solo operai e contadini, ma anche professionisti e "pennaioli" (intellettuali). La «Città dell’amore» è talmente attraente che alcuni religiosi fuggono dal convento e riparano da lui. Le signore-bene, in visita a Fossoli, si spogliano dei loro gioielli. Il personaggio Zeno - maglione a girocollo, basco, sigaretta, fare anticonformista, battuta pronta - conquista le simpatie di Alvaro, Gadda, Cavicchioli, Buzzati, Cederna, Porzio, Fallaci, Mazzolari, Balducci, Fabretti, e tanti altri.

2.      Quando l’utopia è alle stelle, comincia il declino

Ma a quell’utopista evangelico non basta ancora, perché il cambiamento deve venire dai «sacri palazzi». Scrive al S. Ufficio: «Quanti abusi in casa nostra: il clero si è assicurato casa e sostentamento, lasciando nell’abbandono coloro dei quali abbiamo detto di essere padri. Se questo non è scandalo. Un padre che nega il pasto al figlio, e per di più gli mangia in faccia, è finito, esautorato. Se questa non è empia eresia vorrei sapere che cos’è un’eresia. Se la Chiesa nega i sacramenti ai concubini, perché non si decide a imporre in coscienza la giustizia distributiva ai cattolici? Credete che Cristo possa sopportare le ingiurie in suo nome ai figli sofferenti?» (p. 182). Il vulcanico don Zeno interpreta il favore della stampa e la benedizione dei prelati come un segnale per lanciare la sua «profezia politica» con il Movimento della Fraternità Umana. Si tratta di riprendere alla lettera l’antica utopia, ma concretissima, degli Atti degli Apostoli (At 2, 44 ss.): «fraternizzare, livellando». Ossia condividendo «i due mucchi: da una parte chi ha i soldi, dall’altra chi non li ha» e, mettendoci insieme, «noi poveracci si va al potere senza colpo ferire» (pp. 83 s.,162 s.). Questo movimento apartitico è decisamente contrario a quello che, frequentemente e impropriamente, era considerato il «partito della Chiesa»: una formazione partitica che, secondo don Zeno, invece di applicare la dottrina sociale della Chiesa si illudeva di aiutare il popolo con la politica dei piccoli aggiustamenti. Nel 1950 ottiene di fare un convegno di lavoratori a Modena: benedetto dal vescovo locale, ma proibito da quello di Carpi (cfr p. 161). Strana ma rivelatrice divergenza, che don Zeno avverte ma non esamina a fondo. Un suo difetto, legato all’impulsività del carattere?

II fatto è che l’utopia zeniana è alle stelle e lui non intende fermarsi. Addirittura rivendica il dovere, per i sacerdoti coinvolti in Nomadelfia, di seguire i laici nelle loro scelte politiche: «altrimenti che fratelli siamo?». Travolto dall’entusiasmo, non s’avvede che il Vaticano non simpatizza per le iniziative che contrastano Gedda e i Comitati Civici, p. Lombardi e la «crociata della bontà», Ronca e i patteggiamenti con i partiti di destra, né s’avvede che in rapida successione viene defenestrato Dossetti, censurato Mazzolari, eliminato Mario Rossi, presidente innovatore dell’Azione Cattolica, vengono perseguitati i teologi francesi, repressi i preti operai. In alto lo si ritiene un velleitario, non il realizzatore di un esperimento d’avanguardia. Perciò si lamenta: «Quando sento dirmi costì che sono un illuso... Quando mi date lo schiaffo accusandomi che finanziariamente siamo disastrosi, mi tenete lontano con una calunnia» (p. 161). Intanto, un dossier della Prefettura di Modena metteva in allarme Roma per la finanza allegra e le idee sociali troppo spinte di don Zeno. Questi prosegue imperterrito, tra cambiali e sequestri: « Nel 1972, se non succederanno diaspore, saremo già arrivati a circa 120.000 fratelli» (p. 192). E’ logico, quindi, chiedere al Governo italiano «un territorio di 3.000 ettari solo per cominciare».

Umanamente è una temerarietà, ma per don Zeno è semplicemente l’utopia concretissima del «veniente Regno di Dio», per cui rassicura i suoi : «Quante volte ve l’ho detto! Non dimenticate mai che la nostra è un’opera di Dio». Infatti don Zeno è conscio dei suoi limiti umani: «Non ho mai creduto a me stesso, ma ai segni di Dio. Sono piccolo, molto piccolo davanti a queste cose più grandi di me, ma ci tengo ad affermare che sono stato condotto per mano dal Divino Maestro». Sicché, con moto pendolare, ricade nella megalomania: «Se avessimo in mano 1.000 parroci, avremmo la Chiesa in pugno» (pp. 72 s.). Ma era stato don Calabria a insegnargli, fin dal 1927, quando non era ancora prete, «l’affidamento totale nella divina Provvidenza, che è una sfida alle collaudate regole dell’umana economia». Risultato: un cortocircuito. Per mantenere i figli del popolo si sente costretto a emettere assegni a vuoto. Per i prelati, scandalo, per lui, atto cli fede: «Quando si fa un’opera straordinaria, bisogna esigere dal Signore segni straordinari. La nostra amministrazione è una maniera per mettere alla prova il Padreterno. Se proprio vuole quest’opera è Lui che deve sostenerla» (4).Ma è soprattutto quel suo fare da «prete-tribuno» - che vuol appianare ricchi e poveri, da mettere insieme nello spirito di Atti 2, 44 ss. - che sconcerta i benpensanti e cominciano i guai. Farà di tutto per dribblare le obiezioni vaticane, sostenendo che non è lui a promuovere il movimento, ma i suoi seguaci che, come laici, sono liberi di fare politica (5). Nelle elezioni amministrative del 1951, per protesta contro un Governo inadempiente (non eroga i contributi per gli accolti), i nomadelfi annullano le schede e la DC locale perde terreno. La goccia fa traboccare il vaso. Scelba, col pretesto dei debiti ordina la liquidazione coatta della «Città di Dio» e, mentre le camionette della polizia riportano nei collegi i ragazzi e gli adulti sono rispediti con foglio di via al luogo d’origine, l’autorità ecclesiastica ordina ai preti di ritirarsi da Nomadelfia. Un intervento che pone la gerarchia di fronte a un bivio penoso: il tacere avrebbe significato un passo indietro nella realizzazione del Regno - pur con gli eccessi legati al radicalismo zeniano -; d’altro canto, la soppressione avrebbe potuto innescare una reazione popolare, come ricorda p. Turoldo: «Le ragioni dell’intervento contro Nomadelfia non erano politiche; e neppure economiche. La ragione era che si aveva paura del Vangelo. Perché si può e si deve predicare il Vangelo, ma praticarlo è sempre un rischio, sempre un pericolo. Sarebbe [stata] proprio la Chiesa a impedirci di vivere il Vangelo. [...] Le ragioni erano che la Chiesa si sentiva "giudicata" dalla gente per causa di Nomadelfia» (6).

Nel febbraio 1952 il S. Ufficio allontana don Zeno e la Comunità si disperde. In ottobre viene processato a Bologna per truffa e millantato credito. E’ l’ora più difficile. Ramingo, combattuto tra 1’amore ai figli e alla Chiesa, come rimanere fedele a tutti e due? L’incontro con una delle «figlie» tornata alla malavita, lo indurrà a stare dalla parte delle vittime, fino a rinunciare a quanto ha di più caro: 1’esercizio del sacerdozio (7). La tragedia nel cuore: come obbedire a una norma disciplinare, passando sul corpo degli orfani? Cosa rispondere ai figli, che sente dire: «Dio è crudele con noi. Ci fa morire la mamma, poi ce la rida a Nomadelfia e adesso ce la fa morire di nuovo?». Constata: «Ce 1’hanno fatta pagare perché abbiamo detto di no in politica. Ci hanno crocifissi nel Suo nome, illusi di rendere gloria a Dio». E allora, perso per perso, nel 1953 lancia il suo terribile «j’accuse»: un libello (Non siamo d’accordo) prontamente sfruttalo da l’Unità durante la campagna elettorale: la DC sarebbe contro la Chiesa e contro sei milioni di miserabili. E’ la goccia che fa traboccare il vaso: ergersi a crociato dentro casa, perché la giustizia di Cristo - ben prima di quella marxista - trionfi, proprio non va (8). E deve andarsene, ma non può fare diversamente, anche se ha la morte nel cuore.

Lo intuiamo da quanto Scrive a mons. Montini: "In nome di quale Dio noi oppressi possiamo essere indotti a votare per consegnare il potere in mano ai nostri oppressori? Voglio riportare in grembo alla Chiesa, vivi e travolgenti, gli oppressi, sola forza sana rimasta di riserva. Questo deve essere l’interesse massimo che la Chiesa ha da difendere: strapparci dalla schiavitù, dallo sfruttamento, perché possiamo respirare da uomini, da immagini di Dio. Andate voi all’elemosina, noi non ci vogliamo più andare. Vogliamo fare i conti. E’ Vangelo genuino. Vogliamo essere uomini». E conclude l’amaro sfogo con queste righe: «Neppure la Suprema Autorità della Chiesa può consigliare delle persone, legate tra loro da rapporti ex iustitia, ad abbandonare il loro posto di responsabilità e alla deriva i figli. Non ha nessun diritto di ingannare la gente e nessun mandato di violare i diritti naturali e soprannaturali, per soddisfare i suoi piani, anche se fossero i più santi. Io perdono, ma non posso faro quello che neppure Dio può fare: essere ingiusto!» (9).

3. Laicizzazione, «Maremma amara» e risurrezione di Nomadelfia

Combattuto tra la fedeltà alla Chiesa e la fedeltà alle vittime, don Zeno è anche «disposto a ritornare come un topo nella stiva della barca di Pietro; ma complice di quelle ingiustizie non mi farà nessuno» (p. 262). Gli eccessi dell’ingiustizia, il senso di complicità lo fanno esplodere: «Dico di no... Dico di no! Io ho vissuto 23 anni di sacerdozio sempre in antitesi alla vostra mentalità e al vostro costume sociale!» (p. 234 s.). Come obbedire alla disciplina ecclesiastica e obbedire alla legge divina della paternità sugli abbandonati, che senza di lui vanno a finire male? La scelta gli appare obbligata e, anche sostenuto dal card. Ottaviani, scrive: «Se non posso essere loro padre come sacerdote, lasciatemi esserlo come laico». Inizia il tribolato cammino verso la libertà dagli obblighi ecclesiastici, per poter esercitare in toto paternità e fraternità. Lui solo sa quanto gli costa (10). Don Zeno chiede e ottiene la riduzione allo stato laicale: sacrificio enorme.

Ma intanto, sottratto il comandante, la nave va a fondo. Ammiratori e benefattori si eclissano, autorità civili e soprattutto religiose gli voltano le spalle: il vescovo revoca il decreto di approvazione; il card. Schuster sconfessa il movimento di Nomadelfia; Padre Pio - un tempo suo ammiratore - non lo riceve. Si giunge al salasso della comunità: da 1.170 a 300 membri; da Opera di diritto diocesano a Società civile, fondata in extremis per salvare il salvabile (è la Società dei Nomadelfi). I superstiti riparano nella tenuta Rosellana (acquistata dalla contessa Albertoni Pirelli), nei pressi di Grosseto. Fame, debiti, sospetti e calunnie: provati dalle avversità, resistono a denti stretti. Una sola certezza: «L’amore non si scioglie» (p. l98).

Nel frattempo, senza nulla giustificare, don Zeno legge gli avvenimenti sotto altra luce e, il 10 dicembre 1952, scrive: «Cari figli, questa dispersione è un grande atto di bontà del Signore perché ci ha liberati dal pericolo di rimanere affogati da troppe anime che non capivano la nostra missione. Se vogliamo donare alla Chiesa una città di Dio è necessario approfittare di questa santa occasione per essere pronti ad avere la casa e prontissimi a perderla: pronti ad avere la famiglia e prontissimi a disperderla. Quanti poveri sono costretti ad emigrare per necessità, noi per Amore a Cristo ed alla sua Chiesa. Quando saremo arrivati a questo spirito avremo donato al mondo non più una Nomadelfia, ma la Città di Dio. Quindi sono sicurissimo che non è stata la S. Sede o il Governo a disperderci, ma il Signore per farci fare un passo avanti. Quando saremo la Città di Dio, il Papa ci abbraccerà. Io obbedisco alla S. Madre Chiesa come sacerdote e voi come laici. Questo è amore, quell’amore che che abbiamo promesso a Dio. Chi è da Dio tra noi capirà questa lettera» (p. 236). Nella «Maremma amara» lui (11) e i superstiti conoscono i morsi della fame, sotto le tende, il lavoro massacrante nel far legna e calce per riprendere 1’utopia: costruire la «Città di Dio» (cfr pp. 197 s.).

Come se non bastasse, nel 1954 avverte che la comunità zoppica: «Notavo che le famiglie isolate erano come le famiglie borghesi, ognuna per sé; qua e là privilegi, preferenze, invisibili crepe; i celibi e i figli accolti trascurati, un po’ in disparte. I figli individualisti, insensibili verso quelli delle altre famiglie, chi stava meglio, chi stava peggio, chi li viziava e chi non li viziava, chi consumava di più, chi di meno». Si tortura alla ricerca delle cause del «tarlo comunitario». «Una notte, dopo 23 anni, m’accorgo che in Nomadelfia c’è qualcosa che non è secondo la sua natura. Mi viene in mente la famiglia patriarcale nella quale sono nato. Così unita! Non si abbandonavano né figli, né vecchi, né inabili. Se con il vincolo del sangue si sono fatte le famiglie patriarcali, le tribù, i clan, che cosa si potrebbe fare con quello della fede? Dico: ho trovato una soluzione rivoluzionaria! Faremo dei gruppi di 3-4 famiglie che condividono la vita ed i figli si sentiranno sotto un ombrello più sicuro di rapporti e di affetti. Come si pretende la fraternità tra gli individui, perché non pretenderla tra le famiglie? 0 fratelli anche come famiglie o non ne vogliamo sapere» (12).

A furia di piccoli passi e di fede eroica, si delinea una nuova figura della «Città di Dio»: il gruppo familiare. Una casa centrale comune; delle casette attorno con le camere da letto per i coniugi e altre per i più grandi; gli orti comuni; animali da cortile. La casa centrale è il teatro diurno del gruppo: dispensa, cucina, lavanderia, stireria, TV, tutto il necessario per i bisogni di tre/quattro famiglie. Il bambino vede in ogni momento, che la sua mamma lava, stira, cuce, cucina, non solo per sé, ma per tutti. Allora si rende conto che la mamma è universale.

Anni di revisione interna, di «eremo sociale», di lavoro duro, in silenzio, con tanta diffidenza e incomprensione tutt’attorno. Ognuno diceva la sua: che erano comunisti, che erano diretti da uno spretato. Ma il vescovo di Grosseto li appoggia e così riescono a ottenere gli aiuti per la bonifica, l’acquedotto, la stalla, gli impianti agricoli. Sistemati i debiti, don Zeno sentiva il bisogno di riprendere la sua testimonianza sacerdotale, così da veicolare il pensiero della Chiesa non attraverso altri sacerdoti, ma lui stesso. Perciò scrive al Papa per ottenere di riprendere 1’esercizio del sacerdozio e in Vaticano ora sono più bendisposti, ma si trovano alle prese con una Società fondata sui princìpi del Vangelo e non sanno come inquadrarla nei loro schemi. Allora don Zeno propone che, essendo una popolazione, la facciano parrocchia e lui ne sia il primo parroco. Così nel 1962, grazie a Papa Giovanni XXIII, don Zeno - che per diecianni è andato a Messa come ogni buon fedele laico - ha la gioia di celebrare la sua «seconda prima Messa», parroco della «prima parrocchia comunitaria della Chiesa», e riprende con nuovo slancio - da quel vulcano che era - mille altre iniziative, tra cui la carovana di Nomadelfia-nomade: un gruppo viaggiante di famiglie per recare dappertutto il fermento e l’utopia di Nomadelfia. E se Paolo VI nell’udienza del 1975, augura loro di «realizzare il vostro nome», nel 1980 – quando a Castelgandolfo i nomadelfi offrono a Giovanni Paolo II lo spettacolo del «Vangelo della danza» - il Papa abbraccia lungamente quel prete temerario, che aveva osato tentare un esperimento di Vangelo sine glossa, realizzando una concreta avanguardia del Regno nel frattempo della storia.

4.      Una figura che suscita interrogativi

Don Zeno, colpito da infarto il 12 gennaio 1981, ritorna alla Casa del Padre il 15, lasciando ai nomadelfi e a tutti noi un’ardua, intrigante eredità. Quella che ancor oggi interpella tutti, sollecitando il nostro discernimento e continuando a interrogarci: quanto affiora dalle parole e dalle opere zeniane fu esaltazione arrogante oppure la forza e la stoltezza tipica della croce? Don Zeno fu ingenuo, temerario o radicalmente evangelico? Domande inquietanti ma non eludibili, che fanno tutt’uno con Nomadelfia: 1’opera che vive tuttora nella Maremma interpella non solo i nomadelfi, ma tutti i cristiani. Per lui la «Città di Dio» è come la fiaccola sul monte o 1’avanguardia di quella giustizia sociale che aveva proposto col movimento dei «due mucchi». Perché, quindi, tante incomprensioni e ostilità?

Forse aveva ragione il Nunzio mons. Borgongini Duca quando, in visita alla comunità, esclamava: «Nomadelfia non si può capire da Roma, bisogna vederla con gli occhi!». Una vita, non un’idea. Il fascino irresistibile di un «radicalismo evangelico che non poteva essere respinto di principio» (p. 308), ma che non era (né lo è tuttora) facile da accogliere (13).

Ben lo aveva intuito, e lo anticipava nel 1953, l’avvocato Luigi Vecchi, al processo di Bologna, riflettendo sull’imputato Zeno Saltini: «Noi pensiamo al nostro prossimo per dieci minuti al giorno, poi torniamo a chiuderci in noi. Ma Nomadelfia aveva aperto le sue porte sul mondo, né poteva dire basta agli orfani. Come mai, nonostante gli aiuti della generosa Milano e i tanti consensi, non ha potuto continuare? E’ una risposta difficile. Un giorno forse, non qui, quando dalla cronaca passeremo alla storia, noi rifaremo il processo a Nomadelfia. O forse sarà Nomadelfia che lo farà a tutti noi?» (p. 236).

(1) Cfr art. 1 degli statuti di «Città di Nomadelfia» (1948), in RINALDI R., Don Zeno, Turoldo, Nomadelfia. Era semplicemente Vangelo, Edizioni Dehoniane, Bologna 1997, 255.

(2) Cfr. MARINETTI F., Don Zeno, obbedientissimo ribelle , Meridiana, Molfetta (BA) 2006. D’ora in poi, tutte le indicazioni nel testo si riferiscono a quest’opera (i corsivi riprendono quelli del testo). Per una rassegna bibliografica generale cfr VANZAN P., «Don Zeno e Nomadelfia: la genialità dell’amore», in La Civiltà Cattolica, IV (2006) 45-55, mentre per un aspetto originale cfr FEMMINIS S., «Nomadelfia: la proposta di un popolo nuovo», in Aggiornamenti Sociali, 7-8 (1999) 569-578.

(3) La parola utopia, quando la si usa nell’orizzonte del Vangelo, non è chimera né velleità, ma progetto realizzabile già nel frattempo della storia mediante lo Spirito. Cfr CAMPANINI G., «Don Zeno e "I’utopia" di una società cristiana», in Guasco M. - TRIONFINI P. (edd.), Don Zeno e Nomadelfia, Morcelliana, Brescia 2001, 323-338.

(4) MARINETTI F., L’eresia dell’amore, Borla, Roma 2000, 32 s. e 39 s. Per capire un «diverso» come don Zeno bisogna mettersi nella sua pelle, quella di uno che è convinto di avere una missione particolare: «C’è un piano per me che, lo sento, è di Dio» (57).

(5) p. Turoldo testimonia: «Molti preti mi parlavano di lui come di un uomo pericoloso o, comunque, esagerato: un folle utopista dal quale era bene guardarsi» (ANONIMO, Il Comune di Carpi, Nuova Serie, 3 [1981]).

(6) RINALDI R., Don Zeno, Turoldo, Nomadelfia. Era semplicemente Vangelo, cit., 241 s. E a p. 143 leggiamo: «Ci hanno fermati perché avevano paura che stessimo riuscendo, che noi facessimo la rivoluzione cristiana. Ed è stata impedita dalla Chiesa con la DC».

(7) «II tuo obbedisco solleva quesiti che vanno oltre la tua persona. Se sei convinto di obbedire a un ordine sbagliato non hai agito contro coscienza? Neppure Dio può ordinarci di farlo? Oppure l’hai fatto come gesto da kamikaze per amore alla Chiesa? Ma allora questa obbedienza è talmente eroica da meritarti un posto nella tribuna del Bernini!» (MARINETTI F., L’eresia dell’amore, cit., 209).

(8) Amara questa sua constatazione: «Nessuno può comprendere il nostro pianto perché nessuno al mondo ha vissuto questa vita sociale». Su tutto questo periodo cfr dettagliatamente SGARBOSSA M., Don Zeno...e poi vinse il sogno, Città Nuova, Roma 1999, 199-230, e quanto don Zeno scrive al card. Ottaviani, al quale va riconosciuto un costante prodigarsi in favore di quell’utopista: «Se non credessi nella Chiesa avrei già risolto il problema. Me ne sarei andato senza voltarmi indietro e senza risentimenti. Invece la Chiesa mi scorre nel sangue e anche laicizzato sarei due volte sacerdote e difenderei ugualmente la Chiesa fuori della quale, comunque, è la perdizione» (ivi, 239).

(9) MARINETTI F., L’eresia dell’amore, cit., 204 s. e 258 s.

(10) Cfr ivi, 204 s. Difronte a tali dilemmi e sofferenze, sconcertanti le accuse prodotte dal Nunzio Apostolico: mancanza di pietà, di messa quotidiana, di recita del breviario, di talare, e lavoro manuale, che «non s’addice alla sacerdotale dignità» (194).

(11) Cfr GALLI V. A., ...Qualcosa del padre... Don Zeno fondatore di Nomadelfia, Cantagalli, Siena 2004.

(12) CICERI G., Zeno. Un’intervista, una vita, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1986, 289 s.

(13) Di fatto, la personalità di don Zeno è sconcertante, come del resto la sua utopia:tutto fuori misura, oltre gli schemi. Ecco come tratta i suoi: «Mutano i ritmi della vita nel popolo, muta il ritmo del passo di Dio, muta con ciò stesso il ritmo del mio passo, ebbene muta con ciò stesso l’Opera Piccoli Apostoli. Oggi ordino silenzio, domani conversazioni, oggi dico pregate, domani lavorate, oggi dico studiate, domani dico buttate i libri a mare. Ma tanto oggi quanto domani in sostanza dico: vivete l’ora che in Dio passa e vivetela tale e quale Lui ve la presenta. Se tu oggi puoi e vuoi piangere con me, domani non puoi o non sai ridere con me, ciò non significa che io cambio, viviamo tutti e due ma con questa differenza: che tu domani vivrai una vita diversa dalla mia, oggi siamo perfettamente insieme e domani completamente divisi» (1938, quaderno 2°, 8 s.).



Venerdì, 19 ottobre 2007